Multiculturalismo e sviluppo della società italiana*. (Dallo Stato pluriclasse allo Stato monomorfo)


In apertura dei lavori giova premettere che la problematica del multiculturalismo, anche se attualissima, ha una genesi risalente se si pensa che la stessa Costituzione si caratterizza per una prospettiva pluralista, che riguarda sì un discorso diverso, ma sotto molti profili affine a quello in oggetto. Il punto d’ingresso di tale prospettiva è rappresentato dalle numerose disposizioni dedicate, appunto, ai varî pluralismi: religioso (art. 19 Cost.), culturale (artt. 21 e 33 Cost.), associativo (sociale, economico e politico: artt. 2,18, 39, 49 Cost.), istituzionale (i differenti livelli orizzontali e verticali: 55 ss, 83 ss, 92 ss, 101 ss, 134 ss, art. 114 ss Cost.).
Tuttavia, mentre la maggioranza di questi pluralismi è rinvenibile in una tradizione storica che ha continuato ad evolversi con una sua logica coerenza, quello economico sociale, per una serie di comprensibili ragioni, visioni e divisioni politico-ideologiche s’è imposto come fattore dominante (il Knotenpunkt) del dibattito politico-giuridico dal dopoguerra ad oggi. Infatti, il pluralismo economico-sociale configura l’elemento chiave del conflitto politico (in certi periodi pure estremo), in parallelo coll’affermarsi ed il protrarsi d’una visione interclassista della società, stante la partecipazione di tutte le classi al potere politico. Cosa, questa, come vedremo, non priva di rilevanti riflessi pure sulla medesima concezione giuridica, ovvero sui contenuti dello stesso concetto di diritto e sui presupposti di riferimento relativi alla sua natura, e quindi sul modo di affrontare e risolvere le problematiche “multiculturali”.
Cioè a dire, proprio il riconoscimento d’una società divisa per strati economici è stato il passaggio cruciale sia per determinare la forza dei c.d. partiti di massa e/o popolari rispetto a quella precedentemente ed esclusivamente espressa da altri gruppi dominanti, sia per giustificare l’inserimento nel testo costituzionale del corpus dei diritti sociali, che hanno rappresentato l’evoluzione ed il completamento di quello Stato di diritto, il quale, in virtù della loro presenza, è andato al di là della liberal-democrazia per concettualizzare quella forma di stato democratico di diritto che, appunto, promuove la convivenza delle classiche garanzie di libertà con un nuovo impianto relativo a quelle sociali.
Non è che precedentemente mancassero princìpi di tale ispirazione, peraltro già presenti fin dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, oppure nelle normative della prima metà del Novecento, specialmente in materia di tutela del lavoro, della famiglia, dell’infanzia, di previdenza, di assistenza, eccetera. Ciò nondimeno, nella Costituzione vigente sono state poste, riformulate e codificate regole che, come s’è detto, nel bene e nel male, hanno consentito un gioco democratico basato anche su nuovi assetti istituzionali (si pensi alle regioni, alla Corte Costituzionale, ai TAR, eccetera), aprendo la strada, nel contempo, a nuovi confronti sul piano della dinamica politica e, soprattutto, giuridica, non di rado sottoposta, quest’ultima, a processi di ibridazione (e contaminazione) con altre discipline scientifiche.
