La Corte di Giustizia ricorda (involontariamente) alla Corte costituzionale lo strumento per riappropriarsi, almeno in parte, della competenza a giudicare in ordine alla conformità delle fonti statali all’ordinamento comunitario? (In margine a Corte di Giustizia, 22 novembre 2005, causa C-144/04)

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Sentenza CGCE

1. Con la sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, la Corte di Giustizia sembra estendere, a una prima lettura, le ipotesi di ricorso al «sindacato diffuso di legittimità comunitaria»1), superando alcuni ostacoli ancora presenti lungo il percorso diretto alla generale operatività del primato del diritto comunitario sui diritti statali da far valere da parte dei giudici comuni: infatti la Corte sembra aver introdotto il principio della diretta applicabilità delle direttive comunitarie, da un lato, anche nei rapporti c. d. orizzontali, e, dall’altro, anche per l’ipotesi in cui il termine concesso agli Stati per la loro attuazione/trasposizione non sia ancora scaduto.
Nel nostro ordinamento interno, tale decisione sembrerebbe dunque produrre l’effetto di confermare, e, anzi, di aggravare ulteriormente, la progressiva marginalizzazione del ruolo della Corte costituzionale italiana in materia di giudizio sui rapporti tra fonti comunitarie e fonti interne, a tutto vantaggio dei giudici comuni e della Corte di Giustizia europea.
Tuttavia una più attenta lettura della sentenza potrebbe suggerire alla nostra Corte – peraltro in conformità con la sua pregressa giurisprudenza – lo strumento per riappropriarsi, almeno in parte, di un ruolo importante nelle controversie tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, anche in forza del nuovo art. 117, comma 1, della Costituzione, oltre che, soprattutto, di un ritrovato profilo «imperativo» dell’art. 11 2).

2. Alla luce di una tormentata, e non sempre coerente, giurisprudenza costituzionale in materia di rapporti tra norme interne e norme comunitarie, attualmente è possibile sintetizzare la soluzione prospettata per l’ipotesi di una loro eventuale antinomia nei seguenti termini: le norme comunitarie direttamente applicabili, benché ancora considerate quali norme di un ordinamento autonomo, ma collegato, rispetto all’ordinamento interno, prevalgono (salvo il limite dei principi supremi della Costituzione) sulle norme interne incompatibili. Tale prevalenza si realizza attraverso l’annullamento di queste ultime con sentenze d’accoglimento della Corte costituzionale nei giudizi in via principale, e attraverso la loro «non applicazione» direttamente da parte di tutti i giudici comuni nei giudizi in via incidentale. Tale diverso trattamento delle norme interne incompatibili col diritto comunitario direttamente applicabile – che rende peraltro contraddittoria sul piano della correttezza tecnico-giuridica la soluzione complessiva della questione 3) – è stato motivato dalla Corte sulla base della considerazione che nei giudizi in via incidentale – ove quindi vi sia un giudice che possa direttamente riconoscere la prevalenza del diritto comunitario – non può essere la Corte stessa a intervenire poiché le relative questioni di legittimità ex art. 11 della Costituzione (e, oggi, ex art. 117, comma 1) sarebbero comunque prive del requisito della rilevanza, a causa del principio della diretta applicabilità delle norme comunitarie che impedirebbe alla norma interna incompatibile di venire in rilievo per la definizione della controversia dinanzi al giudice nazionale 4).
La marginalizzazione del ruolo della Corte costituzionale in qualità di giudice della (in)compatibilità del diritto interno rispetto al diritto comunitario direttamente applicabile è dunque dovuta a ragioni di ordine meramente processuale, ossia attinenti alla modalità di instaurazione del giudizio in via incidentale e al necessario requisito della rilevanza per poter sollevare una questione di legittimità costituzionale. A sua volta, il difetto di rilevanza deriva dal principio della diretta applicabilità della norma comunitaria.
Rispetto all’antinomia di cui si tratta, e in coerenza con le conclusioni sopra sintetizzate, la Corte ha poi significativamente affermato la propria competenza a intervenire, oltre che nelle già indicate ipotesi di presunta violazione di principi supremi del nostro ordinamento, e di questioni sollevate con ricorsi in via principale, anche in altri due casi particolarmente significativi, come si vedrà, per la lettura della sentenza della Corte di Giustizia che qui si propone: la prima ipotesi ricorre quando una norma interna sia diretta a impedire o a pregiudicare la perdurante osservanza dei Trattati, in relazione al sistema comunitario complessivo o al nucleo essenziale dei suoi principi fondamentali 5); la seconda ricorre quando le norme nazionali violino norme comunitarie non direttamente applicabili 6).
