La costituzione italiana del 1947 nella sua fase contemporanea*

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1.- Vorrei svolgere una considerazione preliminare sul titolo della mia relazione, così com’è stato formulato dall’Accademia. Il riferimento alla “costituzione del 1947” è infatti atipico. Normalmente (al di fuori dei contesti in cui la cronologia abbia uno specifico significato) alla costituzione vigente ci si riferisce come alla “costituzione” tout court, o alla “costituzione italiana”, senza indicare l’anno di produzione. E così infatti è stato per il titolo della relazione Galasso: “La costituzione italiana nel contesto politico europeo”. La formulazione parallela avrebbe dunque dovuto essere: “La costituzione italiana nella sua fase contemporanea”.
Perché questa concinnitas non è stata ricercata?
Evidentemente perché si è ritenuto che tra le due formulazioni intercorra una differenza rilevante. Ed infatti nella seconda (senza anno) per costituzione si può intendere (in forza di una ambiguità che sottende tutto il costituzionalismo, antico e moderno) un essere oppure un dover essere, un ordine spontaneo oppure un ordine preteso da un atto normativo. La prima, invece, (proprio per il riferimento all’anno) rende obbligatorio intendere la costituzione come atto normativo (che come ogni atto giuridico è per definizione voluto in un momento temporalmente individuato).
Più precisamente: lasciando in disparte il concetto di costituzione materiale – da intendersi, rettamente, come riferito non alla congerie delle prassi, ma all’identità e all’organizzazione delle forze egemoniche e all’insieme dei principi politici da queste convenzionalmente accettati (un concetto che nessun giurista mi risulta abbia utilizzato in tutta la sua densità nel corso della storia repubblicana, e che comunque non forma oggetto di questo convegno, come la sua architettura dimostra) – si deve sottolineare che il suo opposto, così come correntemente presentato, e cioè il concetto di costituzione formale, si è, in certo modo, frantumato. Da un lato, non può più essere identificato con quello di costituzione documentale, perché per comune ammissione la costituzione formale non si esaurisce negli enunciati della Carta, ma risulta dall’insieme delle loro interpretazioni dominanti e consolidate – che in riferimento alle disposizioni di principio sono “svolgimenti-specificazioni-articolazioni” ad alto tasso di creatività – che vengono ad essere conseguentemente dotate della “forma” costituzionale. Dall’altro, un uso – a mio avviso – non corretto del principio di effettività e della nozione di fatto normativo conduce molti autori ad inglobare nel concetto di costituzione (da intendersi pur sempre in senso formale, in base alla summa divisio fondata sulla contrapposizione al concetto materiale) non solo le interpretazioni testualmente sostenibili, ma anche prassi contrarie (o estranee alla portata degli enunciati, ma considerate costituzionalmente rilevanti), così riproponendo una nozione esistenziale e descrittiva della costituzione, risultante da un insieme di regolarità indifferenti alla costituzione/atto.
Nel primo caso la costituzione è un insieme di norme – alcune consistenti in significati attribuiti agli enunciati del testo ed altre non configurabili come tali (perché derivate da principi generalissimi, e dunque non riconducibili a specifiche disposizioni, ma contestualmente non confliggenti con alcuna norma desumibile da queste ultime) – circondato da un alone di regolarità rilevanti solo sul piano conoscitivo: le convenzioni sulla costituzione. Nel secondo è un insieme di regolarità descritte, individuate sulla base del puro principio di effettività e gerarchizzate solo dall’intensità di quest’ultimo. Nel primo caso si distinguono le norme costituzionali (ellitticamente dette) scritte, le norme non scritte (consistenti in consuetudini integrative: regolarità qualificate dagli interpreti come regole valide – e cioè doverose – pur se prodotte extra ordinem e, come si è appena detto, extra litteram) e le convenzioni sulla costituzione (regolarità o non ancora stabilizzate o ritenute dagli interpreti confliggenti con le norme desumibili dal testo, così da non poter essere ritenute valide). Nel secondo caso queste distinzioni perdono di significato.
Questa premessa serve dunque a precisare che il riferimento alla costituzione del 1947 impone di trattare la costituzione come un atto normativo: dal che discende la necessità di considerare come essenziale – e preliminare ad ogni considerazione descrittiva delle trasformazioni intervenute – la questione della sua validità complessiva.
