Note sull’adozione del decreto legislativo recante «Norme in materia ambientale».

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Il 15 marzo 2006 il Presidente della Repubblica ha inviato al Governo una richiesta di chiarimenti circa il procedimento di adozione dello schema di decreto legislativo recante «Norme in materia ambientale».

Questo fatto (non del tutto nuovo nella prassi dell’emanazione di atti aventi forza di legge) ha ricevuto una risonanza amplificata sia in ragione della portata del provvedimento, sia (com’è facilissimo rilevare) per il conflittuale contesto pre-elettorale nel quale esso si è verificato.

Sotto il primo profilo, va segnalato che il decreto (adottato in attuazione della legge delega 15 dicembre 2004, n. 308) costituisce un’ampia opera di riordino e integrazione della legislazione in materia ambientale, in recepimento di varie direttive comunitarie ed in attuazione delle politiche ambientali che il Governo ha inteso perseguire; il risultato è un corposissimo provvedimento che (anche intervenendo sul riparto di competenze fra Stato e Regioni e sul concorso tra le fonti, primarie e secondarie, sino ad oggi vigenti in materia) ridefinisce la disciplina della valutazione d’impatto ambientale e della valutazione ambientale strategica, della difesa del suolo, della tutela delle acque dall’inquinamento e della gestione delle risorse idriche, del trattamento e della gestione dei rifiuti, dell’inquinamento atmosferico e della tutela risarcitoria dei danni ambientali.

Quanto al secondo aspetto, essendo inopportuno indulgere alla contaminazione tra necessità ricognitive e finalità argomentative, è doveroso tenere distinti i rilievi analitici sulla sequenza degli eventi dalla loro possibile valutazione politica.

Può quindi essere utile limitarsi ad un resoconto sulle fasi principali dell’adozione del decreto, specie di quelle che sembrano assumere maggior rilievo nella richiesta presidenziale di chiarimenti, lasciando per ora integralmente da parte tutte le molteplici e complesse questioni che suscitano i contenuti del provvedimento; un resoconto, quindi, che possa costituire – secondo lo spirito di questa Rivista – un contributo alla chiarificazione degli eventi che ineriscono al diritto costituzionale come presupposto per il dibattito scientifico.

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Il documento inviato dal Presidente della Repubblica si configura come una formale richiesta di chiarimenti sul procedimento di adozione del decreto legislativo; l’atto, dunque, non assume la forma del «rinvio», come affrettatamente divulgato dalle prime notizie giornalistiche (che la stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una propria nota del 20 marzo, si è premurata di smentire).

La corretta configurazione dell’atto presidenziale lascia peraltro impregiudicata la questione dell’ammissibilità di un potere presidenziale di «rinvio», proprio del procedimento di promulgazione delle leggi, nella fase di emanazione degli atti normativi primari, normalmente negata in dottrina (con l’eccezione, ad esempio, del recente manuale Barile – Cheli – Grassi, che invece l’afferma) in ragione della diversa natura del rapporto fra promulgazione – esercizio del potere legislativo, da un lato, ed emanazione – esercizio dell’attività normativa del Governo, dall’altro.

Secondo quanto risulta dalle prime divulgazioni (quasi tutte giornalistiche), gli aspetti sui cui si è concentrata la richiesta di chiarimenti del Presidente della Repubblica sarebbero i seguenti: (a) il mancato ottenimento del parere del Consiglio di Stato; (b) l’eliminazione della facoltà d’intervento nei giudizi per danno ambientale e del potere di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi da parte delle associazioni di protezione ambientale (già individuate dall’articolo 13 della l. 8 luglio 1986, n. 349[1]); (c) il parere negativo reso dalla Conferenza Stato-Regioni.

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Sulla necessità del parere del Consiglio di Stato, l’articolo 17, comma 25, della legge 15 maggio 1997, n. 127, ne prescrive l’obbligatorietà (rispetto all’adozione di atti normativi) solo in caso di emanazione dei provvedimenti ex articolo 17, l. n. 400/1988 (dunque, dei regolamenti dell’Esecutivo e non, invece, degli atti aventi forza di legge) e di emanazione di testi unici.

