Le ragioni di un impegno nuovo

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La scienza giuridica è esplosa. La fine delle Scuole, l’eclettismo dei metodi, la frammentazione e la dispersione della comunità scientifica, il deperire dell’accademia, la divisione e la nullificazione dei saperi, accompagnata dalla morte (per suicidio o per omicidio?) dei Maestri ha reso tutti egualmente liberi, tutti egualmente legittimati a ius dicere. Ma se tutti “dicono” il diritto, il diritto è tutto ed ogni cosa: cioè nulla. Assistiamo così alla dissolvenza del diritto come scienza. Ecco allora che la libertà prospettata si rivela una libertà dalla scienza.
L’eclettismo è il 
cliché del diritto nella postmodernità. Il diritto non appartiene più a nessuno, nessuno può più appropriarsi del diritto. Nessuno può più negare cittadinanza ad argomenti, soggetti o tesi “giuridiche”, nulla diventa inammissibile, tutto è invece possibile. Mettere insieme pezzi, tra loro magari eterogenei, ma comunque utili allo scopo specifico perseguito (alla tesi da sostenere), non è più indice di incoerenza, ma solo di fantasia creativa. Una fantasia che non deve venire imbrigliata in schemi prescrittivi, e dunque ogni volta l’opera del giurista ricomincia da capo, senza memoria e senza limiti (neppure quello della coerenza personale).
Il diritto come scienza è morto.

Il quadro ora disegnato è estremo. Ma quanto lontano dal vero? Può anche tutto essere ridotto riconoscendo che viviamo (solo) un periodo di crisi della dogmatica. Così la scena appare molto meno drammatica. Sebbene non vedo cosa ci sia di tragico nel dramma. E dunque la scelta di riportare la comprensione dei fenomeni reali e la profondità della crisi entro schemi consueti, può non essere la migliore.

