Guerra e Costituzione

Alla prova dei fatti (aggiornamento al 19/03/2003)

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LA “GUERRA FREDDA”:
DALL’ISTITUZIONE DELLA NATO AGLI EUROMISSILI

(Claudio De Fiores)

L’istanza pacifista nell’ordinamento costituzionale italiano si fonda, come adeguatamente evidenziato in dottrina già negli anni cinquanta (M. BON VALSASSINA, Il ripudio della guerra nella Costituzione italiana, Cedam, Padova, 1955, passim), su due enunciati fondamentali, entrambi contenuti nell’art. 11: a) il ripudio della guerra come strumento di risoluzione di controversie internazionali o di oppressione di altri popoli; b) la costruzione di un ordinamento internazionale di “pace e giustizia” fra le nazioni, anche a costo di veder limitata di propria sovranità (“a parità di condizioni con gli altri stati”).
Tuttavia il tentativo di relegare la guerra fuori della storia, idealmente perseguito dal Costituente italiano e la connessa costruzione di un ordinamento internazionale fondato sulla pace tra i popoli, dovette immediatamente fare i conti con lo scenario mondiale venutosi prefigurando all’indomani della seconda guerra mondiale: la contrapposizione Est-Ovest, il delinearsi dell’equilibrio del terrore fra Unione Sovietica e USA, la “tensione nucleare” fra i blocchi. La dimensione giuridica interna (art. 11 Cost.) e internazionale (la Carta dell’ONU) vennero, così, in breve tempo, reputate insufficienti per assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni. E già nel 1949 alcuni governi occidentali, “pressati” dagli USA, ritennero necessario procedere alla creazione di un nuovo e “più incisivo” strumento di difesa armata: la NATO.
L’adesione alla Nato venne realizzata sulla base di strategie militari ed obiettivi politici per molti aspetti contrari ai presupposti ideali della Costituzione italiana. Fra gli obiettivi prioritari del Patto vi era, innanzitutto, quello di normativizzare l’egemonia degli USA all’interno dell’Organizzazione, relegando di fatto gli altri Stati in una condizione di mera subordinazione giuridica e politica. Per di più, successivamente, con l’attuazione delle direttive comuni della NATO venne espressamente riconosciuta anche la posizione gerarchicamente sovraordinata degli alti comandi militari. Una condizione questa destinata a travolgere uno dei principi fondamentali del costituzionalismo, secondo il quale, nei moderni sistemi statuali, anche il comando dei vertici militari deve essere subordinato alla direzione politica propria delle autorità civili (come è possibile evincere dallo stesso art. 87, nono comma, della Costituzione italiana). (W. LEISNER, La funzione governativa dei politica estera e la separazione dei poteri, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 334). A fronte di tali palesi distorsioni costituzionali, la prevalente dottrina giuridica italiana non esitò a denunciare il carattere atipico e – anche sotto il profilo costituzionale – anomalo degli accordi conclusi dall’Italia in ambito NATO. Per una ragione, innanzitutto: seppure nel Trattato fosse stato formalmente sancito, conformemente al disposto dell’art.11 Cost., il principio di parità fra tutti gli Stati aderenti, di fatto le modalità di organizzazione e di funzionamento della NATO sancivano, sul piano funzionale, l’assoluta posizione di egemonia dello Stato-guida: gli U.S.A. Scriveva nella prima metà degli anni settanta Giuseppe De Vergottini: con la istituzione della NATO “le più importanti scelte che riguardano un indirizzo politico della difesa sfuggono a qualsiasi realistica possibilità di intervento dell’apparato costituzionale italiano” (G. DE VERGOTTINI, Le modificazioni delle competenze costituzionali in materia di difesa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1974, 446. Su posizioni affini A. BARBERA, Gli accordi internazionali: tra Governo, Parlamento e corpo elettorale, in Quad. Cost., 1984, 493). Di qui la conseguente e ben più incisiva richiesta, espressa da altra parte della dottrina, di sottoporre in futuro tutti i trattati che avessero ristretto – in maniera diseguale – la sovranità statuale ai vincoli e alle forme del procedimento aggravato delineato dall’art.138 della Costituzione (così G. TREVES, Le limitazioni di sovranità e i trattati internazionali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 561 ss.; E MORELLI, Il Trattato contro la proliferazione delle armi nucleari e l’art. 11 della Costituzione, in Riv. dir. inter., 1976, 57 ss.). Tuttavia già nel corso degli anni settanta iniziò progressivamente a farsi strada una più “accomodante” interpretazione del dettato costituzionale (interpretazione “adeguatrice”, si disse) protesa a ritenere “ammissibile le diseguaglianze di trattamento”, qualora ritenute “indispensabili” per assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni (A CASSESE, Comm. Cost. Branca. Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, 461 ss.).
Nel corso degli anni ottanta il dibattito in dottrina investirà, in modo particolare, la questione dell’installazione degli euromissili Cruise e Pershing a Comiso. La decisione del governo italiano di impiantare sul territorio nazionale basi per missili a lungo raggio “di primo colpo” (e quindi con finalità preminentemente offensive) venne reputato da un articolato orientamento dottrinale contrario alle finalità dell’art. 11 (A. BARBERA, Gli accordi internazionali: tra Governo, Parlamento e corpo elettorale, in Quad. Cost., 1984, 493; C.R.S. (a cura del), Missili e potere popolare, Franco Angeli, Milano, 1985; GRASSI S., Le garanzie giuridiche in tema di pace, in Dem. Dir., 1986, 79 ss.; N. RONZITTI, Politica di difesa, Costituzione e norme internazionali, in Pol. internaz., 1984, 179 ss.; U. ALLEGRETTI, Una ricerca su Costituzione e nuove armi, in Dem. dir., 1986, 99 ss).
Particolarmente significativo in quegli stessi anni fu anche il confronto dottrinale sulle spedizioni all’estero di corpi e unità militari (soprannominate “missioni di pace”). Si trattava di spedizioni militari (nel Mar Rosso, Sinai, Libano) decise dai governi italiani (d’intesa con gli esecutivi di altri paesi), sebbene in assenza di un apposito mandato da parte dell’ONU. Particolare rilevo, in questo ambito, assunse l’invio di navi militari nel Golfo Persico nel 1987, disposto unilateralmente dal governo italiano in assenza di una previa intesa con altri Stati (sul punto si veda la ricostruzione critica della vicenda in P. BARRERA, Parlamento e politiche di sicurezza: tendenze e prospettive, in Quad. cost., 1987, 281 ss.).
All’interno di tale scenario, il Parlamento veniva generalmente coinvolto solo in una fase successiva e – spesso – attraverso procedure alquanto anomale (come la votazione di un ordine del giorno). Talvolta il Governo, invocando le condizioni di emergenza, non ha in questo ambito esitato finanche a procedere all’esecuzione provvisoria di alcuni trattati non ancora ratificati: una evidente violazione dell’art.80 della Costituzione, adeguatamente evidenziata in dottrina (A. MASSAI, Parlamento e politica estera, in Quad. cost., 1984, 559 ss.; L. CHIEFFI, Il valore costituzionale della pace. Tra decisioni dell’apparato e partecipazione popolare, Liguori, Napoli, 1990; A. MASSAI, Il controllo parlamentare e le operazioni delle forze di pace, in A. Migliazza (a cura di), Le forze multinazionali nel Libano e nel Sinai, Giuffrè, Milano, 1988, 342 ss.).
Un diverso orientamento dottrinale, infine, pur ammettendo che il Governo non fosse tenuto, in questi casi, a seguire l’iter procedurale descritto dall’art.78 Cost. (non trattandosi di guerra ex art. 11 Cost.), ha coerentemente precisato che le decisioni assunte dal Governo in questa materia avrebbero comunque dovuto mostrarsi rispettose di alcune istanze di garanzia, come: a) il coinvolgimento del Presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della Costituzione; b) l’immediata richiesta al Parlamento di esprimersi sull’operato del Governo (G. MOTZO, Politica estera di difesa e comando delle Forze Armate, in Quad. Cost., 1988, 297 ss.).