Sulla base di questa giurisprudenza costituzionale si deve dunque concludere nel senso che neppure il nuovo art. 117, comma 1, della Costituzione, che prevede che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni debba esercitarsi nel rispetto, oltre che della Costituzione, anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», sarebbe in grado di superare l’ostacolo processuale di cui si è detto, offrendo un generale parametro di legittimità costituzionale interno che dovrebbe obbligare i giudici comuni a sollevare alla Corte le questioni di incompatibilità delle norme interne con le norme comunitarie. Nessuna alterazione al quadro previgente la riforma del Titolo V si potrebbe dunque far discendere dall’art. 117, comma 1, «dal momento che eventuali questioni incidentali di legittimità costituzionale di norme interne contrastanti con il diritto comunitario, prospettate per la violazione indiretta di tale disposizione costituzionale, in tanto saranno ammissibili, in quanto la loro rilevanza non debba essere esclusa a causa della diretta applicabilità della norma comunitaria contraddetta dalla norma interna» .

3. La sentenza della Corte di Giustizia che si commenta rileva sotto una pluralità di profili. Quello che s’intende segnalare in particolare in questa sede potrebbe avere, alla luce della giurisprudenza costituzionale italiana sopra sommariamente sintetizzata, importanti ripercussioni per il nostro ordinamento interno.
La questione sulla quale la Corte di Giustizia era stata chiamata a pronunciarsi riguardava la conformità di una legge della Repubblica Federale di Germania alla normativa comunitaria relativa al lavoro a tempo determinato (direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE) e a quella sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE). Il puntuale contrasto tra la fonte interna e quella comunitaria ruotava intorno alla questione del riconoscimento, da parte della prima, della possibilità di concludere un contratto di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore all’inizio del rapporto avesse già compiuto 58 anni di età (limite successivamente ridotto a 52), anche in assenza di una «ragione obiettiva», a fronte della disciplina comunitaria che dispone invece che «gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima» (art. 6, n. 1, della seconda direttiva sopra citata).
La ratio decidendi della decisione della Corte prescinde dalla valutazione intorno alla circostanza che il termine assegnato agli Stati per adeguarsi alla direttiva non sia ancora scaduto, e sorvola sulla questione della in(sufficiente) determinatezza della disciplina richiamata.
L’intera motivazione ruota invece attorno alla considerazione che «il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve (…) essere considerato un principio generale del diritto comunitario», e che, pertanto, «è compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del principio generale (…) disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale, anche quando il termine di trasposizione della detta direttiva non è ancora scaduto».
La Corte precisa che la direttiva 2000/78 «non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro. Infatti, tale direttiva, ai sensi del suo art. 1, ha il solo obiettivo di “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”, dal momento che il principio stesso del divieto di siffatte forme di discriminazione, come risulta dai ‘considerando’ 1 e 4 della detta direttiva, trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri». Ne deriva che, continua la Corte, «il rispetto del principio generale della parità di trattamento, in particolare in ragione dell’età, non dipende, come tale, dalla scadenza del termine concesso agli Stati membri per trasporre una direttiva intesa a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sull’età, in particolare per quanto riguarda l’organizzazione degli opportuni strumenti di ricorso, l’onere della prova, la protezione contro le ritorsioni, il dialogo sociale, le azioni positive e altre misure specifiche di attuazione di una siffatta direttiva». Nel caso di specie, la normativa tedesca, prosegue la Corte, «nella misura in cui considera l’età del lavoratore di cui trattasi come unico criterio di applicazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, senza che sia stato dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale dell’interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell’obiettivo dell’inserimento professionale dei lavoratori anziani in disoccupazione, deve considerarsi eccedente quanto è appropriato e necessario per raggiungere la finalità perseguita. Il rispetto del principio di proporzionalità richiede infatti che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con l’esigenza del fine perseguito».

4. Pur non volendo sottovalutare in questa sede una certa portata innovativa della sentenza che si commenta dal punto di vista dell’ordinamento comunitario, è però sotto il profilo dell’ordinamento interno – e del ruolo della nostra Corte costituzionale in specie – che essa sembra particolarmente interessante.