In ogni caso, ciò che qui importa rilevare è che la situazione in cui versa attualmente il diritto e la sua scienza si riflette sul nostro modo d’essere di studiosi. Questo ci impone di prendere partito.
Ma, il rischio di prendere partito in una situazione di kaos – in una situazione cioè in cui non è chiaro l’orizzonte entro cui collocare la propria riflessione critica – è quello di cadere nel pregiudizio. In buona fede, magari, ma comunque pregiudizialmente.
Per uscire da questa aporia apparente e riuscire a “prendere partito, senza pregiudizio” può essere utile un luogo di riflessione non neutro. Un luogo di riflessione “accademica”, dunque rigorosa, votato alla ricostruzione e individuazione di modelli epistemologicamente significativi da sottoporre alla verifica del reale. Ma anche un luogo non neutro, proponendo uno specifico punto di vista della scienza. Un punto di vista dichiarato, ma non asserito; anzi è proprio questo punto di vista che si propone di sottoporre a discussione e verifica.
Un luogo di riflessione non neutro che nel confronto rinviene la sua forza. Una “forza” peculiare, poiché peculiari vogliono essere le forme e gli scopi del confronto.
Nelle forme, perché non di tutto si vuole discutere, ma solo di ciò che nella prospettiva complessivamente propugnata si ritiene utile e rilevante. Poi, una volta delimitato il campo degli interessi, selezionati gli argomenti e le prospettive, la discussione si svilupperà (così almeno auspichiamo) senza remore o diplomatismi, non celando, bensì ricercando le differenze. Discussioni selezionate, ma senza rete, dunque. Una prospettiva desueta se confrontata con lo stile abitualmente proprio delle discussioni accademiche (ma non solo) tese a dare dignità ad ogni argomento, ma anche a nascondere o almeno attenuare le differenze. Aborriamo le discussioni diplomatiche e bizantine, non tanto per l’astratto gusto della polemica aperta e leale, quanto soprattutto perché riteniamo non ci sia altro modo per fare emergere le ragioni di un punto di vista. Siamo consapevoli cioè che solo mettendo in giuoco le proprie certezze si può sperare nel raggiungere nuovi traguardi e più solide convinzioni, solo mettendo in giuoco se stessi si può sperare di far prevalere le proprie ragioni su quelle altrui. Se invece si è troppo orgogliosi e chiusi in difesa dei propri argomenti, crediamo si finisca per fare un cattivo servizio a se stessi ed alle proprie idee. Dunque sono le ragioni della nostra parzialità che ci spingono a sollecitare un confronto aperto e vero. Parlare a noi stessi non ci conviene e non ci interessa. Un’intenzione di apertura che – permettete di dire – non ci appare consueta in tempi dove la riflessione pubblica appare dominata da solipsismo e dell’autoreferenzialità. Non saremo ecumenici, insomma, ma di parte – partigiani – convinti però che anche nella parzialità possa rinvenirsi il tutto. Della parzialità facciamo dunque l’elogio. Convinti come siamo che non di tutto valga la pena occuparsi, ed anzi che il rigore scientifico e la coerenza delle idee impongano di escludere molte questioni, fedeli alla massima semplice e profonda che un grande intellettuale, il più rigoroso del secolo scorso, ci ha consegnato: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Anche gli scopi che si propone questa nostra impresa collettiva vogliono essere dichiarati e aspirano ad essere peculiari. Peculiarità antica, ma che oggi sembra dimenticata. Il confronto che si andrà sviluppando in questa sede, non vuole essere fine a se stesso, ma strumento di lotta per il diritto. Palestra e laboratorio per trasformare il reale. Nella assoluta consapevolezza dei limiti soggettivi e nella sproporzione tra il fine e il mezzo, ma pure nella convinzione della forza dirompente delle idee. Convinti che gli edifici più solidi e le opere più impegnative sono formate da tanti piccoli mattoni, riteniamo che un mattone può essere il nostro. Non ci proponiamo dunque di assaltare il cielo, ma solo di fare la nostra parte di studiosi responsabili.
Non abbiamo alcuno scopo politico né palese né occulto, la nostra ambizione è più alta: puntiamo a intervenire su ciò che viene prima del politico, sul piano della elaborazione delle culture giuridiche. Come studiosi, ci assumiamo in proprio la responsabilità del nostro impegno, rivendichiamo la necessità di una partecipazione diretta alle vicende del mondo, crediamo urgente riflettere sulle trasformazioni rapide e profonde che ci riguardano e che non sempre riusciamo a cogliere con la dovuta lucidità.
Un impegno sollecitato anche da qualche comune preoccupazione, avvertiamo infatti che non pochi sono i pericoli che la cultura attualmente egemone porta in sé. Una cultura “dominante” che noi contrastiamo, non tanto perché inconciliabile con le nostre particolari visioni del mondo (Weltanschauung che la storia ha il diritto di superare o smentire), quanto perché temiamo possa finire per minacciare alcune conquiste di civiltà (giuridica e costituzionale, nel nostro caso) che la storia ci ha consegnato ed alle quali non vogliamo rinunciare. Non siamo persuasi che tutto ciò che è reale, sia anche perciò stesso razionale. Riteniamo invece che la storia si sviluppi non linearmente, non segua alcun disegno “superiore e inarrestabile”, ma che sia fatta dagli uomini, dalle culture che questi riescono ad esprimere, dalle forze e dagli interessi che periodicamente si impongono. Proprio questo nostro “umanesimo integrale” ci porta a considerare l’attuale fase che vive l’umanità a rischio di regresso; ma ci porta anche a ritenere che valga la pena opporsi, non essendo condannati a soggiacere alle attuali particolari “sorti e progressive”.
Non crediamo che il nostro atteggiamento critico sia viziato da ingiustificato pessimismo, e l’ultima guerra scoppiata – ahinoi – lo dimostra con tragica evidenza. Tutto infatti può pensarsi circa gli avvenimenti che hanno portato al conflitto tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra da un lato e l’Iraq dall’altro, ma non potrà negarsi che l’uso dello strumento della guerra per risolvere un conflitto internazionale rappresenta (in sé e per sé) un regresso di civiltà. Ancor più se la guerra – come alcuni ritengono (noi non lo pensiamo affatto!) – in questo caso non poteva essere evitata: entro questo schema mentale, l’abbandono dei principi irrinunciabili di civiltà è ancor più marcato. Nessuno potendo negare che la guerra è barbarie. Dal nostro specifico punto di vista di giuristi, inoltre la guerra rappresenta (in sé e per sé) la resa del diritto, di quello internazionale e costituzionale in particolare. Che poi “questa” guerra sia stata condotta con l’assoluto disprezzo delle ragioni del diritto e in violazione palese del diritto internazionale e del diritto costituzionale (come cerchiamo di dimostrare in questo stesso sito con i contributi pubblicati nella parte dedicata al “costituzionalismo alla prova”, inevitabilmente dedicato alla guerra), non può che accentuare l’urgenza di una riflessione e di un impegno comune che si opponga alla brutalità della forza ed all’irrazionalità delle armi. In particolare crediamo che nessun giurista possa rimanere indifferente dinanzi alla resa senza condizioni del diritto e delle sue ragioni.

