Per la critica al progetto di riforma della Costituzione del governo Berlusconi

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1. Si persevera nel voler modificare la Costituzione repubblicana. Senza alcuna riflessione sulla conformazione politica della Nazione come storicamente determinata, senza alcuna considerazione delle repliche opposte dal sistema politico che reagisce agli interventi dell’ingegneria istituzionale facendoli fallire quanto al rendimento fantasticato, e ristrutturandosi secondo i suoi caratteri genetici ma deviati verso la perversione dalle protesi invasive e distorcenti che subisce; senza alcuna esitazione a perseguire disegni di ulteriore verticalizzazione del potere politico che attingono alla monocrazia.
E dopo il meritato fallimento dei conati di tre Commissioni bicamerali, il Governo Berlusconi il 12 settembre 2003, sulla traccia redatta dai ‘saggi di Lorenzago’ (quattro parlamentari, uno per ciascuno dei partiti della maggioranza riuniti in un albergo del comune omonimo) ha approvato un disegno di legge costituzionale che pretende di modificare le norme contenute in ben trentacinque articoli della Costituzione repubblicana1). Come? Sul contenuto di questo testo, in attesa della discussione e delle modifiche che ne deriveranno nel corso del suo iter parlamentare, è possibile esprimere un giudizio che perciò potrà riguardare solo le sue linee portanti, il suo senso complessivo, gli obiettivi di fondo cui mira.
È da far rilevare subito che, rispetto ai precedenti tentativi di revisione complessiva della seconda parte della Costituzione, questa volta, è il governo come tale che ne assume l’iniziativa, formale e sostanziale, è il Consiglio dei ministri, col nome del suo Presidente in testa all’apposito progetto di legge costituzionale, che pretende di disegnare l’assetto ‘moderno’ dello stato italiano. Poiché questo disegno di legge di ‘modificazioni’ (è questo e non quello di ‘revisione’ il termine usato nel titolo che lo contrassegna) delle norme costituzionali ha ad oggetto la forma di governo in senso lato (Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, toccando anche il C. S. M. e il procedimento di revisione) e fa perno sull’obiettivo dell’introduzione in Italia del cosiddetto premierato va già posto in rilievo che è l’organo che si vuole potenziare che si annuncia come impulsore, inventore, produttore, prima ancora che come prodotto, della sfigurazione della Carta costituzionale. Una sfigurazione aggravata con la devolution bossiana, con un bicameralismo non si sa di che tipo ma pessimo, e con un innesto certo anche se camuffato nella composizione della Corte costituzionale che snaturerebbe il ruolo di quest’organo di garanzia, prezioso, delicatissimo, quanto mai necessario, tanto più con i tempi che corrono, per salvaguardare almeno un po’ di stato di diritto, per garantire un’eguaglianza almeno formale e assicurare qualche credibilità al catalogo dei diritti costituzionalmente riconosciuti.

2. Si può esaminare il progetto di legge costituzionale partendo proprio dalla sorte che riserva all’organo esponenziale del principio su cui si fonda lo stato di diritto, la Corte costituzionale. Si sa come sia composta attualmente, alla stregua di quanto prescrive l’art. 135 Cost. L’alta qualificazione professionale richiesta e la triplice derivazione assicurano sia la presenza delle esperienze, delle sensibilità e delle culture giuridiche del Paese, dosate col massimo di equilibrio, sia il carattere ‘non di parte’ del corpo dei giudici costituzionali, di un organo, cioè, che al vertice dell’ordinamento giuridico della Repubblica, deve garantirne il grado, alto, di unità e il rigore indefettibile della dinamica. L’unità come condizione dell’esistenza stessa della comunità nazionale, la dinamica se ed in quanto conforme alle norme supreme che consentono in Italia la pacifica convivenza. Organo ‘non di parte’ sta a significare, com’è evidente, che la sua composizione precluda che nel suo ambito si confrontino, in contrasto col ruolo istituzionale della Corte, interessi giuridicamente rilevanti impersonati dai giudici, poteri in conflitto. Conflitti che sono da dirimere da parte della Corte e perciò da non riprodurre al suo interno, come fatalmente accadrebbe se detta composizione fosse sconvolta dalla ‘rappresentanza’ di una delle parti, pur se a seguito della modifica del Titolo V, di accresciuta rilevanza istituzionale, quali sono le Regioni2).