LA GUERRA DEL GOLFO
(Francesco Bilancia)

Tra le recenti ipotesi di ricorso all’uso della violenza bellica quale strumento di risoluzione delle crisi internazionali, la “guerra del Golfo” sembra possa distinguersi in virtù della differente occasione da cui si è generata. Non, infatti, un presunto intervento “umanitario”, né un’asserita operazione di “polizia internazionale” (pur essendo stata così qualificata dal Governo italiano in occasione del relativo “dibattito” parlamentare, conclusosi con due disgiunte Risoluzioni che impegnavano il Governo ad aderire alle iniziative militari contro l’Irak, in attuazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle N.U., in ossequio ai doveri “che derivano all’Italia dall’appartenenza” alla suddetta organizzazione internazionale). Si sarebbe trattato, in effetti, di un intervento di legittima difesa collettiva a seguito della invasione di uno stato ad opera di un altro stato.
Il Consiglio di sicurezza delle N.U. in quella occasione si risolse (ris. n. 678 del 1990) nell’autorizzare gli stati membri ad utilizzare “tutti i mezzi necessari” per far rispettare le precedenti risoluzioni indirizzate all’Irak, Paese aggressore, ai sensi dell’art. 41 della Carta autorizzazione che – di fatto – fu interpretata come implicante la facoltà di intervento armato nei confronti dell’Irak medesimo. In parte la dottrina internazionalistica (B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 1992, 385) parve giustificare una simile interpretazione dell’art. 51 della Carta, intesa cioè a consentire il ricorso all’uso della forza da parte di singoli stati anche dopo che il Consiglio di Sicurezza avesse già intrapreso le misure necessarie per il mantenimento della pace, ciò sulla base di una ulteriore risoluzione dello stesso Consiglio di Sicurezza ad effetto, per così dire, facoltizzante, a rimozione cioè del limite di cui al citato art. 51.
Prescindendo, però, in questa sede dal giudizio circa la legittimità delle interpretazioni delle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite assunte in via di prassi – autotutela collettiva, implicante l’uso della forza può non significare necessariamente guerra, di ben altri e devastanti effetti, non fosse altro che per la uccisione di centinaia di civili innocenti (U. Allegretti, Guerra del Golfo e Costituzione, in Foro it., 1991, V, 382 ss.) – gli interventi più articolati della dottrina costituzionalistica italiana si sono di fatto espressi per la non conformità a Costituzione dell’operato delle forze alleate, del Parlamento, del Governo e delle forze armate italiane in particolare. Così Allegretti è giunto addirittura a negare la configurabilità della nozione di autotutela nella ipotesi in cui, conclusasi la fase di aggressione da parte di uno stato, perduri lo stato di occupazione ai danni del Paese aggredito, risolvendosi il caso nella diversa ipotesi di “controversia internazionale” e non più di attacco armato, e quindi ricadendo nella fattispecie di divieto della guerra, di cui all’art. 11 Cost. Ma anche oltre questa interpretazione della situazione di fatto, tale autore ha proceduto a segnalare le puntuali violazioni del diritto internazionale generale e della Carta delle N.U. perpetrate, in quella occasione, dalla comunità internazionale e dalle stesse istituzioni delle N.U., sì da ritenere non configurabili obblighi, o facoltà, per l’Italia di aderire alle proposte di intervento armato nel Golfo persico in virtù di presunti impegni acquisiti in sede di adesione alla medesima organizzazione. Ciò sempre in ossequio al principio pacifista sancito dal citato art. 11 della Costituzione italiana (così anche E. Bettinelli, Guerre e operazioni di polizia internazionale, in Foro it., 1991, V, 375 ss.).
A detta di tale autore, infine, “la guerra oltrepassa…una soglia di diversità, assume un carattere di dismisura e di sregolatezza, che le danno una natura differente dagli impieghi della forza consentiti dall’art. 42 della carta di San Francisco…può darsi che una polizia qualunque, fosse pure quella del governo più oppressivo, per stroncare un illecito compia deliberatamente una strage di massa? Se questi sono i propositi di governo mondiale dell’Onu, meglio nessuna polizia internazionale”. Parole che suonano profetiche alla luce di quanto sarebbe, poi, accaduto con la guerra in Afghanistan, o con la strage nel teatro di Mosca da parte dei reparti speciali Russi nel tentativo di liberazione degli ostaggi catturati dai terroristi Ceceni, lo scorso autunno Ed ancora Bettinelli, per l’osservazione circa la natura di vero e proprio «flagello» (come indicato nel Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite) della guerra “nella sua globalità”, qualificata perciò comunque come illecito, il che “rende sterile qualsiasi discussione (e ricerca) sulla possibilità di una discriminazione tra guerre giuste o ingiuste. L’espressione «guerra giusta» si palesa, infatti, in questo contesto un inevitabile ossimoro”.
Di differente tenore la impostazione di metodo professata da S. Bellomia [Brevi considerazioni sulla guerra (a margine della recente raccolta degli scritti di Bobbio sulla guerra del Golfo), in Dir.soc., 1992, 109 ss.] a proposito di guerra “giusta” e guerra “ingiusta” e del valore della sua efficacia quale presunto – ma criticato – parametro per la valutazione della sua necessità. “L’unica guerra giusta è quella inevitabile…quando essa rappresenta l’ultima risorsa oggettivamente possibile”. Salvi i rischi, aggiungeremmo noi, che il giudizio degli uomini, di alcuni uomini, dei nuovi “signori della guerra” che a dispetto delle opinioni dei popoli si rendano interpreti di tale “Inevitabilità”, vanifichi il significato delle regole di civiltà e delle leggi.

LA GUERRA IN KOSOVO
(Marco Ruotolo)