Esclusa la prima ipotesi, non sarebbe parimenti configurabile la seconda se si adotta, come sembra ormai comune nella prassi, una nozione formale di “testo unico”, in base alla quale è tale solo l’atto normativo così espressamente qualificato (da sé medesimo, oppure dalla sua fonte sulla produzione).

Per escludere l’applicabilità dell’articolo 17 citato al decreto attuativo della delega ambientale occorre dunque ammettere che tale disposizione abbia adottato una nozione non sostanziale ma normativa, dovendosi perciò esigere il parere del Consiglio di Stato solo con riguardo agli atti normativi che posseggano il nomen (attribuito o dalla fonte di produzione, o da quella sulla produzione) di “testo unico”. Di qui, non auto-qualificandosi il provvedimento come “testo unico”, e non risultando tale qualifica dalla legge delega, discenderebbe l’insussistenza dell’obbligo del parere[2].

Rispetto al recente precedente per cui lo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, in attuazione delle direttive 2004/17 e 2004/18” (approvato dal Consiglio dei Ministri in via preliminare il 13 gennaio 2006 ed in via definitiva il 23 marzo 2006) ha ottenuto parere dal Consiglio di Stato (parere n. 355/06, favorevole con osservazioni, espresso nell’adunanza del 6 febbraio 2006), va osservato che, in quel caso, l’articolo 25, comma 1, lettera a), della legge delega 18 aprile 2005, n. 62, impegnava al Governo alla «compilazione di un unico testo normativo»[3].

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Con riguardo all’eliminazione della facoltà d’intervento in giudizio delle associazioni di protezione ambientale (derivante dall’abrogazione dell’articolo 18, l. n. 349/1986, disposta dall’articolo 318, comma 2, lettera a), dello schema di decreto legislativo), il rilievo riproduce l’osservazione già formulata nel parere reso dalla XIII Commissione del Senato (Atto n. 572).

A quell’osservazione il Governo aveva replicato segnalando che, a fronte del meccanismo originariamente previsto dall’articolo 18 l. n. 349/1986, nel disegno dello schema di decreto a tali soggetti viene in primo luogo riconosciuta, ai sensi dell’articolo 309, una specifica attività d’impulso, nonchè, ai sensi del primo periodo del comma 1 dell’articolo 310, la titolarità degli interessi a ricorrere avverso atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni relative alla responsabilità risarcitoria per danni all’ambiente; da tale titolarità discende, infine, la legittimazione all’azione ed all’intervento in conformità ai principi generali dell’ordinamento.

Risulterebbe dunque un quadro in cui, secondo il Governo, i poteri processuali riconosciuti alle associazioni di protezione ambientale sono ridisegnati e perfezionati, ma non ridotti.

Ciò premesso, un eventuale accoglimento del rilievo presidenziale potrebbe condurre ad escludere dall’abrogazione dell’articolo 18 il comma 5, così lasciando inalterati la facoltà d’intervento nei giudizi per danno ambientale e il potere di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi (facoltà a cui si aggiungerebbero i predetti poteri previsti dagli articoli 309 e 310 del decreto)[4].

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Più ampia la questione circa lo svolgimento dei rapporti istituzionali fra il Governo, nell’esercizio del potere normativo delegato, e la Conferenza Unificata, sede congiunta della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza Stato-Città ed autonomie locali.

L’articolo 1, comma 4, della legge delega n. 308/2004 prevede che il decreto delegato sia adottato «sentito il parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281»; la formulazione della norma induce a ritenere che il ruolo della Conferenza nel procedimento di adozione del decreto delegato sia quindi stato confinato alla resa di un parere (non vincolante), e non esteso, invece, alla stipula di un’intesa; peraltro, sebbene la conclusione di intese sia disciplinata, dall’articolo 3 della stessa l. n. 281/1997, come attività della Conferenza Stato-Regioni (e non della Conferenza unificata), il comma 2 dell’articolo 9 precisa che «la Conferenza unificata è comunque competente in tutti i casi in cui regioni, province, comuni e comunità montane ovvero la Conferenza Stato-regioni e la Conferenza Stato-città ed autonomie locali debbano esprimersi su un medesimo oggetto».