Il problema coinvolge problemi intricati (o forse solo trattati dalla dottrina in modo complicato). E’ però necessario rendere esplicito il punto di vista che guiderà le considerazioni che seguono. A tal fine è sufficiente dichiarare che l’impostazione seguita sarà quella neo-istituzionale, che si è sviluppata sulla scia di Hart, contaminata con quella dell’ultimo Rawls. Assumerò dunque come premessa che le costituzioni del Novecento non sono altro che equilibri convenzionali – armistizi strategici – tra forze contrapposte (forze materiali portatrici, all’origine, di concezioni morali reciprocamente chiuse). Col tempo la pratica armistiziale può generare – attraverso un consenso per sovrapposizione tra le diverse concezioni morali – principi etico-giuridici (l’area della “giustizia pubblica”, diversa da quella del “bene soggettivo” delle singole morali) condivisi dalla grande maggioranza dei cittadini. In tal caso la costituzione verrà a fondarsi non più solo sull’equilibrio convenzionale delle forze organizzate, ma anche su una consuetudine di riconoscimento diffusa. Se una forza politica si sfila dal rispetto della costituzione, è come se una parte ex belligerante riprendesse unilateralmente le ostilità: l’armistizio si dissolve. Ciò che impedisce alle costituzioni sufficientemente radicate nel tempo di dissolversi di fronte al ripudio di una delle parti è, appunto, la consuetudine di riconoscimento, che genera – in chi ancora la condivide – biasimo nei confronti della forza secessionista e sostegno verso quelle che difendono la costituzione.
Porre la questione della validità complessiva della costituzione significa dunque chiedersi se, e con quale intensità, questo riconoscimento si sia diffuso e instillato nelle menti, e quanta capacità di resistenza dimostri a fronte dei fenomeni che lo erodono.

2.- Quest’impostazione attribuisce un ruolo centrale ai giudizi di fatto – essendo il riconoscimento/disconoscimento della costituzione un fenomeno di carattere empirico, connesso alla sua effettività – ma non può, ovviamente, impedire che le conclusioni della ricerca siano dettate da giudizi di valore, perché la scelta tra continuità e discontinuità della validità della costituzione di fronte a fenomeni (quanto episodici e quanto irreversibili?) di ineffettività non può che dipendere da una scelta di valore. Il discorso non potrebbe dunque procedere se non si ammettesse che il giurista, in quanto scienziato, può effettuare tali giudizi; e che la propria obbiettività scientifica deriva dall’aver dichiarato esplicitamente – e, nei limiti del possibile, aver argomentato – le premesse morali, rielaborate in termini di principi giuridici, che assume come orientative.
Tutto ciò è ovvio. Lo richiamo non per addentrarmi nell’eterno problema del rapporto tra giudizio scientifico e giudizio di valore, tra principi etico-politici dello scienziato sociale e principi etico-politici istituzionalizzati nell’ordinamento, ma solo per rimarcare che – tra i costituzionalisti italiani – questo rapporto (che aveva trovato, non senza fatica, a partire dal piccolo disgelo costituzionale della metà degli anni Cinquanta, un suo stabile assetto) si è fatto incerto e opaco. Nel passato la comunità scientifica si riconosceva (salvo poche eccezioni) in un apprezzamento di principio (che penso avesse le sue radici in interiore homine) della costituzione. Apprezzamento il cui significato consisteva essenzialmente in ciò: che l’interpretazione avveniva sotto il segno (per così dire) della “spremitura” della maggior ricchezza possibile di significati del testo e sotto il segno della continuità, o meglio, dell’accumulazione di senso delle disposizioni costituzionali. Oggi questo comune apprezzamento è venuto meno, e la comunità dei costituzionalisti si sta irrimediabilmente spaccando; ma senza un confronto aperto. Solo attraverso contrapposizioni dissimulate nella consueta forma letteraria tecnica; inquinata, per altro, da un certo sbrigativismo da parte di chi si vuole sottrarre agli orientamenti che erano considerati “di rigore” (nel senso di “in conformistica voga”, di politically correct) nel passato.
