La Corte di Cassazione e l’utilizzo spinto, in chiave ermeneutica, del principio costituzionale della «ragionevole durata» del processo (ovvero: di due casi emblematici di «eccesso» di… interpretazione costituzionalmente conforme)

1. È notorio che, secondo l’ormai costante giurisprudenza della Corte costituzionale, allorquando la medesima disposizione di legge si presti ad una pluralità di interpretazioni diverse, costituisce preciso dovere del giudice, chiamato a farne applicazione, prediligere l’opzione ermeneutica che appaia maggiormente conforme a Costituzione, evitando così di sollevare una questione di legittimità[1] (finanche nel caso in cui quella opzione non sia allineata al «diritto vivente»[2]). Per dirla con le parole della stessa Corte, «l’illegittimità costituzionale di una disposizione non consegue alla possibilità di darne un’interpretazione contrastante con precetti della Costituzione, quanto all’impossibilità di adottarne una ad essi conforme»[3]; ed anzi, «la mancata verifica preliminare da parte del giudice rimettente, nell’esercizio dei poteri ermeneutici riconosciutigli dalla legge, della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il superamento di tali dubbi, o da renderli comunque non rilevanti nel caso di specie, comporta l’inammissibilità della questione sollevata»[4]. In buona sostanza, ciò che viene richiesto al giudice è un particolare «sforzo interpretativo» (più o meno intenso[5]) che – pur senza travalicare i confini del dato testuale[6] – consenta di ricavare dalla disposizione legislativa di volta in volta considerata un significato normativo che non si ponga in contrasto con le previsioni della Carta.

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