Ne deriva che la legge delega ha intenzionalmente ritenuto di prevedere, quale forma di cooperazione inter-istituzionale fra Stato e Regioni, non l’intesa ma la semplice formulazione di un parere da parte della Conferenza.

Benché notissimo, non è forse inutile ricordare che, sull’argomento, la giurisprudenza della Corte costituzionale:

– ha ritenuto essenziale il ruolo dell’intesa con riferimento al quesito «se il legislatore nazionale abbia titolo per assumere e regolare l’esercizio di funzioni amministrative su materie in relazione alle quali esso non vanti una potestà legislativa esclusiva, ma solo una potestà concorrente» (Corte cost., 303/2003);

– ha poi definito “intesa forte” (tale per cui il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento) non, in generale, l’istituto dell’intesa previsto dall’articolo 3, l. n. 281/1997, ma la particolare intesa che – nel caso allora sottoposto alla Corte – era da concludersi con la Regione interessata «all’interno del procedimento unico, al quale partecipano le Amministrazioni statali e locali interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241» (Corte cost., n. 6/2004).

Nell’ambito del procedimento di adozione del decreto delegato in materia ambientale, lo schema del provvedimento (approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 18 novembre 2005) è stato materialmente trasmesso alla Conferenza il 29 novembre, mentre la formulazione del parere era stata inclusa nell’ordine del giorno del 15 dicembre successivo.

Il giorno 12 dicembre 2005 si è tenuto un tavolo tecnico della Conferenza, al quale però (secondo quanto risulta dai verbali) non erano presenti le Regioni, l’ANCI e l’UNCEM, mentre presenziava, oltre alle amministrazioni statali, l’UPI; il 14 dicembre le Regioni, spiegando l’assenza alla riunione tecnica con l’immediatamente successiva formalizzazione di un documento di osservazioni, depositavano il suddetto documento (in realtà già informalmente circolato alcuni giorni prima).

Nell’imminenza della riunione del 15 dicembre, sia la Conferenza, per il tramite del suo Presidente, sia i rappresentanti istituzionali degli enti territoriali richiedevano l’apertura di ulteriori sedi tecniche per una congiunta rivisitazione complessiva dello schema di decreto.

Nella seduta del 15 dicembre 2005 il Vice Ministro dell’ambiente rilevava ripetutamente (secondo quanto risulta dal verbale n. 13/05) l’impossibilità di protrarre il procedimento, attesa l’asserita scadenza della legge delega; la Conferenza, tuttavia, affermava l’impossibilità di rendere parere sul testo, considerata la sua articolazione e complessità.

La seduta del 15 dicembre si è così chiusa, da un lato, senza disporre il rinvio della formulazione del parere ad un nuovo ordine del giorno (per opposizione del Vice Ministro), e, dall’altro lato, senza rendere il parere (per opposizione della Conferenza), pur accompagnandosi a questo esito formale (e documentato) la reciproca dichiarazione di disponibilità a svolgere successivi incontri, in sede tecnica, per la revisione del testo.

Il procedimento si trovava perciò di fronte ad un quadro anomalo.

Da una parte, la mancata espressione del parere da parte della Conferenza si poteva configurare idoneo ad impedire il prosieguo del procedimento, esigendo la legge delega che l’adozione del decreto avvenisse una volta «sentito il parere» della Conferenza e non potendosi ipotizzare l’invocazione dell’articolo 3, comma 3, della l. n. 281/1997, secondo cui «quando un’intesa espressamente prevista dalla legge non è raggiunta entro trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza Stato-regioni in cui l’oggetto è posto all’ordine del giorno, il Consiglio dei Ministri provvede con deliberazione motivata», perché tale norma, che varrebbe a consentire l’aggiramento della mancata espressione da parte della Conferenza, si applica all’intesa (anche se non alla “intesa forte”), ma non al parere (a meno di non ricorrere ad un’interpretazione a fortiori, nella versione a maiori ad minus, peraltro argomentabile con difficoltà, trattandosi verosimilmente di norma eccezionale e quindi insuscettibile di applicazione estensiva).