Il dibattito intorno all’intervento armato della NATO in Serbia del marzo del 1999 si è fondamentalmente incentrato sul concetto di guerra “giusta” o “umanitaria” e sulla evoluzione della Nato “da alleanza difensiva in organizzazione con compiti assai diversi dalla legittima difesa collettiva: peace-keeping, interventi ‘fuori area’ e ‘missioni non-art.5’” (CARLASSARE). L’“intervento umanitario armato”, in assenza di una risoluzione ONU che consentisse, in via preventiva o ex post, alla NATO il ricorso alla forza, veniva motivato dalla sistematica violazione dei diritti umani ad opera delle forze serbe nei confronti delle popolazioni del Kosovo.
Da un lato si è rilevata l’autoassunzione da parte della NATO di compiti diversi da quelli per i quali è stata istituita senza che il trattato fosse modificato e persino “oltre” la stessa Carta dell’ONU, dall’altra, con riferimento alla partecipazione dell’Italia all’intervento in Kosovo, la “rottura” dei principi costituzionali che ruotano attorno agli artt. 11 e 78 Cost. (si vedano i contributi raccolti in M. DOGLIANI – S. SICARDI (a cura di), Diritti umani e uso della forza, Seminario organizzato dai Soci dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti sul tema “Diritti umani e uso della forza”, tenutosi a Ferrara l’11 giugno 1999, Torino, 1999).
Si è rilevato che il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali costituisce – e non solo in ragione della sua collocazione – un principio fondamentale, che non può essere sacrificato in virtù di una presunta consuetudine internazionale facoltizzante, che permetta interventi armati “a difesa dei diritti umani”. Peraltro, come affermato dalla CARLASSARE, non può nemmeno dirsi formata una consuetudine internazionale per il semplice fatto che il presunto diritto di intervento armato al fine di proteggere gli individui contro il proprio Stato, nei modi e alle condizioni in cui si è manifestato in Kosovo, appare del tutto “nuovo” e perciò, al massimo, si tratterebbe “di una consuetudine in via di formazione, anzi addirittura allo stadio iniziale”. In senso contrario – come è stato rilevato da PINELLI – non sembra che possano essere richiamati come precedenti gli interventi umanitari non violenti e di peace-keeping e comunque si deve considerare che in casi di analogo pericolo di “catastrofe umanitaria” (ad es., Kurdistan e Cecenia), e in presenza di analoga inattività dell’ONU, né gli Stati né le organizzazioni regionali hanno fatto ricorso all’intervento armato. Si è sottolineata, pertanto, l’oggettiva carenza di elementi che possano far ritenere che si sia formata una “nuova” consuetudine internazionale che legittimerebbe i singoli Stati, in caso di paralisi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a riappropiarsi dello ius ad bellum per reagire a gravi violazioni dei diritti umani (F. VARI). Ad una diversa conclusione si oppongono ragioni di carattere giuridico formale che, nella prospettiva dell’ordinamento italiano, valgono a rendere inammissibile qualsiasi tentativo di legittimazione della guerra “umanitaria” in base all’art. 11 Cost. – nonché, pare evidente, in base all’art. 10 Cost., costituendo i principi fondamentali un ostacolo insuperabile all’adattamento automatico a presunte “nuove” norme di diritto internazionale generale ad essi contrarie.
“La guerra nel Kosovo ha dimostrato che il sistema delle relazioni internazionali determinatosi dopo il venir meno dell’equilibrio bipolare non è stato in grado di ricostruire quel dover essere con pretese di universalità che pure, con la Dichiarazione del 1948, il sistema precedente era riuscito a produrre. Questa non è certo una considerazione nostalgica, ma solo la constatazione del fatto che è venuta meno ‘la prova del nove’ (storico-pratica) del carattere universale della teoria dei diritti” (DOGLIANI).

LA GUERRA IN AFGHANISTAN
(Paola Marsocci)

Le caratteristiche della vicenda.
Da subito, la tragedia delle Twin Towers di Manhattan è esplicitamente indicata dal governo degli Stati Uniti come azione di guerra diretta alla nazione (Joint resolution, Public Law 107-40 del 18 settembre 2001).
La particolarità di questo nuovo scenario di conflitto è nel carattere occulto e indeterminato sia del nemico sia dell’ambito territoriale su cui localizzarlo. La guerra sarà dunque intrapresa verso un’organizzazione o gruppo che usa metodi terroristici, che è sicuramente organizzata in una rete sovranazionale, che è aiutata o “coperta”, però, da Stati e governi nazionali.
La successiva individuazione da parte del governo USA della responsabilità dell’organizzazione di Al-Quaeda, con a capo Osama Bin Laden, di alcuni Stati (elencati e denominati “Stati canaglia”) nell’ospitare o difendere “il nemico” porta alla decisione unilaterale di iniziare operazioni belliche sul territorio Afgano. Dal 5 ottobre sono dislocate truppe USA in Uzbekistan e il 7 ottobre iniziano le operazioni militari. Il 13 novembre viene occupata Kabul, cade il regime talebano e rientra il presidente in esilio Rabbani.
Le operazioni militari durano però ad oggi e non sono stati catturati i presunti responsabili degli atti terroristici. La guerra non si placa anche dopo gli accordi di Bonn ed il governo Karzai. Il comandante statunitense della base di Bagram dichiara esplicitamente che la missione è “di combattimento”, non di peacekiping (gennaio 2003). Talebani e militanti di Al Queda, catturati in operazioni, di guerra sono stati deportati dall’esercito USA nel campo di Guantanamo e sottoposti al nuovo sistema penale americano. Dal luglio 2002 sono in vigore le norme della Corte penale internazionale sull’uso della forza nelle operazioni belliche (cui gli americani non hanno aderito).