In tale quadro, lo svolgimento del c.d. stato interventista (o welfare state, o stato sociale, eccetera), particolarmente grazie ai significati attribuiti a quell’uguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell’art. 3 Cost. -che è uno dei più sintomatici coefficienti di novità dell’assetto costituzionale repubblicano- ha comportato numerose penetranti conseguenze, in quanto, allargando e polverizzando smisuratamente il campo d’azione, esso ha finito per condurre ad un’iperproduzione normativa che, da un lato, ha determinato un crescente stato di caos legislativo, e, dall’altro lato, ha assestato un fiero colpo al principio di certezza del diritto, rendendo un utile servizio a quelle concezioni che sostenevano l’esigenza di nuovi approcci e nuovi modi di ricercare le soluzioni. Concezioni che, invero, giustificavano tale caos partendo dalla forte ed inarrestabile disomogeneità sociale ed economica dello stato pluriclasse e contrapponendo quest’ultima all’omogeneità tipica dello stato borghese, sulla quale sarebbe stata tarata la tenuta dello stato di diritto. Così, per far fronte ad asserite inarrestabili contraddizioni venivano criticati i presupposti dello stato di diritto, giudicandoli inidonei rispetto ad un’organizzazione socio-economica sempre più complessa e non più governabile sulla base del diritto formale, che avrebbe dovuto lasciare il passo ad un approccio giuridico più flessibile ed adattabile alla ragion pratica giurisdizionale del caso per caso. Tendenza questa che è spesso incappata negli opposti già denunciati da V.E. Orlando della degenerazione filosofica (“troppo filosofi, troppo politici, troppo storici, troppo sociologisti e troppo poco giuristi”), ovvero della disumanizzante esagerazione esegetica circoscritta al “mero esame di un documento legislativo”, in cui la scienza giuridica viene ridotta ad ”arida casistica”, rompendo ogni nobile alleanza con una qualche forma di metodo cui potersi collegare per essere contemplabile in tale veste.
Di qui il ricorso ad un mondo di princìpi non più intesi quali punti fermi del sistema, ma come valori mobili da riempire di significato, volta per volta, attraverso nuove sensibilità e nuovi modi d’intendere le soluzioni per affrontare la concretezza dei problemi imposti dal progresso. Attività, questa, consegnata nelle mani d’un giudice legislatore in una dimensione di pansociologismo praticistico (frutto di un’asserita “rinascita della filosofia pratica”) nella quale si sono cercate risposte ad interrogativi che, ad esempio, vanno dalla definizione della natura giuridica delle fondazioni bancarie, alla soluzione delle problematiche che coinvolgono la competenza concorrente Stato-Regioni a valle della riforma del titolo V della Costituzione. Tutto ciò a partire dall’idea che il potere giudiziario, nel contesto del c.d. moderno Stato interventista, interpreterebbe un ruolo di rincalzo del potere legislativo, svolgendo un’opera di riordino sistematico d’una legislazione ipertrofica, della quale garantirebbe la corrispondenza al divenire sociale.
Evidentemente, per poter procedere in questa direzione si sono dovute prendere le distanze rispetto ad una serie di princìpi caratterizzanti il modello giuridico dello stato di diritto così come recepiti dal nostro spartito costituzionale, a cominciare dal principio di legalità e da quello di separazione dei poteri, per non parlare della forte espansione del fatto normativo a discapito della concezione formale dell’atto giuridico o, più in generale, del positivismo giuridico comunque inteso. In altri termini, è sullo sfondo appena descritto che s’è consumato lo scontro tra la civiltà dei princìpi, che mira prevalentemente a garantire la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni dei giudici, e la civiltà dei valori che è disposta ad accettare un margine d’incertezza, anche notevole, privilegiando piuttosto la capacità del sistema giuridico d’adattarsi alle circostanze sulla base della convinzione che debba essere perseguita la massima elasticità dell’ordinamento e, conseguentemente, la massima espansione dell’interpretazione da parte degli operatori del diritto: la famosa ragion pratica.
In entrambi i casi, si prende atto del pluralismo della società contemporanea, arrivando, però, a conclusioni opposte. Per la corrente del diritto per valori, il rispetto del pluralismo della società attuale, da cui deriverebbe il pluralismo dei valori, ne imporrebbe la “dialettica” convivenza; seguendo, invece, un approccio formale, al contrario, è proprio il pluralismo della nostra società, e la contemporanea presenza di valori antinomici che ne deriva, a far sentire l’esigenza, ora più che in qualsiasi altro momento, della loro affermazione a livello del diritto positivo, (affermazione) che li dovrebbe cristallizzare in un’ordinata gerarchia.
