Privatizzare si può. Ma non l’acqua

EMERGENZA COSTITUZIONALE

Il problema della privatizzazione dell’acqua (o, meglio, dell’affidamento del servizio idrico a privati) è di difficile inquadramento, perché di solito è affrontato in termini giuridici, mentre si tratta principalmente di un problema politico e sociologico (al più, di politica del diritto).
Per spiegare questa affermazione bisogna partire dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, la quale, oltre a dichiarare legittime le disposizioni legislative in favore della gestione privata dell’acqua pubblica, ha chiarito un punto importante e, cioè, che la disciplina italiana non costituisce obbligatoria attuazione delle direttive europee, ma è frutto di una scelta discrezionale del nostro legislatore, nel senso della decisa apertura del servizio idrico al mercato e ai privati.
In linea di massima, non ci sarebbe nulla di male ad assegnare la gestione di un servizio pubblico al soggetto in grado di fornire maggiori garanzie sul piano dei risultati, prescindendo dalla natura pubblica o privata dello stesso. In tal senso, la concorrenza rappresenta un valore, da coltivare e perseguire. Per la gestione dei servizi pubblici di interesse generale, insomma, l’ipotesi del mercato regolato è quella che maggiormente convince, sulla falsariga degli indirizzi europei.
Tuttavia, il caso dell’acqua è del tutto peculiare, perché si tratta non soltanto di un servizio di interesse generale, ma di un bene indispensabile per la comunità. È per questo che occorre concentrare l’attenzione più che sul problema giuridico della natura pubblica o privata del gestore del servizio, su quello sociologico della situazione ambientale e territoriale nella quale la disciplina è destinata ad applicarsi. Non a caso l’Unione Europea, che pure è impegnata nella diffusione delle politiche di tutela della concorrenza, lascia un ampio margine di discrezionalità ai legislatori nazionali in materia di servizi pubblici locali e, in particolare, in tema di servizi idrici. Proprio al fine di tener conto delle particolari situazioni politiche, sociali e culturali degli Stati membri. E delle diverse aree all’interno di ciascuno Stato.
Il bene acqua è talmente indispensabile per la comunità e l’attività di impresa nel Mezzogiorno è talmente investita da refoli di corruttela, che occorre interrogarsi circa l’opportunità di assegnare a un soggetto privato, per alcuni decenni, la gestione di un bene comune fondamentale per la sopravvivenza stessa della comunità. Ci si può permettere di correre questo rischio? Una società democratica può anche vagamente sopportare l’idea che un soggetto privato possa sfruttare un indispensabile bene comune sulla pelle dei cittadini?
Né può pensarsi che i meccanismi di regolazione siano in grado di far fronte al problema. In Italia, il sistema delle autorità indipendenti è a forte rischio di cattura da parte degli interessi “forti”.
Ecco, quindi, che, nel caso specifico, la questione va spostata dal piano della concorrenza a quello della precauzione e della gestione del rischio (termini utilizzati, qui, in senso atecnico).
È ovvio che, in questo quadro, la gestione pubblica dei servizi idrici non costituirebbe la panacea di tutti i mali. Le disfunzioni che affliggono le reti e i servizi idrici sono tante e gravi. Le infiltrazioni di malaffare vi sono anche nei governi locali, per cui la scelta del pubblico non costituisce di per sé una garanzia. Le finanze degli enti locali sono talmente ridotte da chiedersi se un soggetto pubblico sia in grado di investire quanto sarebbe necessario per migliorare la rete e il servizio.
Eppure, sulla base del ragionamento compiuto, quest’ultima sembra essere la sola strada razionalmente percorribile, tenuto conto dei concreti rischi ai quali conduce l’altra. Bisognerebbe, semmai, concentrare l’attenzione sulle modalità attraverso cui migliorare la gestione pubblica del servizio. Lavorare per migliorare quel che già c’è, anziché vagheggiare scenari da sogno, destinati a mai realizzarsi (se non, nel peggiore dei casi, a trasformarsi in un tremendo incubo).