E, ammesso pure che si possa in qualche modo, in verità non immaginabile, superare l’obiezione testé formulata, perché poi solo le Regioni dovrebbero essere ‘rappresentate’ nella Corte costituzionale e non anche i Comuni, le Provincie, le Città metropolitane che, ai sensi del ‘novellato’ Titolo V della Costituzione (art, 114), costituiscono la Repubblica al pari delle Regioni? La risposta a questa domanda è quanto mai ovvia. Uno dei partiti della coalizione di governo, attraverso il suo leader, il ministro per le riforme Bossi, ha chiesto una … ‘rappresentatività’ della Corte limitata alle Regioni, non di più (sarebbe difficile immaginare che a motivare richieste siffatte possano esserci ambizioni definibili, pur se con immensa generosità, sistemiche). Il grave è che nessuno degli esponenti della suddetta maggioranza abbia obiettato che la rappresentatività di un organo giurisdizionale è un aberrazione giuridica e politica ed è gravissimo che non si sia opposto, evidentemente trattenuto dalla considerazione che il partito del ministro Bossi dispone del 3, 9 per cento dei voti, indispensabili per consentire alla coalizione di governo di ottenere l’un per cento di voti in più della coalizione di opposizione. Mirabilia del maggioritario! Una delle tante, come si sapeva, fu detto e ripetuto e come si sta incontestabilmente ma sciaguratamente sperimentando.
E così, a riforma costituzionale ultimata, con una Corte composta da 19 giudici, invariata la derivazione di cinque di essi dalla nomina presidenziale e di cinque da parte delle supreme magistrature, gli altri nove sarebbe da eleggere tre dalla Camera dei deputati e sei dal senato federale, toccherebbe di convivere anche con una tale aberrazione che sconvolge l’equilibrio mirabilmente costruito dal Costituente italiano nel 19473). E lo sconvolge incrementando il numero dei giudici di derivazione parlamentare, quelli espressi, cioè, dell’organo la cui produzione prevalente, quella legislativa, è l’oggetto principale del controllo della Corte. Non può dirsi che detta innovazione riveli una encomiabile tensione alla terzietà di un organo giurisdizionale. Anzi, nessuno può escludere che l’aumento del numero dei giudici eletti dal Parlamento miri proprio a produrre l’effetto di attenuare, indebolire, addomesticare, il controllo di legittimità delle leggi, il che sta a mostrare la netta incoerenza di questa scelta con la ragion d’essere della giustizia costituzionale.
Emerge invece chiaramente una ben diversa e tenace coerenza nel prolungare gli effetti del ‘maggioritario’ insinuandone lo ‘spirito’ nella giurisprudenza costituzionale per condizionarla, come se non bastasse a snaturarne il ruolo il condizionamento che si mira a realizzare con la presenza degli ‘avvocati delle regioni’ nel collegio che dovrà giudicare gli atti legislativi delle Regioni. È anche del tutto evidente poi la ragione per cui si mira a spezzare la base elettorale dei giudici di derivazione parlamentare, distribuendo i nove giudici da eleggere dai due rami in modo ineguale tra la Camera dei deputati, cui spetterebbe l’elezione soltanto di tre di essi, sei invece al Senato federale, una quota che è doppia di quella spettante alla Camera dei deputati ed è più alta sia di quella dei giudici nominati dal Presidente della Repubblica sia di quella degli eletti dalle magistrature superiori. Si vuole, così, deprimere il potere di nomina della Camera perché è il ramo elettivo a base nazionale e privilegiare il Senato, che peraltro non verrebbe ribattezzato col riferimento alle Regioni ma si denominerebbe ‘federale’.