E’ vero che le forze politiche non sempre hanno dato vita, in materia costituzionale, ad una discussione elevata e meditata; ma è altrettanto vero che i costituzionalisti non hanno dato il buon esempio. Quel che si dovrebbe fare – se si vuole salvare non solo l’unità organizzativa della loro Associazione, ma innanzi tutto la presentabilità stessa del loro insieme come comunità scientifica – è che coloro che hanno abbandonato la prospettiva dell’accumulazione di senso delle disposizioni costituzionali argomentino espressamente le ragioni di questa loro scelta, in un contradditorio che mantenga lo stile e le caratteristiche del confronto scientifico, e cioè di un confronto in cui i nessi di consequenzialità siano sorvegliati attentamente. Sembrerebbe esserci una contraddizione tra il constatare, da un lato, un intervenuto cambiamento di giudizi di valore (assolutamente soggettivi e insindacabili) e il richiedere, dall’altro, una discussione che si sviluppi nelle forme dell’argomentazione scientifica. Sembrerebbe una richiesta ipocrita; o meglio: la richiesta di consumare un’ipocrisia. Ma non è così. Non c’è ovviamente alcun dovere di giustificare le proprie opzioni personali. Dio guardi. Ma c’è la necessità di comprendere che il diritto costituzionale come scienza prescrittiva – e cioè come scienza che mira a definire (con tutta la “prudenza” necessaria) ciò che è “costituzionalmente corretto”, e non solo ad allineare le opzioni interpretative possibili (secondo la nota impostazione kelseniana) – è stato edificato (e con esso la comunità dei costituzionalisti) sulla base dell’accettazione di un insieme di principi materiali, etico-politici. Certo, le opzioni di valore soggettive possono cambiare. Ma non può esistere una scienza giuridica prescrittiva senza un canone di “verità”, o correttezza. E questo canone non può che essere materiale, e dunque frutto di una decisione politico-morale di principio. Se questo canone condiviso viene a mancare, cade anche il carattere prescrittivo della scienza. Chi pensa di essere stato prigioniero di un reliquiario e intende liberarsene, infatti, da un lato, si comporta obbiettivamente come se il diritto costituzionale sia solo descrittivo (e cioè che sia costituzionalmente legittima ogni opzione interpretativa che non contraddica in modo insuperabile la lettera della costituzione), dal momento che affianca – con pretesa di pari “verità” – alle vecchie, nuove e discontinue letture; dall’altro (probabilmente), usa “in modo alternativo” la costituzione, in attesa, e in funzione, dello stabilirsi dell’egemonia di nuovi principi etico-politici. Forse però – con un atteggiamento più moderato – pretende solo che l’area del “costituzionalmente decidibile” venga ridotta, evitando quelle che gli appaiono come ridondanze interpretative: presunti vincoli costituzionali che sono in realtà opzioni di valore che si librano, nude, nel vuoto testuale. Non c’è niente di scandaloso. Basta dirlo e argomentarlo con chiarezza. Quel che è certo è che questo conflitto, di per sé, obbiettivamente, rende incerta la possibilità di definire ancora il diritto costituzionale come una scienza prescrittiva. Se si svilupperà un serrato confronto sulla concezione complessiva della costituzione, i costituzionalisti potranno almeno verificare la possibilità di riconoscersi ancora partecipi di una comunità scientifica, ma solo nel senso di una comunità che condivide “la cassetta degli attrezzi”. La condivisione di questa parte iniziale di un sapere non basterà però, ovviamente, a renderli interpreti privilegiati della costituzione.

3.- Chiusa questa lunga premessa, è ora necessario cercare di definire (forzatamente in modo sommario) la “fase contemporanea” del sistema politico in senso lato, e cioè della realtà destinataria delle prescrizioni costituzionali.
Cinque sono i fenomeni salienti che la connotano.
a) La discontinuità intervenuta nella natura e nella distribuzione delle forze politiche a causa del mutamento del sistema elettorale, a sua volta propiziato da una crisi dei partiti storici (autori della costituzione del 1947) conseguente a un triplice ordine di fattori: la fine dell’URSS, l’egemonia assunta dai principi della rivoluzione reganian-thatcheriana e l’esplosione del problema della corruzione politica.
b) L’evocazione del potere costituente in senso proprio (l’appello al popolo contro la costituzione vigente) e il fallimento dei tentativi di revisione organica attraverso le varie commissioni bicamerali.
c) Il mutamento della forma di governo: da parlamentare-estrema a neo-parlamentare, oscillante tuttora tra governo del premier e governo del leader; e, in questo secondo caso, ad incerta responsabilità interna (davanti cioè al proprio partito) del leader.