Quadro normativo internazionale e interno.
NATO. Il 12 settembre, per la prima volta nella sua storia, il Consiglio dell’Alleanza atlantica afferma che sarà resa operativa la clausola dell’art. 5 del proprio Trattato istitutivo (Press Release 124/2001). Gli eventi dell’11 settembre sono qualificati come atti armati nei confronti di un paese NATO. Una volta accertata la provenienza esterna dell’attacco, si prefigura dunque l’obbligo di fornire il solidale impegno degli Stati membri dell’alleanza a prestare assistenza agli USA, con ogni azione necessaria, compreso l’uso della forza e facendo ricorso all’apparato militare.
Gli Stati della Alleanza si preparano a decidere il loro coinvolgimento nelle operazioni, mettendo a disposizione basi militari o inviando corpi armati nelle zone di guerra (cfr. il comunicato dei 46 membri del Consiglio del partenariato euro-atlantico, Press Release 12 settembre 2001). In ottobre, viste le prove del coinvolgimento di Al-Quaeda, delibera l’applicabilità dell’art. 5.
ONU. Anche il Consiglio interviene tempestivamente e con la risoluzione 1368 (2001) condanna gli attacchi, ribadisce il diritto all’autodifesa, rivolge un appello a tutti gli Stati alla piena collaborazione contro il terrorismo, invita ad implementare le convenzioni internazionali e le risoluzioni già approvate (cfr. 1269 (1999)) in materia.
Posizioni ribadite e rafforzate con la successiva risoluzione 1373 (2001), dove in particolare si tratta prevenzione e repressione delle forme di finanziamento di atti terroristici. L’Assemblea esprime solidarietà al governo e al popolo statunitense e condanna gli atti terroristici, quali azioni volte alla distruzione dei diritti umani (risoluzione 54/164)
ITALIA. Gli impegni che l’Italia decide di assumersi nell’operazione Enduring Freedom riguardano
• “il sostegno alle azioni, anche militari, che si rendano necessarie” al fine di collaborare con gli USA e la comunità internazionale nella “lotta contro il terrorismo (risoluzioni di maggioranza e di minoranza con identico dispositivo a seguito delle riunioni per comunicazioni del governo – 9 ottobre 2001);
• il consenso all’intervento militare italiano, con invio di truppe in Afghanistan sotto il comando USA (risoluzioni del 7 novembre, con dispositivo e voto unico) ;
• il potenziamento (su richiesta USA del luglio 2002) delle truppe inviate (poi deliberato nel dicembre 2002) e la disponibilità dello spazio aereo e delle basi;
la prosecuzione delle operazioni (febbraio 2003). I soldati italiani arrivano in Afghanistan nel febbraio 2003 e a loro si applicano le norme del codice penale militare di guerra (cfr. DL n. 421/2001 convertito il legge n. 6/ 2002, con cui si dispone esplicitamente che questo avvenga, nonostante la mancata deliberazione di cui all’art. 78 Cost.) ora modificato dal Parlamento con l’esclusione di alcuni reati di opinione.
Come già per il Kossovo, la prassi seguita da Governo e Parlamento ha previsto (cfr. Dossier Camera dei Deputati, 2001):
• la convocazione permanente delle Commissioni esteri e difesa dei due rami del Parlamento;
• deliberazioni governative sempre seguite da informazioni alle Camere;
• le determinazioni governative approvate tramite risoluzioni (in aula o in Commissione) dalle due Camere;
• atti normativi conseguenti del governo per la copertura finanziaria;
• disposizioni attuative dell’amministrazione militare.