Dall’altra parte, nella medesima seduta del 15 dicembre 2005 veniva depositata dallo Stato una nota di controdeduzioni (generali e puntuali) al documento presentato dalle Regioni; benché il verbale della seduta dia limitato conto di questo profilo, esso merita di essere segnalato perché arricchisce le peculiarità del caso, dal momento che nello scambio delle note si è concentrata (ed esaurita) la cooperazione inter-istituzionale fra Stato e Regioni.

E’ da rilevare, infatti, che nella successiva seduta del 26 gennaio 2006 (Repertorio atti n. 919/CU) la Conferenza unificata prendeva atto di un ordine del giorno recante parere negativo, da parte delle Regioni, sullo schema di decreto, il che, sebbene non risulti oggetto di un’ufficiale trasmissione né alle Commissioni parlamentari né al Governo, ha di fatto rimosso l’ostacolo al procedimento costituito proprio dalla mancata espressione del parere.

All’ordine del giorno veniva allegato un documento tecnico di analisi e critica dei contenuti del decreto, documento che appare riprodurre in modo sostanzialmente identico il contenuto della precedente nota depositata dalle Regioni nell’imminenza della seduta del 15 dicembre, alla quale lo Stato aveva già replicato con il documento depositato nella medesima seduta.

Sembrerebbe, quindi, che dalla seduta del 15 dicembre a quella del 26 gennaio le osservazioni della Conferenza (meglio, delle Regioni) e le controdeduzioni dello Stato, benché già perfezionate, siano rimaste incomunicanti, conducendo alla riproposizione del documento della Conferenza in allegato al parere negativo.

Ma potrebbe anche ritenersi che i documenti siano stati effettivamente conosciuti e non abbiano condotto ad una effettiva cooperazione circa la modifica dei contenuti del decreto, ciò che giustificherebbe la riproduzione delle medesime osservazioni in allegato al parere negativo.

In questa seconda ipotesi, però, si dovrebbe rilevare che la partecipazione dei diversi livelli territoriali coinvolti dall’adozione del decreto sia stata, più che assente, mascherata e compressa dallo scambio – poi risultato improlifico – di osservazioni e controdeduzioni; ed è certamente vero che tale modello non corrisponde allo schema dell’intesa come espressione della leale collaborazione (nella rappresentazione comunemente data dell’istituto), ma è anche vero che questo discostamento non si radica nel procedimento di adozione del decreto, ma nelle previsioni della legge delega, le quali, come si è visto, non hanno imposto la conclusione di un’intesa ma si sono limitate a richiedere la formulazione di un parere non vincolante della Conferenza.

Imputare alla legge delega un difetto nella previsione dei meccanismi e degli istituti della cooperazione inter-istituzionale può però non essere semplice, non tanto perché non vi furono rilievi, sul punto, in sede di promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, ma soprattutto perché, nella citata seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005, il Vice Ministro e il Presidente della Conferenza hanno pur sfiorato (difficile dire con quanta intenzionalità e, soprattutto, con quanta consapevolezza) il tema: a proposito del documento depositato dalle Regioni, il Vice Ministro rilevava infatti che, mentre residuavano spazi per emendamenti puntuali al testo del decreto, «è altra cosa contestare la legittimità della legge delega» (verbale n. 13/05, p. 32). Benché genericamente riferita ad un contrasto con l’articolo 117 Cost. (e non, nello specifico, alla previsione del semplice parere vincolante e non dell’intesa), la questione trova questa risposta nelle parole del Presidente della Conferenza: «se è stato scritto ciò in un documento redatto dalle Regioni, allora le Regioni riconoscono di aver sbagliato. Fa presente che le Regioni non contestano la legittimità della legge delega, bensì come è esercitata la legge delega, cioè il merito» (ibidem).