Tanto premesso, e tornando al problema del pluralismo economico-sociale dello stato interventista, nell’àmbito del quale la disomogeneità del contesto sociale sarebbe il presupposto dell’attuale inarrestabile schizofrenia legislativa, va rilevato che, a ben vedere, di fronte alle profonde evoluzioni che hanno investito da tempo la società occidentale, specialmente in quest’ultimo decennio, emerge un quadro notevolmente mutato se non radicalmente diverso. Infatti, se l’allegoria di cui sopra può essere stata certamente appropriata fino a tutti gli anni Settanta, è innegabile che intorno a quel periodo le cose abbiano progressivamente iniziato a tramutare per quanto concerne, da un lato, i significati un tempo attribuiti alla fenomenologia borghese e, dall’altro lato, il concetto di classe operaia, a sua volta stemperata e confusa con tutte le altre -grazie, anche e soprattutto, all’avvento della società prima mediatica, poi informatica (e/o telematica) nel quadro della mondializzazione dell’economia- in una sterminata indistinta moltitudine di singolarità e/o solitudini.
In realtà, a tale ultimo riguardo, la perdita di centralità dei classici rapporti interindividuali in favore di modalità alternative (vedi, per tutti, l’universo Internet) sembra seriamente contribuire all’affermazione di un “nuovo rapporto” tra artificialità e solitudine, cosicché, per il Terzo millennio, si comincia a parlare nientemeno che di “rivoluzione post-naturale”, ove il corpo (che da un lato sempre più acquista “valore” sotto il profilo della “frenesia edonistica” e, dall’altro, abdica a se stesso delegando la rappresentanza delle proprie funzioni al dito che preme bottoni di telecomandi e tastiere) finisce progressivamente col perdere il rapporto con l’ambiente che lo circonda, appunto, attraverso un’artificialità che via via diviene estranea alla natura, riducendo, in tal modo, pure la forte atavica esigenza di rapporto e di contatto sociale. Non a caso la stessa “politica”, potendo sempre meno contare su uno spontaneismo partecipativo motivato da simili pulsioni, assedia sempre più tenacemente il mondo virtuale, affollandolo con le proprie icone nel vano miraggio di debellare, malgrado le compiacenze, l’apatia di un contesto svogliato che guarda fatalmente altrove.
In estrema sintesi e nostro malgrado, siamo entrati nell’era dell’omogeneità, dell’uniformità e del conformismo globale (sia pure con quelle venature anarcoidi proprie delle indistinte solitudini) tipico dello Stato monomorfo e, non da oggi, il problema all’attenzione dell’effects analyisis è, a bella posta, quello di trovare soluzioni all’opprimente conformismo (o convergenza) culturale dilagante, entro il quale “tutti debbono lasciarsi misurare da criterî omologanti, rendersi conformi all’uniforme” (Irti, 2002).
Nell’epoca attuale, se mai, viene in considerazione il maggiore o minor grado di protezione delle componenti sociali (che si differenziano, a questo punto, sotto il profilo quantitativo e non più su quello qualitativo) di un’unica grande middle class divisa, più o meno equamente, in scaglioni di reddito, ma poco dissimile al suo interno dal punto di vista dello stile di vita. Vale a dire, quello che fino a ieri appariva uno stato pluralista (pluriclasse) sotto il profilo economico-sociale, tipico di una società disomogenea e generatrice di contraddizioni, finisce oggi per assumere i caratteri dello stato monomorfo, omogeneo e generatore di un tale livello di conformismo (consumato sull’altare dell’artificialità anche estetica oltre ché relazionale, quindi, esistenziale) da cagionare un epocale “evento sociologico”, a causa del quale il vecchio concetto di welfare parrebbe dover cedere il passo a quello venuto in auge di wellness; ebbene, da welfare a wellness (state). La mutazione della simmetria economico-sociale si traduce, sul piano istituzionale, nell’evoluzione dello Stato pluralista-pluticlasse in Stato monomorfo-polipartitico, in cui le basi elettorali dei diversi partiti partecipano ad un processo di mutua ibridazione, venute mene le originarie peculiarità.