L’interpretazione costituzionalistica.
La dottrina sottolinea che si tratta, per chiara ammissione di tutte le parti in campo (compresi Parlamento e governo italiani, nonché esponenti dell’opposizione), di operazioni di guerra e del conseguente uso delle forze armate in missioni di combattimento.
• Il solo caso previsto dalla Costituzione italiana – la reazione difensiva di fronte all’aggressione da parte di un altro Stato o il coinvolgimento diretto (o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale) in una grave crisi internazionale (legge n. 331 del 2000) – deve oggi essere interpretato tenuto conto che il nemico è indefinito sia soggettivamente sia territorialmente (C. DE FIORES, «L’Italia ripudia la guerra»? La Costituzione di fronte al nuovo ordine globale, Roma, 2002, 48; G. DE VERGOTTINI G., Guerra e Costituzione, in Quad. cost., 1/2002, 24).
Questo rende ancora più labili i termini temporali delle operazioni belliche rendendo di fatto la rottura del regime di pace come una costante accettabile e compatibile con gli altri valori fondanti degli stati liberaldemocratici (G. DE VERGOTTINI, cit., 21).
Lo stato di emergenza perdurante e l’interesse alla sopravvivenza in pace dei singoli Stati nell’assetto internazionale da loro voluto e perseguito rafforza la potenza guida e induce le singole nazioni a distinguere le loro azioni ed assumere intese bilaterali. In questo sarebbe la dimostrazione che è “la sovranità con i suoi attributi convenzionali che riprende quota mentre rimangono sullo sfondo i meccanismi istituzionali finalizzati alla tutela collettiva della sicurezza” (G. DE VERGOTTINI, cit., 23).
Gli impegni assunti in sede di ratifica dei trattati internazionali nella sostanza “ingessano” i rapporti tra organi costituzionali. Una volta accettata l’interpretazione elastica dell’art. 11 si pone in essere una “sorta di automatismo di intervento” in cui, peraltro, il ruolo delle Camere è necessariamente recessivo rispetto alla sostanza delle deliberazioni del governo, seppure residuano margini per ampliare le modalità di esercizio del sindacato parlamentare (G. DE VERGOTTINI, cit., 28). L’esempio afgano dimostra come il nodo sia nella rispondenza della reazione difensiva rispetto alla valutazione dell’aggressione subita. Lo strappo alla “tradizionale lettura di una parte essenziale dei principi costituzionali” è già di fatto procurato interpretando la guerra come lecita se giustificata da “ragioni umanitarie” o se finalizzata a contrastare il terrorismo internazionale (G. DE VERGOTTINI, cit., 33).
Ugualmente i diritti sono “il fronte” su cui centrare l’attenzione, in quanto affatto scontate devono essere le modalità e l’ampiezza delle norme di eccezione, sospensive e limitative – dalla libertà personale al pluralismo garantito dalla libera diffusione delle fonti di informazione – (G. DE VERGOTTINI, cit., 29 ss.).
Quanto alla procedura adottata dagli organi di indirizzo politico la scelta di provvedere mediante deliberazioni non legislative, quali mozioni e risoluzioni parlamentari di approvazione di deliberazioni governative, essa interpreta correttamente il “principio della riserva parlamentare della decisione” (P. CARNEVALE, Il ruolo del Parlamento e l’assetto dei rapporti fra Camere e Governo nella gestione dei conflitti armati. Riflessioni alla luce della prassi seguita in occasione delle crisi internazionali del Golfo Persico, Kosovo e Afghanistan, in Atti del convegno su “Guerra e Costituzione”, Università di Roma 3, 12 aprile 2002, in corso di pubblicazione. Contra C. DE FIORES, cit., 25). In particolare, la mancata deliberazione dello stato di guerra – ex art. 78 Cost. – “non sarebbe un fatto in sé costituzionalmente censurabile se ed in quanto avvenuta in presenza di una decisone parlamentare circa l’intervento dei militari italiani”, in quanto devono essere tenuti distinti i “pronunciamenti sulla guerra” dai “pronunciamenti sullo stato di guerra” (P. CARNEVALE, cit.).

LA CRISI IRACHENA
(Laura Ronchetti)

