La guerra in Libia e la Costituzione

EMERGENZA COSTITUZIONALE

Le ragioni del costituzionalismo sono duramente messe alla prova dinanzi alla forza brutale e senza regole della guerra. C’è da rimanere ammutoliti di fronte ai fatti drammatici ai quali assistiamo. Da un lato la convinzione che è dalla parte degli insorti che bisogna stare, dall’altro la consapevolezza che l’intervento delle potenze occidentali si gioca essenzialmente in base a calcoli politici ed economici per nulla “umanitari”. Eppure non si può tacere. Se non si vuole accettare l’idea che ci si debba ormai affidare esclusivamente alle logiche perverse della politica di potenza, se non si vuole rinunciare al governo delle leggi affidandosi completamente al governo degli uomini (buoni o malvagi che siano), diventa necessario continuare a riflettere sulla legalità della guerra.
Ed allora, pur avvertendo dell’inanità dello sforzo, è necessario tornare a denunciare, ancora una volta, che la scelta di sistema del nostro costituente è chiara e inequivocabile. La formula scolpita nel testo della nostra costituzione non si presta ad ambiguità: “L’Italia ripudia la guerra”. L’uso delle forze armate per fini bellici è prevista esclusivamente allo scopo di difesa dei confini (in realtà la costituzione assegna ad ogni cittadino e non solo ai militari il “sacro dovere” di difendere la patria) ed anche in questo caso c’è una specifica procedura garantista tesa a sottrarre al governo la decisione ultima, facendo intervenire il Parlamento e il presidente della Repubblica. La nostra costituzione non prevede nessuna forma di intervento armato fuori dai confini per la risoluzione delle controversie internazionali ovvero come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. Nessuna interpretazione evolutiva del testo costituzionale – per quanto autorevolmente espressa – può legittimare la tesi secondo cui le limitazioni di sovranità cui l’Italia consente per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni possano spingersi sino a comprendere l’uso della forza bellica. Anche perché l’uso della forza è espressione massima della sovranità degli Stati, non invece una sua limitazione. Nel caso della Libia, infatti, non ci si è limitati a fornire le basi militari (limitando la nostra sovranità), ma si sta operando attivamente svolgendo un intervento diretto di aggressione armata nei confronti di un nemico cui si vuole imporre una propria sovranità.
Questo il quadro costituzionale, dal quale emerge con nettezza la scommessa del costituente. Quella stessa sfida che, dopo la barbarie del secondo conflitto mondiale, ha innervato tutte le costituzioni nazionali e che indussero gli Stati a dar vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite, con l’esplicito compito di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”. La guerra è un male in sé: questa la convinzione comune tra le Nazioni. È ancora così?
Qui è il discrimine politico, ma anche giuridico e costituzionale. Non sarà l’ipocrisia del linguaggio (chiamare l’uso della forza contro una potenza straniera “azione di polizia internazionale” ovvero negare che l’Italia si trovi in “guerra”) o la diversa qualificazione data alla guerra (“umanitaria”, “giusta”, “legittima”) a rendere meno drammatica la vera questione che la storia ci propone. L’uso della guerra torna ad essere uno strumento della politica. Il diritto può tentare di limitarlo, ma il ritorno dello ius belli se forse può rendere legittimo, in base ad una ambigua risoluzione ONU, l’intervento armato sul piano internazionale, non perciò può essere interpretato come una scelta conforme alla costituzione, né – io credo – facilmente riconducibile alle finalità di quell’organizzazione che ha come sua missione specifica di assicurare la pace tra le nazioni.
Il flagello della guerra è tornato tra noi, tra le sue vittime c’è la costituzione. E non si affermi, per cortesia, che non poteva essere altrimenti. È invece questo un esito voluto, cui “siamo tutti coinvolti”, nessuno esente da responsabilità. Non si dichiari che in tempi di globalizzazione l’unico modo per stare dalla parte giusta, quella dei rivoltosi di Bengasi, è fare la guerra a Gheddafi. Non si è neppure tentato di seguire una via alternativa: prima della risoluzione 1973 che ha autorizzato l’intervento armato il Consiglio di sicurezza ha adottato solo la debole risoluzione 1970 dagli effetti irrilevanti, l’Italia ha continuato sino all’ultimo (ancor oggi in verità) a blandire il raìs, cercando di preservare tutti i propri interessi economici e i rapporti commerciali. La guerra non è stata l’ultima ratio, bensì la prima scelta per tutelare i propri interessi in nome dei diritti umani. Una storia antica si ripete, una storia che il costituzionalismo voleva archiviare per tutelare i diritti umani attraverso politiche di pace. Almeno dovremmo impedire a chiunque di affermare che ciò rientra pienamente nell’ordine costituzionale. Non è così, la guerra calpesta la costituzione.
Mi chiedo da ultimo: chi crede ancora nella superiore legalità costituzionale, nel valore vincolante delle sue disposizioni, nella scommessa pacifista che vi è contenuta, è veramente “disarmato” di fronte alle aggressioni del potere? È vera l’accusa che viene rivolta a chi non accetta la politica delle bombe di voler sacrificare per astratti principi la vita di popolazioni oppresse, siano essi i ribelli libici o quelli nelle altre infinite situazioni di illibertà e oppressione sparse nel mondo? La sfida della nostra costituzione è irrimediabilmente perduta? La mia risposta è no. Basta saper leggere la storia del costituzionalismo, che è una storia di ribellioni, di lotte contro i dittatori e per l’affermazione dei diritti umani. È il costituzionalismo che ha rivendicato il principio all’autodeterminazione dei popoli, ha legittimato il tirannicidio, ha affermato il diritto di resistenza. Siamo sicuri che la guerra è l’unica arma per rivendicare i propri diritti o quelli delle popolazioni oppresse? Essere pacifisti non vuol necessariamente dire essere pacifici.