Se è vero infatti, come sostiene la Corte di Giustizia, che il principio di non disciminazione è un principio generale dell’ordinamento comunitario, a prescindere dal suo esplicito recepimento in singole fonti recanti norme più o meno dettagliate, e a prescindere dalla loro trasposizione interna, perché mai i giudici comuni italiani, investiti della questione di compatibilità della fonte interna col principio generale dell’ordinamento comunitario non dovrebbero sollevare la questione di legittimità costituzionale alla Corte ex art. 11 della Costituzione (e ex art. 117, comma 1)? In questo caso, infatti, non sarebbe il principio della diretta applicabilità (del quale potrebbero persino difettare, come nel caso di specie, i presupposti necessari per operare: norme sufficientemente dettagliate, eventuale termine della direttiva scaduto e, almeno sino a questa sentenza, c.d. efficacia verticale) a far prevalere la fonte comunitaria su quella interna, ma il riconoscimento della fonte comunitaria quale principio generale dell’ordinamento comunitario. In questo caso, pertanto, non si porrebbero ostacoli di ordine processuale rispetto alla possibilità di configurare la competenza della Corte a giudicare della legittimità costituzionale della fonte interna incompatibile col diritto comunitario alla luce dell’art. 11 e dell’art. 117, comma 1, della Costituzione (e, eventualmente, anche di altri parametri costituzionali diversi da quelli relativi alla necessaria conformità delle fonti interne ai vincoli comunitari 8)).
Tale conclusione, semmai, aprirebbe le porte a un ulteriore problema: quello relativo alla soluzione della questione pregiudiziale avente ad oggetto l’individuazione e l’interpretazione, nei singoli casi concreti, dei principi generali dell’ordinamento comunitario. Tale funzione spetterebbe senza dubbio alla Corte di Giustizia. I giudici comuni sarebbero dunque chiamati, in caso di dubbio, a rinviare la questione pregiudiziale alla Corte comunitaria e, sulla base della decisione di quest’ultima, a disapplicare (meglio: a «non applicare») direttamente la fonte interna incompatibile (qualora la Corte individuasse una norma comunitaria direttamente applicabile) ovvero a sollevare la questione di legittimità alla Corte costituzionale (qualora la Corte di Giustizia individuasse un principio generale dell’ordinamento comunitario). In quest’ultimo caso, la pronuncia della Corte di Giustizia non inciderebbe, si ripete, sulla rilevanza della questione che si pone davanti al giudice a quo, ma, semmai, sulla sua non manifesta infondatezza, potendo venire a integrare il parametro costituzionale nel giudizio di legittimità davanti alla Corte italiana 9).
La Corte stessa, qualora fosse direttamente investita della questione di legittimità da parte del giudice a quo, in caso di dubbio sull’interpretazione della fonte comunitaria, dovrebbe essa stessa rinviare la questione alla Corte di Giustizia prima di pronunciarsi ex art. 11 10).
Tali conclusioni, peraltro, sarebbero altresì confermate dalla necessità di rispondere a esigenze pratiche: non essendo il principio generale del diritto comunitario direttamente applicabile, a causa della naturale insufficiente determinatezza delle disposizioni di principio, in molti casi, solo la Corte costituzionale, e non certo i singoli giudici comuni, sarebbe dotata degli strumenti tecnici per giudicare della conformità di singole disposizioni interne rispetto a principi superiori, mettendo mano al suo armamentario di tecniche decisorie manipolative, anche al fine di fornire una soluzione per i casi concreti che hanno dato origine al giudizio in via incidentale.
Il risultato complessivo che si viene così configurando sarebbe dunque del tutto coerente con l’orientamento della stessa giurisprudenza costituzionale, nei termini in cui sopra si è brevemente illustrato: la Corte in tal modo potrebbe riappropriarsi, almeno in parte, di un ruolo in questa materia approfittando di una decisione della Corte di Giustizia solo in apparenza aperta all’instaurazione di un generale «sindacato diffuso di legittimità comunitaria».
Paradossalmente, dunque, sarebbe proprio la sfera dei principi generali dell’ordinamento comunitario, destinata ragionevolmente ad ampliarsi nel lungo periodo, a offrire alla Corte costituzionale l’occasione per esercitare il ruolo di giudice della conformità dell’ordinamento interno al diritto costituzionale comunitario.