d) I riflessi – cui si è già fatto cenno al precedente punto a) – che le trasformazioni della cultura politica generale dell’occidente hanno avuto sulla cultura politica interna. Riflessi che possono essere ricondotti a quattro punti:
1) L’interpretazione neoliberista della cd. globalizzazione, che ha prodotto, nella cultura giuridica, essenzialmente due fenomeni:
1.1) una nuova fioritura dell’argomento della “natura delle cose” nella soluzione dei problemi politico-giuridici (fino ad una rappresentazione antropomorfica dei mercati);
1.2) il diffondersi della teoria della “crisi dello stato”, che ha operato, a sua volta, in due direzioni: 1.2a) la prospettiva della decostruzione del diritto e 1.2b) la confusione tra “crisi dello stato” e “crisi di molti stati” (confusione che ha occultato la crisi del diritto internazionale e l’avvento dell’unilateralismo statunitense).
2) L’egemonia assunta dalla teoria economica della democrazia, cioè dalla teoria della democrazia derivata dalla teoria della scelta razionale.
3) Il credito assunto dal populismo e dall’antipolitica, e la loro saldatura con la teoria economica della democrazia: il modello populista, agli occhi dei maggiori partiti europei, incarna in forma semplice ed efficace l’essenza del modello “economico”, la cui forza sembra loro irresistibile.
4) Il diffondersi di una particolare forma di decisionismo – il decisionismo elettorale – che contraddice il modello della democrazia costituzionale come democrazia limitata; limitata perché non riduce il processo di formazione della volontà pubblica a quello elettorale in quanto: a) riconosce il ruolo delle giurisdizioni come luoghi di elaborazione del diritto, almeno fino alla “penultima parola” (problema la cui linea di confine è rappresentata dalle questioni concernenti la retroattività delle leggi interpretative e il rapporto tra leggi sopravvenute e giudicato ordinario, tra leggi sopravvenute e giudicato costituzionale, tra leggi costituzionali sopravvenute e giudicato costituzionale); b) concepisce il processo decisionale democratico come processo deliberativo, in cui entrano attori collettivi non legittimati elettoralmente (da quelli one issue alle parti sociali protagoniste della contrattazione neocorporativa).
Sono, queste, trasformazioni culturali che hanno investito tutto il sistema politico italiano, senza distinzione tra destra e sinistra.
e) Infine, la “fase contemporanea” è profondamente connotata dalle caratteristiche della maggioranza risultata vincitrice nelle elezioni del maggio 2001. Caratteristiche che hanno generato prassi costituzionalmente rilevanti in quanto: hanno reso endemico il conflitto con il potere giudiziario; hanno reso palese una nuova forma di questione morale consistente nella privatizzazione della funzione legislativa; hanno configurato il potere di proposta di riforme costituzionali, da parte del Governo, come strumento tattico per ridurre lo spazio di manovra degli altri organi costituzionali.
Le caratteristiche della coalizione vincente hanno messo in evidenza un fenomeno che ha colto molti di sorpresa. Si pensava, infatti, che la “fine del comunismo” avrebbe chiuso la frattura ideologica fondamentale della nostra società, che ne sarebbe quindi uscita più omogenea. In realtà il conflitto da ideologico è diventato antropologico (un mix di questione morale e questione costituzionale) più acuto di quello sperimentato ai tempi della guerra fredda (Elia). In quest’ottica le forzature dell’ordine costituzionale (che vengono presentate dall’opposizione come comportamenti dettati da motivi privati) assumono il carattere di comportamenti rappresentativi di un diffuso desiderio di ribellione alla gabbia di una “legge” percepita come ridondante e odiosa, sia perché tale (e qui affiorano fenomeni di perversione del legame sociale), sia perché – si pensa – fatta a immagine e somiglianza delle forze che erano state le portatrici della Costituzione (e qui si manifesta, violento e inatteso, il desiderio di revanche di una larga parte della società nei confronti dell’altra).

4.- Sulla base delle considerazioni precedenti non si può formulare un giudizio articolato e argomentato sullo stato della costituzione, come atto normativo storicamente determinato, in tutti i settori della vita pubblica che essa pretende di orientare. Per descrivere una fase storica di una costituzione intesa come atto normativo occorrerebbe prendere in esame problemi di natura diversa, disomogenei ma complementari; e di conseguenza pre-definire un quadro, altrettanto disomogeneo e complementare, di dati di fatto e di criteri di giudizio.