Anche la seconda crisi irachena tende a riproporre il corredo ideologico tipico delle altre guerre di globalizzazione. A cominciare dalla costante evocazione dell’intervento bellico nei termini di “guerra giusta”. Particolare rilievo assume in questo contesto la presa di posizione di BENEDETTO CONFORTI, Guerra giusta e diritto internazionale contemporaneo. L’Autore ricostruisce le vicende dello jus ad bellum nel diritto internazionale secondo un percorso interpretativo parallelo a quello svolto da Carl Schmitt nel Nomos della Terra.
A partire dalle più significative opinioni in proposito espresse da canonisti e teologi, nei secoli precedenti all’abbandono della differenza tra guerra ingiusta e guerra giusta proprio del XIX sec., l’a. richiama le “solide basi” della dottrina della guerra giusta poste da S. Agostino: a parte la guerra comandata da Dio, giusta è la guerra, mossa solo in caso di estrema necessità, per riparare un’ingiustizia (ulcisci injurias) contro un popolo o uno Stato (gens vel civitas) che ha omesso di punire misfatti dei suoi o se mira a recuperare il maltolto (quod per inhuras ablatum est) al fine di ristabilire la tranquillità nell’ordine.
Se San Tommaso attribuisce al termine ulcisci injuras una connotazione punitiva individuando la giusta causa della guerra nella colpa dell’avversario, Francisco de Vitoria (di cui Schmitt ricorda il giudizio senz’altro positivo riguardo alla conquista spagnola), invece, pur introducendo il limite della morte di “innocenti” (donne e bambini) e un criterio di “proporzionalità” nel muover guerra, ritiene che la guerra sia giusta anche se l’avversario non è in colpa, anticipando la definizione di guerra come juris executio che sarà propria di Grozio e degli internazionalisti fino alla seconda guerra mondiale(Cfr. Anzilotti e Morelli). Sarà A. Gentili, invece, a distinguere la guerra per legittima difesa (concetto introdotto da Isidoro di Siviglia) in successiva, preventiva o collettiva.
Riguardo al XIX secolo, l’A. afferma che la legittima difesa è l’unica guerra “fatta salva” dalla carta delle nazioni unite (art. 51) come risposta ad un “attacco armato”, specificando che il divieto della guerra sarebbe valso solo tra gli Stati membri dell’ONU, diventando norma del diritto generale o consuetudinario solo quando l’ONU si è universalizzato (Corte internazionale, caso Nicaragua del 1986). Si ammette che, diventata illecita la guerra, la letteratura ha cominciato a cercare altre eccezioni oltre alla legittima difesa in occasione delle varie guerre e interventi armati svoltisi al di fuori del sistema ONU, o dilatando enormemente e ingiustificatamente le categorie esistenti o inventandone di nuove.
L’A. ribadisce che a suo parere non esistono “veramente” principi di diritto positivo internazionale che regolino lo ius ad bellum, né per vietare né per ammettere il diritto di far la guerra e che il divieto potrebbe funzionare solo se funzionasse il sistema di sicurezza collettiva. Aggiunge che la guerra condotta al di fuori delle Nazioni Unite è “indifferente” dal punto di vista del diritto internazionale positivo della cui “impotenza” bisogna prendere atto. Di conseguenza l’idea oggi corrente che la guerra sia illecita se condotta fuori del quadro delle nazioni Unite è una “radicalizzazione “ operata dai positivisti, che presuppone lecita la guerra benedetta dal Consiglio di sicurezza (come la guerra del Golfo), mentre è necessario riportare il dibattito nell’ambito del diritto naturale ripercorrendo le “eterne verità” indicate da teologi, canonisti e giusnaturalisti quale, ad esempio, l’idea della guerra come extrema ratio combinata con il criterio della proporzionalità che giustificherebbe un intervento umanitario.
L’a. conclude ricordando che nei momenti di crisi, in cui il diritto positivo non è più in grado di funzionare, si è in qualche modo costretti a rivalutare il diritto naturale, come successe per il Tribunale di Norimberga. Diritto naturale che, come abbiamo ricordato, non solo non ripudia la guerra, ma ha storicamente giustificato la guerra di invasione e di conquista.
Altro punto controverso nell’attuale dibattito in dottrina è costituito dalla questione della intrinseca legittimità della guerra, qualora formalmente deliberata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Una posizione questa ampiamente condivisa da M. AINIS, La prima vittima di Bush, in La Stampa, 10.02.2002. Nel suo breve contributo l’A. sostiene che l’unica fonte di legittimazione del conflitto con l’Iraq sia il Consiglio di sicurezza, senza interrogarsi né sui limiti posti dalla Carta ONU all’uso della forza, né sul ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie contenuto nell’art. 11 della nostra Costituzione. L’A., in estrema sintesi, afferma – richiamandosi a Grozio e a Kelsen, in qualità di sostenitori del primato del diritto sulla guerra – che l’uso delle armi è “giusto e perciò legittimo” se mira a difendere la “integrità di un popolo” osservando le procedure prescritte dall’ordinamento.