3. Per quanto attiene alla nuova configurazione del bicameralismo che si ricava dalle modifiche che si vorrebbero apportare alla normativa vigente, pur volendo indulgere sulla qualità dell’ingegneria istituzionale profusa nel testo, una prima constatazione sembra del tutto obbligata: la configurazione disegnata non corrisponde a nessuno dei modelli di bicameralismo federale di cui si abbia notizia. Siamo, quindi di fronte ad un federalismo di nuovo conio4), se i prossimi apologeti ne vorranno esaltare la consentaneità col postcostituzionalismo, o di origine … celtica, se si preferirà attribuirgli un titolo di vetusta nobiltà. La previsione che il Senato federale debba essere eletto a suffragio universale e diretto ne escluderebbe ogni parentela col Bundesrat, che, come tutti sanno, è composto dai soli Ministri-presidenti dei Länder, ed è quindi espressione dei soli esecutivi delle entità alle quali si pretenderebbe assimilare le nostre Regioni. La composizione dell’organo, visto che verrebbe confermata quella prescritta dal vigente articolo 57 (meno che per quanto riguarda il numero di senatori spettanti come minimo a ciascuna regione che passa da sette a cinque, a seguito della riduzione del numero complessivo del membri da trecentoquindici a duecento) escluderebbe d’altronde anche una qualche derivazione dall’altro modello di stato federale, gli U.S.A., il cui Senato, com’è altrettanto noto, è eletto sì a suffragio universale dagli elettori dei singoli stati, ma a ciascuno di questi spettano due soli senatori, qualunque sia la rispettiva popolazione. Un Senato, quello statunitense, che è in posizione di maggiore spicco rispetto all’altro ramo del Congresso, la Camera dei Rappresentanti.
Il Senato federale disegnato dal progetto di legge costituzionale del Governo si collocherebbe, invece, in posizione sostanzialmente paritaria alla Camera dei deputati, cui spetterebbe, nominalmente, il potere di indirizzo politico generale ma che potrebbe esercitarlo solo suicidandosi, come si vedrà, che è come dire che si tratta di un potere attribuito per finta. Disporrebbe poi di una competenza prevalente rispetto alla Camera dei deputati nelle materie di legislazione ‘concorrente’ con quella regionale, (di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost) decidendo però in via definitiva sugli eventuali emendamenti proposti dalla Camera (su richiesta dei propri componenti entro dieci giorni dal ricevimento del progetto di legge ed approvati entro trenta giorni successivi alla richiesta) ai disegni di legge relativi. Si porrebbe poi in posizione rovesciata rispetto alla Camera dei deputati nei procedimenti di formazione delle leggi di competenza statale esclusiva (di cui all’art. 117 secondo comma) e sui disegni di legge attinenti ai bilanci ed a i conti consuntivi (non c’è alcun cenno alla legge finanziaria, ne scompare anzi la stessa dizione). Per la legislazione nelle materie diverse da quelle di competenza esclusiva e da quella di competenza concorrente, risulta confermato il bicameralismo paritario. Sotto questo profilo e per questi ambiti, vorrebbe somigliare al Senato degli Stai Uniti, ma le mancherebbero tutte le competenze che spettano a tale organo relative alla funzione di controllo e di indirizzo così incisivamente esercitate. Il che è sufficiente per farne rilevare quella che potremmo chiamare ‘originalità’.
Al suddetto Senato federale viene attribuito poi il compito di pronunziarsi sulla questione che il governo può sottoporgli ‘qualora ritenga che una legge regionale pregiudichi l’interesse nazionale della Repubblica’, nel qual caso il Senato può rinviare la legge al Consiglio regionale che la ha approvata e, qualora detto Consiglio non rimuova la causa del pregiudizio, proporre al Presidente della Repubblica di annullare la legge. Ma la giusta ed irrinunciabile esigenza di salvaguardare l’interesse nazionale può essere seriamente soddisfatta da questa formula? Può soddisfarla un Senato configurato come vorrebbe il progetto? Rispondere a queste domande comporta esaminare il come si vuol realizzare la regionalizzazione del Senato, e prudenza vuole, per fare chiarezza, non usare il termine ‘federalizzazione’ che potrebbe indurre in errore, stante il denotato suo proprio, piuttosto distante, in verità, dalle tendenze istituzionali che emergono dal testo cui siamo di fronte. Infatti, sarà proprio la configurazione che assumerà quest’organo che deciderà la sorte dell’interesse nazionale.