Se tali risultati rappresentano un’attendibile indagine sulle idee forti che hanno costituito a lungo l’impalcatura delle elaborazioni teoriche dianzi enunciate, la fondatezza e la concretezza delle considerazioni testé formulate sembrano incedere automaticamente grazie alla semplice e spassionata constatazione delle cose. Nello stesso tempo, se si vuole sostenere quel discorso in base ad esperienze trascorse concernenti funzioni pubbliche nell’economia avvalorate da rapporti di forza emersi dallo (e nello) stato pluriclasse per dirigerla -collettivizzazioni, imprese pubbliche, direzione pubblica delle proprietà, direzione pubblica delle imprese, eccetera-, a fronte della scomparsa dell’industria di stato, delle imponenti privatizzazioni, della sempre più penetrante presenza delle regole comunitarie (soprattutto in tema di concorrenza, di impresa, eccetera), e della finanziarizzazione dell’economia connessa all’incontrollabile strapotere economico multinazionale extraterritoriale e globale -tendente a spostare le regole del gioco (ed i loro confini) su differenti prospettive- i dubbî sull’infrangibilità dell’impalcatura teorica (e pratica) dello stato pluriclasse sembrerebbero, in buona sostanza, aver fatto “saltare il banco”. Diversamente essi (dubbî) dovrebbero essere dissolti (o risolti) sperimentando inedite (o riqualificando classiche) tipologie concettuali a contrafforte di nuove soluzioni giuridiche (magari suggerite, ad esempio, da modelli inediti di comunità fondati su novelle disuguaglianze, forse giustificate, ad esempio, dal multiculturalismo), onde poter tentare di “adeguare la misura della regola alla misura del regolato” (Irti, 2002).
Comunque sia, sfaldandosi il presupposto di fatto (eterogeneità dello stato pluralista/pluriclasse) s’indebolisce pure, ed assai, la stessa sostenibilità dei corollarî lato sensu giusnaturalistici che lo innalzarono a presupposto dei presupposti. Pertanto, essendosi storicizzata pure la stagione dei grandi conflitti economico-sociali tipici della società eterogenea e pluralista, a fronte -come si diceva- di straordinarî nuovi eventi sociologici, molti teorici dello stato pluralista hanno cominciato ad accentuare, appunto, non tanto il legame con lo stato pluriclasse, quanto la connessione col multiculturalismo. Il che, volendo centrare l’oggetto della contingenza, è assolutamente più che ragionevole, oltre che onesto e sicuramente senza pregiudizî, benché occorra fare molta attenzione al giusto modo con cui accostarsi al nuovo per non commettere fatali errori di prospettiva, in quanto, se sociologicamente siamo in presenza d’un fenomeno che si sviluppa quasi per vocazione spontanea, coerentemente con lo scorrere della storia e con la rottura delle tradizionali frontiere dell’economia, sotto il profilo giuridico vengono in linea di conto considerazioni che introducono nuovi cataloghi di problemi, spostando il discorso su un piano qualitativamente diverso. Discorso questo che, difatti, dovrà fare i conti con quello “spirito del capitalismo moderno”, il quale, nel bene e nel male, varando una “nuova epoca”, induce interrogativi che portano i giuristi a meditare attentamente su certi punti di riferimento concettuali, specialmente nel loro rapporto con tópoi, più o meno plausibilmente, quasi fino ad oggi, come si diceva, largamente condivisi.