Occorrerà infatti per lo meno – assumendo come perfettamente fisiologica, nei limiti di cui diremo appresso, la coesistenza di diverse interpretazioni dei suoi enunciati, o di insiemi di suoi enunciati – descrivere tali confliggenti interpretazioni ed esaminarne il grado di effettività: nella legislazione; negli indirizzi che sono sintomo del grado di cogenza con cui gli organi costituzionali percepiscono i principi programmatici attinenti alla forma di stato; nelle prassi interistituzionali che determinano la forma di governo; nelle giurisdizioni; nella cultura politica delle élite e in quella diffusa.
L’esame di questi “livelli di effettività” metterà in evidenza i conflitti che compongono quella che si può definire come “lotta per la costituzione”: una lotta la cui posta in gioco è la prevalenza di una o un’altra interpretazione possibile.
La descrizione dei sintomi della lotta per la costituzione necessariamente porterà a spiegarli attraverso le caratteristiche dei soggetti che ne sono protagonisti. Ciò renderà necessario descrivere la qualità degli attori sociali che effettivamente esercitano la funzione di indirizzo (in senso ovviamente lato) nei confronti degli organi costituzionali, delle giurisdizioni, dei mezzi di formazione della cultura politica delle élite e di quella diffusa.
Descrivere i sintomi e i soggetti della lotta per la costituzione porterà, a sua volta, ad interrogarsi sui limiti di tollerabilità di questa lotta, non potendo la costituzione scendere al di sotto di un livello medio di effettività. Definire in astratto questi limiti e questo livello è impossibile. Quel che andrà indagato, piuttosto, è se l’efficacia, la persistente doverosità, la “bontà e la giustizia” di tali limiti siano coltivate, sorrette, rafforzate da una operosa politica costituzionale, intesa come l’attività che rende possibile il mantenimento dell’unità politica. Attività ovviamente diffusa, ma che nei momenti di urto frontale degli attori politici viene a formare oggetto della particolare responsabilità del Presidente della Repubblica (la cui forza d’azione è, in tali frangenti, incomparabile con quella della Corte costituzionale).
Ricostruiti i conflitti applicativi e descritti i soggetti protagonisti dei conflitti medesimi, dando per presupposta una media effettività della costituzione, si dovranno individuare le cause di questa effettività e le cause dei suoi rischi. Cause che consisteranno – nella prospettiva neo-istituzionalista, che qui seguo, senza poterne dimostrare i titoli di preferenza – in atteggiamenti morali presentabili come consuetudini di riconoscimento, o come frammenti della consuetudine di riconoscimento, e in atteggiamenti morali di segno contrario. Si dovrà dunque indagare sulle cause del formarsi di questi confliggenti atteggiamenti morali. In questo senso si può effettivamente dire che il diritto costituzionale è una scienza della cultura.

5.- Avendo assunto come centrali, nell’esposizione precedente, i concetti di “lotta per la costituzione” e di “politica costituzionale”, è necessario brevemente chiarirli.
Il primo indica un complesso di attività politiche, nell’accezione schmittiana del termine, volte a far prevalere una delle interpretazioni possibili della costituzione medesima. Normalmente, se la costituzione è sufficientemente radicata – se le forze politiche e l’opinione pubblica consentono su una sua interpretazione di base – questo scontro si combatte con le armi della persuasione sul terreno culturale, giudiziario, elettorale e legislativo (che comprende la revisione costituzionale). Così è accaduto in Italia, a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Se invece il riconoscimento della costituzione è – o è diventato – debole, allora la lotta che la riguarda può ridefinire la natura delle forze politiche stesse, generare il sorgere di movimenti ed essere al centro di conflitti sociali. Roosvelt e Regan, lord Beveridge e Margaret Thatcher hanno combattuto opposte battaglie intensamente politiche per far prevalere contrastanti visioni della costituzione dei loro paesi. In casi estremi può trattarsi anche di battaglie non in senso figurato, come quelle che dilaniarono gli americani nel corso della guerra civile, o come quelle che furono condotte in Italia nel periodo della glaciazione costituzionale e in quello della “strategia della tensione”. Se si giunge all’estremo, all’appello al popolo contro la costituzione in vigore, anche la parte che si oppone all’evocazione del potere costituente ingaggerà una forma estrema della lotta per la costituzione: quella volta non ad affermarne una particolare lettura, ma a realizzare – per facta concludentia, e cioè fornendo la prova pubblica militante dell’esistenza di una parte della società che si oppone alla discontinuità costituente – la continuità del suo riconoscimento, e dunque della sua (seppur contrastata) effettività; e dunque della sua validità. Una lotta di questo tipo ha caratterizzato la fase attuale, dall’azione dei Comitati per la Costituzione di Dossetti alle odierne celebrazioni del 25 aprile, in aperta polemica con la ostentata assenza del Presidente del Consiglio.