E’ ovviamente evidente che questa affermazione non incide ex se sulla legittimità o no della legge delega nella parte in cui ha affidato al parere non vincolante della Conferenza la cooperazione inter-istituzionale. Tuttavia, la stessa affermazione ha comportato la concentrazione del ruolo della Conferenza nell’alveo riconosciutole dalla legge delega, ossia, appunto, nell’espressione di un parere non vincolante, così riducendo la questione alla conformità del procedimento di adozione alla previsione di delega che pretende soltanto che sia “sentito” il parere della Conferenza.

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La cooperazione inter-istituzionale si è dunque consumata nel poco divulgato scambio di documenti che lo Stato e gli enti territoriali hanno compiuto a metà dicembre.

Non dovendo qui esprimere un giudizio sulla sufficiente idoneità di tale fase ad assicurare l’adeguata «partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione» (secondo la categoria introdotta, ancora, da Corte cost., n. 6/2004), si possono linearmente descrivere, con ampia sintesi, alcuni fra i principali elementi di contenuto di questo “dialogo cartolare” (limitatamente ai profili generali e con esclusione, quindi, dei rilievi e delle argomentazioni concernenti, nel merito, le singole parti del provvedimento).

Sul difetto di cooperazione, in forza del quale la Conferenza ha criticato l’approvazione del decreto come atto unilaterale del Governo, che viola il principio della leale collaborazione tra le istituzioni e costituisce una scelta centralistica, il Governo ha mostrato di adottare (come ulteriormente illustrato nella Relazione tecnico-normativa di accompagnamento del provvedimento) un’interpretazione del riparto di competenze fondata sull’affermazione della Corte costituzionale secondo cui spettano «allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale», pur impregiudicata restando, ove costituzionalmente sancita, la rimanente competenza regionale quanto «alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali» (Corte cost., sentt. n. 259/2004n. 312/2003 e n. 303/2003). Il problema che residua (ma che, in un opportuno rovesciamento di prospettiva, potrebbe diventare il nucleo della questione) è che l’individuazione degli «interessi funzionalmente collegati», rispetto ai quali va riconosciuta la competenza regionale, potrebbe implicare la regolazione dell’esercizio delle relative funzioni amministrative, nel qual caso, secondo la Corte, sarebbe allora necessaria la conclusione di un’intesa.

Sul carattere innovativo del decreto, le Regioni hanno profilato un eccesso di delega nella parte in cui il provvedimento non si è limitato al coordinamento ed al riordino della disciplina vigente, ma ha anche apportato significative modificazioni; il Governo ha replicato rilevando che la delega assegnava anche (in via generale e mediante direttive puntuali) un compito di «integrazione», al quale si aggiunge il necessario carattere innovativo discendente dal recepimento delle direttive comunitarie (cui parimenti la delega ha impegnato il Governo).

Su quest’ultimo aspetto, le Regioni hanno osservato che «l’attuazione» prevista dalla legge delega avrebbe dovuto riguardare le sole direttive «già approvate», dovendo invece le altre, in attesa di recepimento, seguire diverso e autonomo iter. Ha rilevato il Governo che questa impostazione condurrebbe, da un lato, a prescindere dall’attuazione di direttive fondamentali, quali la 2000/60/CE in materia di acque o la 2004/35/CE in materia di danno ambientale, e, dall’altro lato, ad adottare una distinzione (fra «attuazione» e «recepimento» della normativa comunitaria) molto sfumata nella dottrina, nella giurisprudenza e del lessico istituzionale, e comunque non rinvenibile nel testo normativo che disciplina la «partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari», ossia la legge 4 febbraio 2005, n. 11 (c.d. «legge Buttiglione», sostitutiva della previgente legge 9 marzo 1989, n. 86, c.d. «legge La Pergola»).