È stato scritto nel progetto in esame che il Senato federale sarà ‘eletto a base regionale’. Ma questa è la determinazione operata dall’art. 57, primo comma, della tanto vituperata e aborrita Costituzione democratica ed antifascista ed era difficile che il senso di questa disposizione potesse essere riaffermato dai proponenti. Era infatti da prevedere che si intendesse realizzare quella che va definita più esattamente come ‘interregionalizzazione’ del Senato, invece che alla sua regionalizzazione, marcando non la tensione all’unità, che è di ogni movimento federalista autentico storicamente e rettamente inteso, ma la pulsione alla diversificazione, alla chiusura, all’egotismo territoriale.
Per intenderci su che cosa stia a significare la distinzione testé avanzata, valga un esempio. Gli interessi delle regioni meridionali come sarebbero valutati in un Senato configurato strutturalmente in senso interregionale, stante il rapporto di dodici ad otto delle regioni del Centro-Nord rispetto a quelle meridionali? Forse è il caso di richiamare gli improvvisati ed entusiasti federalisti del Sud a riflettere un po’ su una domanda così semplice. È anche, e soprattutto, della sorte delle loro Regioni che si deciderà configurando il Senato federale. C’è un profilo dell’interesse nazionale che almeno chi è sensibile ai valori del costituzionalismo sarebbe obbligata a salvaguardare, quello rilevante sul piano dell’eguaglianza, tra tutti.
La congettura che sarebbe stata scelta la via della interregionalizzazione invece che quella della regionalizzazione si è rivelata fondata. Due formule del progetto lo dimostrano provando a prescriverla. L’una è quella dell’articolo 57 che si vorrebbe novellare (terzo comma) in modo da imporre che la legge elettorale per l’elezione del Senato garantisca ‘la rappresentanza territoriale da parte dei senatori’. L’altra formula è contenuta nel successivo articolo 58 che si vorrebbe modificare stabilendo che ‘sono eleggibili a senatore gli elettori che …. hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o siano stati eletti senatori o deputati nella Regione’.
Non turba neanche un po’ la sensibilità democratica dei proponenti una ‘territorializzazione’ della rappresentanza basata su di un diritto di elettorato passivo riservato ai soli cittadini che possono vantare i requisiti suindicati, come se tale riserva non amputasse la stessa comunità regionale nella sua potenzialità rappresentativa, incidendo, per di più e molto gravemente, sul principio di eguaglianza. Né li turba la costrizione di uno dei diritti politici, quanto mai indicativo del significato giuridico e politico della cittadinanza attiva, nel recinto del territorio regionale. Non li trattiene alcuna remora, nel progettare il distacco di ciascuno di questi territori da tutti gli altri, frantumando il territorio nazionale e con esso la comunità che vi vive ed isolando l’uno e l’altra nello spazio continentale dell’Unione europea, con una incoerenza che sarebbe stato arduo immaginare.
Ma tant’è. Siamo di fronte alla regionalizzazione della cittadinanza, per il profilo che attiene all’elettorato passivo, soprattutto siamo di fronte alla frantumazione regionale della rappresentanza non più nazionale, alla lottizzazione regionalizzatrice della comunità nazionale. Va, ovviamente, demandata alla fantasia o all’arroganza di qualcuno dei quattro soloni che hanno redatto la traccia del disegno di legge la dimostrazione della coerenza di tale formula con quella dell’articolo 67 con cui si ribadisce, ipocritamente, che i deputati ed i senatori rappresentano la nazione senza vincolo di mandato anche se alla formula classica si aggiungono le parole ‘e la Repubblica’ e non certo per spirito repubblicano, ma per alludere forse alla interregionalizzazione camuffata da federazione cui si mira, aggiungendo mistificazione all’ipocrisia.