Se la lotta per la costituzione non è altro che la politica dentro la, o a partire dalla – o per, o controuna possibile interpretazione (o addirittura per o contro il rifiutodella – costituzione (e dunque è un segmento, o un profilo, della politica tout-court), la politica costituzionale è qualcosa di diverso, perché non è un’attività caratterizzata in senso schmittiano: è il contenimento della lotta per la costituzione. La politica costituzionale è quella particolare attività integrativa (che Platone paragonava alla tecnica della tessitura) che rende possibile l’esistenza e il permanere di una costituzione (con tutte le sue diverse potenzialità interpretative, politiche in senso stretto).
Assumere come autonomo il concetto di politica costituzionale significa distinguere tra due modi diversi di concepire il potere costituente; anzi, significa disarticolare tale concetto. Se infatti s’intende il potere costituente in senso decisionista, o materiale (come in Lassalle, Weber, Romano o nel Mortati prima maniera), allora il concetto di politica costituzionale si annulla in quello di lotta per la costituzione: se la costituzione è il “segno della vittoria” di una parte sull’altra, non c’è altra politica costituzionale se non quella che consolida il dominio sui vinti. Se invece ci si allontana da questo tipo di (soi-disant) realismo, e si vede nel potere costituente non solo una relazione oggettiva di forza, ma anche un insieme di dati soggettivi (culturali, strategici…) che rendono possibile ad una determinata costituzione di essere percepita come valida, in quanto accettabile compromesso, allora la politica costituzionale può essere definita come il prolungamento dello “stile d’azione” costituente. Esempio classico di politica costituzionale è stato il rapporto esplicito tra DC e PCI durante il periodo costituente, e soprattutto quello tacito durante la fase più acuta della glaciazione costituzionale.

6.- Se si accetta questo quadro concettuale di riferimento, si dovrà riconoscere che, nel nostro paese, la lotta per la costituzione non solo è stata ininterrotta (com’è fisiologico), ma ha visto intrecciarsi fasi di normalità e fasi di lotta estrema. Le prime, in cui la posta in gioco era il prevalere di uno o altro modello di attuazione, si ritrovano nel periodo che va dalla metà degli anni ’50 alla fine degli anni ’70 (all’incirca les Trente Glorieuses années, con uno slittamento iniziale dovuto alla particolare intensità che i primi anni della guerra fredda hanno avuto in Italia). Le seconde – le fasi di lotta estrema – sono, per un verso, intrecciate, e per l’altro, successive, alle prime. Sono intrecciate e sottese ai periodi di normalità ufficiale quelle prodotte dalla strategia della tensione, e dunque caratterizzate dall’uso (non solo dalla minaccia) della forza: fasi in cui la posta in gioco era il mutamento violento della costituzione materiale. Sono successive a tale periodo quelle – inaugurate dalla strategia craxiana della “grande riforma” e riprese dalla populistica evocazione del potere costituente che dura fino ad oggi – in cui la posta in gioco è il definitivo seppellimento di ciò che rimane della precedente costituzione materiale: seppellimento da sanzionarsi attraverso il mutamento (in chiave di verticalizzazione e personalizzazione del potere) della costituzione formale.
Dal punto di vista del rapporto tra lotta per la costituzione e politica costituzionale si deve dire che la prima è stata contenuta e controllata, dalla seconda, fino al termine degli anni ’70, quando è entrata in crisi l’ultima fase di una strategia complessivamente inclusiva che risaliva agli anni della Costituente e che aveva assunto molteplici aspetti. Prima difensivi, ispirati a un anticomunismo militante ma orientato alla concorrenza sociale nei confronti delle forze di sinistra piuttosto che alla loro repressione. Poi, via via più prospettici (nell’ottica del bipartitismo imperfetto) fino all’esperienza del compromesso storico, o unità nazionale.
