A proposito del federalismo fiscale. Sulla riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione **

 

Nove anni fa definii la Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante “Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione” un monumento di insipienza giuridica e politica. Confermo questo giudizio. Me lo permette, anzi, lo impone l’andamento istituzionale complessivo del nostro Paese. A partire dalla giurisprudenza costituzionale che si è andata dipanando in tutti questi anni di vigenza di quel testo normativo che, già quanto a formulazione, ha posto e pone problemi per una interpretazione idonea a rendere il significato degli enunciati inquadrabile nel sistema costituzionale. Ancora qualche settimana fa il Presidente della Corte, nella relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2009, constatava che c’è “qualcosa di patologico” nel perdurare dell’alto numero di ricorsi in via principale, 110 nell’anno scorso, cioè “nella frequenza della controversie tra Stato e Regioni e nel continuo intervento della Corte nel definire confini delle loro rispettive competenze legislative”[1]. Che la litigiosità italiana sia accentuata e diffusa è noto, che oltre ai singoli ne siano contaminati anche gli enti privati e pubblici non può che conseguirne, ma non si può né tacere, né attenuare la constatazione che la ragione principale e continuativa dell’enormità del contenzioso Stato-Regioni riversatosi sulla Corte costituzionale sia, in massima parte, da ascrivere alla qualità decisamente scadente della formulazione delle disposizioni della Legge costituzionale n. 3 del 2001 sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.

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