Una posizione questa che non convince LUIGI FERRAJOLI, L’ONU, in Rivista del manifesto, 15.02.2003. Secondo Ferrajoli, se il Consiglio di Sicurezza dovesse autorizzare l’intervento armato contro l’Iraq violerebbe la Carta, commetterebbe un illecito e provocherebbe la dissoluzione del suo stesso ordinamento (tesi già esposta in Id., Neanche l’ONU può, ivi, 15 dicembre 2002). La guerra in Iraq sarebbe, infatti, illegittima per due ragioni: da un lato, manca il presupposto della minaccia alla pace o di una violazione della pace o a ristabilire la pace (art. 39) da parte irachena, a fronte della violazione sistematica del divieto di uso e minaccia dell’uso della forza (comma 4, art. 2) ad opera di chi bombarda da anni la no fly zone dell’Iraq, in un ordinamento in cui la guerra di difesa preventiva è stata ripetutamente dichiarata illecita ( cfr. ris. 19 .06.1981); dall’altro, il Consiglio di sicurezza non può deliberare una guerra, cioè un uso della forza smisurato e incontrollato, ma solo, perché sia legittimo, un impiego della forza strettamente necessario per mantenere la pace (artt. 47, c. 3 e art. 53, c. 1) e non per servire interessi di parte.
L’A. ricorda che la Carta ONU è nata proprio per porre fine all’anarchia internazionale generata dallo jus ad bellum e per archiviare il concetto di guerra giusta i cui vecchi limiti giusnaturalistici, peraltro, risultano incongruenti con lo sviluppo tecnologico degli armamenti. Sarebbe, quindi, palese l’incongruenza tra il presunto fine “giusto” della guerra e le illimitate capacità distruttive dei mezzi di guerra “nell’odierna riesumazione imperiale della dottrina medievale della “guerra giusta””. La “guerra a tutela dei diritti” è una clamorosa contraddizione in termini e violerebbe due principi fondamentali della “etica moderna”: nessuna persona può essere usata come mezzo per fini non suoi e la congruenza dei mezzi impiegati ai fini dichiarati.
Il ritorno alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie (espressamente proclamato nel documento strategico statunitense del 17.9.2002) produrrà il crollo del diritto internazionale e dello Stato di diritto, come dimostra il d.l. 374/2001 che estende in modo indeterminato i presupposti delle intercettazioni telefoniche e consente attività sotto copertura di agenti provocatori. L’a., quindi, contesta la “fallacia naturalistica” dell’ineluttabilità della guerra che riconduce, invece, a una scelta politica deliberata che bisogna continuare a denunciare come contrastante con il principi costituzionali e internazionali. Propone, quindi, la costruzione di una sfera pubblica internazionale, dotata, più che di istituzioni di governo, di istituzioni di garanzia dei diritti e della pace, quali l’istituzione della forza di polizia internazionale ex art. 47ONU per una graduale formazione del monopolio giuridico della forza in capo alle Nazioni Unite e l’applicazione di rigide convenzioni sul disarmo e messa al bando delle armi come beni illeciti, la messa in funzione della Corte penale internazionale in particolare per il reato di “guerra di aggressione” (art.2 Statuto) e, infine, la creazione di istituzioni deputate alla soddisfazioni dei diritti sociali a livello globale, finanziate attraverso una fiscalità mondiale.
In questo quadro merita, infine, di essere segnalata la posizione recentemente assunta da A. CASSESE, Se il conflitto, mette a rischio anche l’ONU, in La Repubblica, 2.2.2003. Secondo Cassese la violenza militare può essere usata non solo in caso di legittima difesa, ma anche su autorizzazione del Consiglio di sicurezza. L’A. ricorda che nei vari casi in cui tali regole sono state violate (Urss contro Afganistan nel 1980, USA contro Panama nel 1989 e contro Sudan e Afganistan nel 1998), la violazione è sempre stata negata dai responsabili di queste azioni, affermando la legittimità delle loro scelte in base alla mai ripudiata Carta dell’ONU. Oggi, invece, il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1441 che ha adottato misure di ispezione e di sanzione nei confronti dell’Iraq e ha assunto un impegno collettivo a ritornare in Consiglio per gestire la crisi irachena. Ora, la annunciata volontà di intraprendere una guerra , non solo unilaterale, ma contro il veto posto da alcuni Stati in Consiglio ripudierebbe il fondamento stesso dell’ONU: l’opzione pacifista. La Carta ammette, infatti, il ricorso collettivo alla guerra solo come estremo rimedio, qualora vi sia il consenso o la tacita approvazione da parte degli altri membri permanenti del Consiglio. L’A. ricorda, infine, che chi attaccasse uno stato sovrano s’esporrebbe all’accusa di aggressione, reato per il quale la Corte penale internazionale non ha competenza grazie all’opposizione degli Stati Uniti, ma che potrebbe essere contestato dalle giurisdizioni dei singoli Stati, come il caso Pinochet parrebbe insegnare.