Note
1) Come i primi commentatori della decisione non hanno mancato immediatamente di rilevare (cfr. F. Paterniti, La Corte di Giustizia apre al “sindacato diffuso di legittimità comunitaria”?, in www.forumcostituzionale.it).
2) Sulla formula dell’art. 11 della Costituzione, variamente interpretata, prima come disposizione «permissiva», poi come disposizione «imperativa», v. F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Giappichelli, Torino, 1998, pp. 5 ss.
3) Tanto che la Corte medesima ha affermato, in più di una occasione, che la soluzione della mera «non applicazione» sul piano interpretativo da parte dei giudici comuni dovrebbe comunque essere seguita da abrogazione da parte del legislatore a fini di certezza del diritto (v. Corte costituzionale, sentt. nn. 389/1989 e 94/1995).
4) V. Corte costituzionale, sent. n. 384/1994 (su cui v. il commento di F. Sorrentino, Una svolta apparente nel «cammino comunitario» della Corte: l’impugnativa statale delle leggi regionali per contrasto con il diritto comunitario, in Giur. Cost., 1994, pp. 3456 ss.) e poi sent. n. 94 del 1995, dove la Corte assume esplicitamente la sola modalità di accesso alla Corte come unico discrimine per motivare l’annullamento della norma interna incompatibile (da parte della Corte medesima in sede di giudizio in via principale) e la sua mera «non applicazione» (da parte dei giudici comuni nei giudizi in via incidentale).
5) V. Corte costituzionale, sent. n. 286/1986, dove la Corte si ritiene competente a giudicare, sebbene poi concluda nel senso della non fondatezza della questione nel merito, sulla base dell’argomentazione per cui «la denuncia concerne le previsioni del Trattato di Roma del 25 marzo 1957, istitutivo della Comunità Economica Europea, ritenendosi dal giudice a quo che le norme censurate violino non già puntuali regolamenti o norme comunitarie, bensì direttamente un principio fondamentale – nella specie, ricavabile, in particolare, dagli art. 12, 37 e 95 del Trattato stesso – che della Comunità Economica Europea informerebbe l’intero assetto: e cioè il principio secondo cui compito principale della Comunità è quello di promuovere, mediante l’instaurazione di un Mercato Comune ed il graduale avvicinamento delle politiche degli Stati aderenti, lo sviluppo armonioso dell’attività economica nell’ambito coperto dal Trattato ora citato. Conseguentemente, in conformità alla precedente giurisprudenza (cfr. sent. 8 giugno 1984 n. 170 e ordd. 22 febbraio 1985 nn. 47 e 48 e 20 marzo 1985 n. 81), la Corte ritiene di doversi occupare delle due questioni sottoposte al suo esame».
6) E’ il caso che ricorre quando, per es., le direttive non vengono recepite oppure vengono recepite in maniera impropria o errata (v. Corte costituzionale, sent. n. 285/1993).
7) Così F. Ghera, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali nei confronti della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, in F. Modugno – P. Carnevale (a cura di), Trasformazioni della funzione legislativa, III.1, Rilevanti novità in tema di fonti del diritto dopo la riforma del Titolo V della II Parte della Costituzione, Giuffrè, Milano, 2003, p. 78.
8) E’ infatti ragionevole ritenere che il principio generale dell’ordinamento comunitario, derivante anche dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sia vigente anche all’interno dell’ordinamento nazionale: in tal caso si porrebbe l’ulteriore questione della eventuale difformità di contenuti normativi dei rispettivi principi, comunitario e nazionale.
9) Sul rapporto tra le due questioni pregiudiziali – quella comunitaria e quella costituzionale – si rinvia alle diverse ipotesi configurate da F. Sorrentino, E’ veramente inammissibile il «doppio rinvio»?, in Giur. Cost., 2002, pp. 781 ss.
10) Come da sempre ha sostenuto F. Sorrentino, Corte costituzionale e Corte di Giustizia delle Comunità Europee, I, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 143 ss.; mentre la Corte costituzionale ha sempre rifiutato di sottoporsi alla pregiudiziale interpretativa comunitaria (cfr. F. Salmoni, La Corte costituzionale, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee e la tutela dei diritti fondamentali, in P. Falzea – A. Spadaro – L. Ventura (a cura di), La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 289 ss.).