La prospettiva da noi propugnata ci porta ad opporci, spesso anche radicalmente, allo stato delle cose. Non vuole però essere solo opposizione, e meno che mai pura testimonianza. La nostra principale intenzione – si ripete – è di proporre un punto di vista. Un punto di vista dichiarato e motivato analiticamente in un altro contributo pubblicato su questo sito (le ragioni di una rivista nuova). Un punto di vista sulle Costituzioni e sul costituzionalismo che può sinteticamente definirsi “normativo”, credendo noi nella forza normativa delle costituzioni e nella capacità che nel corso della sua storia ha avuto il costituzionalismo di farsi legge “superiore”.
Entro questa prospettiva generale riteniamo che alcune conseguenze di metodo siano inevitabili. Contrastiamo l’eclettismo metodologico nel diritto, riteniamo che il formalismo (di cui pure conosciamo il valore e l’importanza nella determinazione dogmatica del diritto) debba necessariamente coniugarsi con un metodo di ricerca e di riflessione giuridica necessariamente realistico. Un metodo realistico che – secondo la migliore tradizione – si esprime anzitutto come critica del reale. Per questo riteniamo necessario tornare a riflettere su tutte le categorie fondanti il diritto costituzionale, per verificarne il permanere delle loro capacità ermeneutiche. A tal fine siamo pronti a svolgere la necessaria critica dell’ideologia, quando questa risulta utile per disvelare mistificazioni concettuali o teoriche; ma ci sforzeremo anche di mettere in chiaro il contrasto tra il nostro modo di vedere (e le ragioni ad esso sottese) e le diverse altre concezioni. Fare i conti con la realtà, anche per il giurista, non vuole dire accettazione acritica di alcunché, bensì capacità di comprensione di quel che accade e capacità di elaborazione di modelli teorici e di prospettive concrete storicamente adeguate ai tempi. Poi, in base alle condizioni di fatto, alla maggiore o minore forza argomentativa e persuasiva, questi modelli e prospettive potranno realizzarsi, ma questo ulteriore passaggio già comincia a fuoriuscire dal dominio degli studiosi, dalla riflessione teorica e di analisi giuridica, per proiettarsi sullo schermo della politica e della sua realizzazione.
L’opzione realistica, così come delineata, si intreccia con una seconda questione che pure vale a caratterizzare il nostro punto di vista. Riteniamo infatti che non sia sufficiente dirsi positivisti. Poiché è certo che il dato positivo non può essere pretermesso, e il giurista non può fare prevalere sue soggettive opzioni di valore o principi giusnaturali rispetto alla realtà espressa dagli istituti giuridici positivi. Ma è anche vero – ancora una volta – che ciò non comporta necessaria supina accettazione, né confinamento del giurista nell’angusto territorio dell’esegesi normativa. La rigorosa adesione al principio di legalità, non vuol dire acritica assunzione di qualsivoglia contenuto normativo, purché – magari – così definito dall’ “opinione prevalente”. Anche i dati positivi richiedono di essere interpretati e inseriti in un circolo ermeneutico che se non deve prescindere dal testo, a questo deve dare corpo e sostanza.
Qui si trova un terzo elemento che vuole caratterizzare la nostra prospettiva: la storia e il suo ruolo determinante per la riflessione giuridica. Infatti, tanto il realismo quanto il positivismo, per come sono stati qui definiti, non possono che declinarsi nel confronto con la storia. E’ solo sulla base delle trasformazioni storiche che la critica del reale può trovare un suo fondamento, così come è principalmente l’evoluzione storica che sollecita diverse interpretazioni del dato positivo. Senza un ancoraggio storico ogni costruzione giuridica “realistica” si poggia sulle nuvole e riflette esclusivamente visioni soggettive, così come ogni interpretazione delle norme “positive” risultano preconcetti astrattamente posti. Questo terzo carattere, il confronto con la storia, appare dunque il più decisivo per affermare una prospettiva “normativa” della costituzione.
Ma ciò vuol dire che è la storia che ha dato (e, c’è da sperare, continuerà a dare) forza e valenza “normativa” alle costituzioni ed al suo diritto. Il che per il passato non può essere messo in discussione. Troppo note sono le vicende del costituzionalismo moderno (quelle che hanno origine con il sempre richiamato art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) e quelle legate all’affermarsi delle costituzioni “prescrittive” (che negli “Stati costituzionali” hanno trovato la propria apoteosi), per dovere essere ancora una volta ricordate. Ciò che vale qui la pena richiamare è invece che su questo fondamento storico si è proceduto all’intera edificazione del giuridico nella modernità. Questo processo ha prodotto col tempo i suoi valori, dando così man mano sostanza ad espressioni che si pongono ormai a fondamento di legittimazione delle nostre democrazie e dei nostri sistemi costituzionali. Diritti, eguaglianza, giustizia, governo delle leggi, organizzazione del potere, sono connotati che nella storia dell’uomo si sono sempre posti a fondamento della convivenza sociale ed hanno caratterizzato i rapporti tra i consociati; ma non sempre (anzi mai) hanno voluto dire la stessa cosa, tampoco nei rapporti giuridici. La storia del costituzionalismo moderno li ha declinati, facendogli assumere non solo il significato che essi attualmente possiedono, ma sprigionando tutte le loro potenzialità normative.
Noi ci collochiamo all’interno di questa tradizione, seppure avvertiamo l’urgenza di una riparametrazione, poiché la storia del mondo non si è interrotta, accelerando anzi il suo corso. Non vediamo però altre strade percorribili, né vogliamo allegramente lanciarci nel vuoto.
Forse vale la pena impegnarsi a riflettere.

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