Tornando al problema della ricerca di una nuova legittimazione delle differenze, va rilevato che non si tratta tanto d’uno scontro fra interessi economici -ove l’intervento del giudice mediatore, ragionando in concreto, può forse anche avere una sua “consistenza”- quanto, per converso, d’un cambiamento di sensibilità (cultura pubblica, morale?) rispetto alle differenze, che, a sua volta, richiede l’inquadramento teorico della complessa tematica dell’ ”ambiente di convivenza da costruire”, coerentemente con quella della sua “praticabilità”. Discorso, questo, che implica la tortuosa questione delle “compatibilità”, la quale non sfugge allo scabroso argomento dei limiti giuridici, che rappresentano la zona franca della legge sovrana con l’astrattezza delle sue prescrizioni, nonostante l’ampio catalogo di contraddizioni e conflitti che l’organizzazione di tale complessa materia indubbiamente potrà arrecare (Raz, 2003), dovendo disciplinare discordanti (talvolta addirittura inconciliabili) stili di vita spesso in competizione reciproca.
Alla luce di tali considerazioni e del fatto che i nodi irrisolti tendono inesorabilmente a ripresentarsi al pettine, il privilegiare la ricerca della soluzione caso per caso, in mancanza di punti di riferimento sufficientemente stabili ed impersonali, convalida il sospetto che essa (soluzione) possa finire per elevare in misura incontrollata il livello di conflittualità, privando, nel contempo, i decisori d’un solido supporto per affermare in modo inoppugnabile la loro imprescindibile terzietà ed imparzialità. Tant’è che il cardo-decumanus della convivenza sociale dovrebbe essere tracciato da regole che aspirino a garantire tutte le parti attraverso uno sforzo sistematico per l’individuazione di quell’ “interesse giuridico fondamentale” (Grund-Wert) capace, nel nostro caso, di giustificare misure che, da un lato, contemplino l’amministrazione e, dall’altro, considerino l’amministrato (ordinario e speciale), scongiurando le tentazioni d’una giurisdizione senza legislazione.
Tutto ciò, evidentemente, senza sottovalutare il non agevole cómpito di ritrovare infine un’unità teorica per elaborare -scongiurando inverosimili funambolismi più o meno teorico/pratici- le strutture concettuali rispondenti all’interesse complessivo del sistema sociale, allo scopo di rinnovare quel complesso di conoscenze e di strumenti tecnici necessarî all’amministrazione della funzione pubblica per fronteggiare le sfide emergenti dalle dinamiche dello stato contemporaneo, ond’evitare il rischio dell’indistinto giuridico e la conseguente incertezza (di tutti e per tutti) prodotti da sperimentazioni normative fuor di misura, che, non senz’incognite, potrebbero favorire, per certi versi, una concezione massimalista della ragion pratica (Zanetti, 2001), a sua volta nutrice della (o delle) parzialità: “in ultima istanza, la parzialità, ossia il fatto di preferire una persona o un’attività o una causa, rispetto ad altre, sta alla radice della legittima diversità (ma anche alla radice del grande abuso dei valori per fini malvagi)”(Raz, 2003).
In tali circostanze, può divenire assai fuorviante pure l’utilizzo dei risultati di certe indagini comparatistiche, in quanto, da paese a paese, mutano talmente i fattori storici, le tradizioni nazionali, i modelli sociali e le concezioni giuridiche, che limitarsi ad acquisire sommariamente esperienze degli altri sistemi rischia di duplicare l’inettitudine di certe comari poco fantasiose, che spiano dal balcone per scimmiottare quel che cucina l’inquilina della porta accanto, la quale, ignara di tutto, sta cuocendo premurosa la zuppa per il cane.
Questo pure nell’ulteriore miraggio di scongiurare l’essenza nichilista d’una legislazione congiunturale consegnata alla “causalità del divenire, che getta le norme in un indefinito movimento, in un quotidiano nascere e morire”, la quale (legislazione congiunturale), in tal guisa, finirebbe singolarmente per simboleggiare il “destino del diritto del nostro tempo” (Irti, 2004). Infatti, sarebbe davvero emblematico che la complessa questione del multiculturalismo finisse per essere regolata -nel palese visibilio dei fautori della teoria del caos- da una disorganica folla di interpretazioni senza la presenza di un qualche princìpio teorico unificante su cui tentare di comporre una disciplina intonata e coerente, a meno di non voler imitare quei giuristi preunitarî accusati (da Antonio Lione, 1849) d’affastellare “oltre misura autorità di scrittori, e decisioni di tribunali in luogo di princìpi e regole” giuridiche, tanto da anteporre la casistica alla scienza del diritto; anzi, annichilendo quest’ultima una volta per tutte insieme al diritto concepito come sistema.