aggiornamento al 19 marzo 2003

La decisione del Presidente degli Stati Uniti e dei suoi alleati di attaccare l’Iraq ritirandosi dal confronto in sede ONU – dove si sono trovati in minoranza e esposti al potere di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza -, ha sollecitato una presa di posizione da parte di M.LUCIANI, Costituzione, alleanze e conflitti, La Stampa 19.03.2003, che giudica tale guerra costituzionalmente illegittima. L’A. chiarisce che la guerra non sarebbe stata ammissibile neanche nell’ipotesi di un’autorizzazione dell’ONU. A tale conclusione l’A. arriva, peraltro, a partire da una interpretazione “adeguatamente ampia” della fattispecie della guerra difensiva in considerazione dei nuovi scenari tecnologici e geopolitici che hanno modificato il quadro dei rapporti internazionali ma non hanno fatto perdere forza normativa al ripudio della guerra contenuto nell’articolo 11 Cost.
All’A. potrebbe forse obiettarsi che tale apertura ad un’interpretazione adeguatrice della Costituzione, e in particolare dell’art. 11, alle trasformazioni in corso nelle relazioni internazionali potrebbe fornire una sponda a chi intende piegare la portata normativa del dettato costituzionale alla funzione di avallare scelte con lo stesso incompatibili. Proprio in considerazione del radicale cambiamento dello scenario internazionale e alla luce del precedente della guerra del Kosovo, G. DE VERGOTTINI, Sole 24ore, 19.3.2002 propone, infatti, una lettura meno “rigorosa” e “più obiettiva” dell’art. 11 Cost. che vada oltre l’illiceità di qualsiasi guerra che non sia difensiva. Tale lettura sembra abbandonare l’istanza pacifista prescritta dall’art. 11 Cost.: l’A., richiamando quella corrente interpretativa sostenuta da alcuni giuristi inglesi secondo cui la guerra contro l’Iraq “non è in contrasto con quanto determinato dalle Nazioni Unite”, che solo in tre occasioni ha esplicitamente autorizzato un’azione militare (Corea nel 1950, Iraq nel 1991 e Afghanistan nel 2001), ritiene “appropriata” e “corretta” la qualificazione di “non belligeranza” per la posizione italiana, implicitamente ammettendo la legalità di forme di supporto all’invasione irachena. Sarebbe sufficiente che le determinazioni sulle forme della “non belligeranza” italiana venissero assunte dal Governo nella sua discrezionalità, ma sulla base di un’espressa approvazione parlamentare, secondo le procedure previste (l.n. 25/1997 e risoluzione IV Commissione Camera dei deputati 7-01007 del 16 gennaio 2001).

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