4. E siamo giunti alla questione del premierato. Che va chiarita. Innanzitutto facendo osservare che, usando questo termine, si allude ad una delle varianti del sistema parlamentare, quella che a seguito di una secolare evoluzione, arricchita da consuetudini, convenzioni, usi, che sarebbe difficile riassumere, definisce la forma di governo vigente in Inghilterra ed è prodotta da due fattori: dalla strutturazione del sistema partitico (dei ‘due partiti e mezzo’) e dal rapporto tra partito, ciascuno dei due partiti, e il suo leader. Un rapporto di immedesimazione del leader nel partito (e non all’opposto del partito nel leader, come nel caso di Forza Italia e Berlusconi). Infatti, il premier diventa tale perché è il leader del partito vincitore e se occorre, può essere sostituito come leader e quindi come premier, nel corso della legislatura, come accadde con la sostituzione della Thacher con Major e senza determinare, né per norma consuetudinaria, né per convenzione, né per altro, la conseguenza dello scioglimento della Camera dei comuni, per legittimare il nuovo premier. La cui legittimazione spetta alla rappresentanza parlamentare raccolta alla Camera dei comuni e solo ad essa. La cui forza è nell’essere il leader del partito che, avendo vinto l’elezione, dispone della fiducia della maggioranza dei membri della Camera dei comuni. Ed è nell’ampiezza e consistenza della rappresentanza parlamentare la ragione esclusiva della sua premiership5).
Nessuno di questi fattori che sono politici, che attengono cioè alla struttura del sistema inglese è presente nel nostro Paese. Tanto è vero che pur con l’introduzione di un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario, le maggioranze ed i governi sono e non possono che essere di coalizione. Con quali conseguenze? Con quelle che derivano – lo si diceva già nelle righe che precedono – dalla strutturazione del sistema politico italiano, come si è venuto configurando e come la storia unitaria di questo Paese conferma, con l’eccezione del ventennio fascista, (durante il quale e per definire la forma di governo che venne instaurata con la legge 31 dicembre 1925, si usò appunto l’espressione di ‘governo del primo ministro’) rivelando il Volksgeist profondamente pluralista dell’Italia, cui ripugna il bipartitismo, da sempre.
Voler trapiantare nella forma di governo tronconi di un altro sistema o è un non senso o è nefasto, ed è perverso importare effetti tipici di una dinamica politica traducendoli in istituti di diritto costituzionale. È un non senso attribuire al Presidente del Consiglio il potere di revocare i ministri se il governo è di coalizione, visto che detto potere sarebbe esercitabile solo se si tratta di ministri che sono membri del partito del Presidente e non sarebbe esercitabile se si tratta di leaders degli altri partiti, a meno di non provocare la crisi della coalizione e la caduta del governo. Sarebbe nefasto concentrare nel Presidente del Consiglio il potere di scioglimento come si propone con le modifiche che concernono gli articoli 88, primo comma, e 94, secondo e terzo comma della Costituzione. Con il primo dei quali articoli si vorrebbe stabilire che lo scioglimento è atto sostanzialmente del primo ministro ‘che ne assume in esclusiva la responsabilità’ (e responsabilità in diritto costituzionale significa potere) richiedendo al Presidente della Repubblica di emanare il decreto relativo, cui conseguirebbe quello di indire le elezioni entro i successivi sessanta giorni. Col secondo degli articoli suddetti, si mira a stabilire l’automatismo dello scioglimento in due altre ipotesi. Sia quando la Camera dei deputati, divenuta l’unico ramo del parlamento che potrebbe approvare una mozione di sfiducia, la voti, determinando com’è ovvio le dimissioni del primo ministro ma anche ed automaticamente, come si diceva, il proprio scioglimento. Sia quando voti contro una proposta del Governo che le si chiede di approvare con priorità su ogni altra, e così votando, determinare le dimissioni del primo ministro e automaticamente, come si diceva per l’ipotesi precedente, il proprio scioglimento.