Ed allora, per non sottrarci al “dovere di capire”, visto che il tema in esame, in questa prospettiva, si pone a livello di ordinamento statale -partendo proprio da quella “potenza del confine” che separa chi sta fuori (l’estraneità, da cui l’esclusione) da chi (e da come) sta o può stare dentro (l’appartenenza, da cui l’inclusione)- è evidente che, in una logica di sistema, il primo àmbito da cui dobbiamo prendere le mosse per tentare di costruire le condizioni d’una società che riesca ad armonizzare l’ineludibilità di inarrestabili processi epocali con l’esigenza di disciplinarli senza perdere i caratteri d’un insieme organizzato intorno a valori sui quali s’è costruita la sua identità, non può che essere quello della disciplina costituzionale. È nella Costituzione, infatti, e particolarmente nella sua Prima Parte sui “Diritti e doveri dei cittadini” (e già lo stesso titolo, col suo riferimento ai cittadini, solleva una serie di domande), che si dovranno cercare i punti di riferimento per cominciare a trovare soluzioni adeguate alla grande questione dell’integrazione degli stranieri immigrati in Italia.
Di qui occorre partire per affrontare i complessi problemi che si profilano all’orizzonte in tema di tutela delle minoranze (cui è dedicato l’art. 6 Cost.), d’estensione agli stranieri di quei diritti di libertà che costituiscono le precondizioni di esistenza e di corretto funzionamento della nostra forma di Stato democratica (artt. 13 ss.), d’attribuzione dei diritti politici (artt. 48 ss.), di coesistenza di religioni diverse (artt. 7, 8, 19 e 20 Cost.) con tutto quanto ne consegue pure sotto il profilo della configurazione di determinati istituti (si pensi alla famiglia) che hanno costituito per millenni un punto fermo della nostra civiltà. Ma è altrettanto ovvio che, in un contesto di relazioni tra Stati sempre più, a vario titolo, intrecciate ed interconnesse, un ruolo centrale e vitale non possa essere svolto, nella direzione indicata, che dall’ordinamento internazionale, anche in forza dell’apertura allo stesso effettuata dall’art. 10, comma 1 (per quanto concerne le consuetudini internazionali) e dall’art. 2 (per quanto concerne il diritto pattizio), nonché, evidentemente, dall’ordinamento comunitario nel quale il nostro sta lentamente -e talvolta inconsapevolmente- sempre più scivolando.
Questa è la sezione aurea entro la quale va focalizzato il quadro legislativo della materia in oggetto per fissare al meglio la disciplina dell’azione di tutti gli organi dello stato, principalmente la pubblica amministrazione ed il potere giudiziario. E, quanto più sarà stata chiarita la portata della normativa costituzionale -nel quadro, come abbiamo visto, della dimensione comunitaria e delle intese inter-statuali-, tanto più sarà possibile prevedere in anticipo quali siano i parametri ai quali dovranno attenersi le regole legislative, prevenendo il rischio di illegittimità, coll’ulteriore effetto che gli applicatori del diritto potranno agire (e, quand’occorra, sanzionare) in una cornice di sufficiente certezza (nella, della e per la convivenza), al fine di garantire a noi il nostro stile di vita (costituito da idee, sentimenti, ricordi riconducibili alla conterraneità ed al mos maiorum, in ultima analisi, all’Hẹimat), senza precludere agli altri il godimento del loro, coerentemente con la tanto nobile quanto inevitabile idea di società aperta.

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