In materia di riparto di funzioni fra Stato e Regioni, la Conferenza ha sollevato perplessità in ordine al riassetto delle funzioni amministrative e della relativa distribuzione fra regioni ed enti locali; in effetti, poiché il riordino apportato dal provvedimento interessa complessi normativi in larga misura risalenti ad un periodo anteriore alla l. n. 57/1997 ed al d.lg. n. 112/1998, le norme proposte provvedono alla revisione delle disposizioni che, formulate sotto la vigenza del precedente riparto, richiedevano adeguata riformulazione per conformarsi al mutato quadro normativo. La Conferenza si preoccupava, però, che le funzioni nel frattempo delegate dalle Regioni agli Enti locali venissero ex novo intestate alle prime, deprivandone i secondi. Il Governo, condividendo il tema, ha rilevato che le disposizioni dello schema di decreto in cui si enuncia la titolarità di talune funzioni amministrative da parte delle Regioni assumono unicamente funzione ricognitiva e dichiarativa, e non devono interpretarsi come fonti che ripartiscono le suddette funzioni in termini differenti da quanto già disposto dalle singole Regioni. Tali formulazioni si limitano – dichiarativamente, appunto – a prendere atto del mutato quadro normativo in materia di riparto delle funzioni, sostituendo alla titolarità statale quella regionale, ma senza con ciò pretendere, difettandone peraltro la legittimazione, di introdurre una diversa distribuzione delle medesime, ed inalterato restando, per conseguenza, il riparto che attualmente risulti vigente sulla base del trasferimento operato dalle regioni a favore degli enti locali.

Qualcosa, dunque, fra Stato e Conferenza unificata è stato scritto: forse, sugli ultimi due profili, i chiarimenti resi dal Governo potevano stimolare la ricerca di condivisione da parte della Conferenza (e quindi condurre all’espunzione delle relative osservazioni nell’allegato alla formulazione del parere negativo, che invece le riproduce testualmente); forse, su altri aspetti, le repliche argomentative del Governo appaiono più lontane dalla radicalità delle osservazioni della Conferenza, al cui parere, tuttavia, formalmente la legge delega non chiedeva di conformarsi.

Ma è qui che il discorso torna all’inizio: al singolare svolgimento della «leale collaborazione» (almeno rispetto ai modelli teorici comunemente diffusi), ai rapporti fra decreto legislativo e legge delega (che hanno in parte assorbito la questione dell’idoneità della cooperazione) ed alle peculiarità di una partecipazione degli enti territoriali concentrata in uno scambio di documenti e quindi in un dialogo, come si è detto, “cartolare”, che avrebbe comunque potuto ricevere maggiore valorizzazione.

[1] Tali associazioni sono state individuate con D.M. 20 febbraio 1987 (Gazz. Uff. 20 febbraio 1987, n. 48), con Comunicato 1° dicembre 2001 (Gazz. Uff. 1° dicembre 2001, n. 280), con Comunicato 4 giugno 2002 (Gazz. Uff. 4 giugno 2002, n. 129), con Comunicato 11 giugno 2002 (Gazz. Uff. 11 giugno 2002, n. 135), con D.M. 26 febbraio 2003 (comunicato in Gazz. Uff. 7 maggio 2003, n. 104), con D.M. 16 ottobre 2003 (pubblicato, per comunicato, nella Gazz. Uff. 11 dicembre 2003, n. 287), con D.M. 4 novembre 2003 (pubblicato, per comunicato, nella Gazz. Uff. 11 dicembre 2003, n. 287), con D.M. 28 gennaio 2004 (pubblicato, per comunicato, nella Gazz. Uff. 7 maggio 2004, n. 106), con Comunicato 31 maggio 2004 (Gazz. Uff. 31 maggio 2004, n. 126), con Comunicato 5 agosto 2004 (Gazz. Uff. 5 agosto 2004, n. 182), con D.M. 7 luglio 2004 (Gazz. Uff. 17 settembre 2004, n. 219), con D.M. 22 aprile 2004 (pubblicato, per comunicato, nella Gazz. Uff. 11 febbraio 2005, n. 34), con D.M. 28 dicembre 2004 (pubblicato, per comunicato, nella Gazz. Uff. 5 marzo 2005, n. 53) e con Comunicato 5 marzo 2005 (Gazz. Uff. 5 marzo 2005, n. 53) e con D.M. 24 maggio 2005 (pubblicato, per comunicato, nella Gazz. Uff. 27 giugno 2005, n. 147)..

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