La ragione per cui sarebbe nefasto conferire tale potere al Primo ministro (è questa la denominazione che dovrebbe sostituire quella di Presidente del Consiglio, alla stregua di quanto propone il nuovo testo dell’articolo 92) è del tutto evidente ed è di una gravità enorme. L’esercizio di detto potere, ma già solo la possibilità che lo si eserciti sconvolge la forma parlamentare di governo, non la sostituisce con un’altra, oscura il carattere rappresentativo dell’ordinamento e ne incrina il fondamento democratico. Determina queste disastrose conseguenze la strutturazione del sistema politico italiano che è pluripartitico e a coalizioni maggioritarie elettoralmente predeterminate, come si notava nelle righe che precedono, e l’impossibilità che possa instaurarsi e funzionare il sistema di contropoteri politici che in Inghilterra derivano – oltre che dall’assenza di un potere mediatico che non ha precedenti nel mondo nelle mani di un leader politico – dal bipartitismo e dal rapporto tra partito e leader-premier. Cioè, dall’unione nella stessa persona della leadership e della premieshipleadership sempre revocabile dal partito, ma mediante la rappresentanza del partito alla Camera dei comuni, revocabile quindi dalla maggioranza parlamentare che in tal modo assicura il radicamento della supremazia parlamentare sul premier con tutti corollari giuridici e politici che ne conseguono.
Al contrario del premierato britannico, il meccanismo predisposto dal progetto del centro destra, riducendo la Camera dei deputati ad ascoltare l’illustrazione del programma di governo da parte del primo ministro (art. 94 primo comma del testo proposto), forse senza discuterlo, stante l’inutilità della discussione, certo senza votarlo – perché lo avrebbe votato ed approvato … il popolo, secondo uno dei mistificanti ‘miti irreali’6) della retorica populista – esclude l’assemblea parlamentare dal circuito politico effettivo e colloca la rappresentanza politica della nazione in posizione di assoluta subordinazione al premier. E così vanifica la rappresentanza e, con essa, la democrazia di cui disponiamo, quella rappresentativa, strutturalmente plurale e quindi irriducibile all’assunzione della sua essenza, della sua forza, e del suo valore in una persona sola7).

5. Un’ultima riflessione sul progetto attiene alla scomparsa di due norme costituzionali, di diversa rilevanza ma ambedue molto significative dell’assolutismo di maggioranza che il progetto vuole imporre. La prima attiene alla soppressione all’articolo 87 del potere del Presidente della Repubblica di autorizzare la presentazione dei disegni di legge governativi, una norma di garanzia, di controllo, volta a precludere la possibilità che il Governo, sicuro della sua maggioranza usi il potere che gli rifluisce per usarlo a fini illegittimi. Ipotesi questa dell’uso illegittimo di un potere legale che diventa quanto mai facilitata dall’assenza del controllo presidenziale sulle iniziative del governo e dal conseguente potere del governo di usare (ma basta la minaccia) la questione che ora si chiama di fiducia e che si chiamerà ‘questione di governo’ (così la ridenomina la relazione con chiara allusione a quella che è stata per secoli la questione di stato, in quanto tale obbligante quanta altra mai ed escludente ogni responsabilità per chi la poneva e per chi gli obbediva qualunque illegalità comportasse) imponendo così alla maggioranza di conformarsi al volere del primo ministro, con la minaccia dello scioglimento.
La seconda soppressione che viene proposta esplicita una conseguenza del sistema maggioritario, la canonizza. Viene soppresso, col terzo comma del vigente articolo 138, il riferimento alla maggioranza dei due terzi come alternativa a quella assolta per la revisione costituzionale. Certo, già ora la stessa maggioranza di governo dispone del potere di revisione. Ma esplicitarlo ha valore altamente simbolico. Equivale a proclamare che il potere di revisione costituzionale che fu tacitamente conferito con il referendum del 1993 alla maggioranza parlamentare, sarà a disposizione del primo ministro, che potrà usarlo fidando sulla stessa maggioranza degli elettori che gli ha conferito l’investitura a premier. Il patto costituzionale è nelle sue sole mani, la Costituzione alla sua mercè.
Una ragione in più per contrastare questo progetto, per respingerlo, in nome dei principi iscritti nella prima parte della Costituzione, i princìpi della democrazia.

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