Questa strategia inclusiva è stata sostituita da quella esclusiva della cd. “grande riforma” craxiana, orientata da un duplice disegno. Da un lato, personalizzare (e radicalmente secolarizzare, in nome del primato dei mezzi sui fini) la leadership, in funzione di un ridimensionamento del PCI (che in un parlamentarismo compiuto – obiettivo ultimo del compromesso storico – avrebbe trovato invece le risorse per preservare il proprio insediamento e per candidarsi ad essere il perno di uno dei due poli). Dall’altro, collaborare alla grande impresa ideologica che era stata aperta dal Rapporto della Commissione Trilaterale. Il che consentiva di inserire l’obiettivo della personalizzazione e della radicale secolarizzazione della leadership in un più ampio orizzonte di tecnicizzazione della politica, così da poter presentare il pluralismo (organizzato in funzione della ricerca di beni collettivi) come generatore di un permanente sovraccarico di domande, necessitante, appunto, di una decisionistica riduzione. Di qui il disegno di assicurare al blocco di maggioranza un potere decisionale coperto da una investitura diretta, in grado di sottrarsi ai vincoli derivanti dalla partecipazione politica e dalla concertazione sociale. Dalla fine degli anni ’70 la politica delle riforme costituzionali ha dunque sostituito la politica costituzionale: il che è come dire che la lotta per la costituzione ha sostituito la politica costituzionale.
L’onda lunga della rivoluzione reganian-thatcheriana è continuata e continua. Ma va sottolineato che, nella legislatura in corso, si è verificato un mutamento di oggetto rispetto agli anni ‘80 e ‘90. Allora si trattava di importare o di contrastare gli effetti di quella rivoluzione conservatrice, con tutto il suo corredo di concezioni individualistico-mercantili della democrazia (presto arricchite da componenti populistiche e antipolitiche, rapidamente diffusesi anche tra i partiti della sinistra). Il pomo della discordia era una visione generale dell’assetto politico-costituzionale. Oggi, certo, il conflitto intorno alla concezione populistica della democrazia (detta pudicamente democrazia d’investitura) continua. Ma il pomo della discordia non è più rappresentato solo da un disegno complessivo, lontano dalla percezione immediata e dalla passionalità dell’opinione pubblica. L’oggetto del contendere si è fatto più immediato perché si sono realizzati, o progettati, indirizzi di politica legislativa che sono stati ritenuti lesivi di principi costituzionali cardine dello stato di diritto (divieto di mandato imperativo, uguaglianza di fronte alla legge, autonomia della giurisdizione…). Altri indirizzi di politica legislativa hanno suscitato grande allarme politico, ed hanno alimentato la lotta per la costituzione, perché, pur non contraddicendo esplicitamente la costituzione scritta, contraddicevano frontalmente – su temi socialmente sensibili – l’interpretazione costituzionale consolidata nelle leggi, nella giurisprudenza e nelle narrazioni della sua progressiva e incrementale attuazione (ad esempio in materia di licenziamenti). Se si vuole però cogliere il cuore delle cose, si deve dire che lo scontro in atto è innanzi tutto l’espressione della revanche che una parte della società italiana si sta prendendo nei confronti dell’altra. Il pomo della discordia è, a prima vista, il dilagare di quella che il linguaggio delle scienze sociali definisce pacificamente (con parole che però in Italia si stenta a pronunciare) come dittatura della maggioranza. Ma la causa del conflitto è l’altissimo livello di inimicizia politica presente nel paese; e il suo effetto è quello di sfidare il limite di questa inimicizia che il sistema costituzionale può sopportare. Sarebbe dunque sbagliato ritenere che siano i contenuti programmatici, nel loro complesso, la vera causa della lotta in corso, e della sua asprezza. La tensione superiore a quella di alcuni momenti della guerra fredda, di cui si diceva all’inizio, è spiegabile solo se dietro questi obiettivi, singolarmente presi, si vede ciò di cui si è peraltro giunti effettivamente a parlare: un desiderio di rivincita contro chi è accusato di aver condotto nel passato recente (i processi per corruzione) – e non solo (la Resistenza) – una guerra civile. La “persecuzione giudiziaria” è non di rado collegata alla ultradecennale “egemonia emarginante” che una parte della società avrebbe subito ad opera di un complesso di forze che in realtà coincide con le élite dell’intero arco costituzionale dei primi decenni repubblicani, ma che – sottilmente, per denunciare quanto la sua ispirazione fondamentalmente volontaristica sia oggi percepita come oppressiva – è identificato con il comunismo. E’ il risentimento ad alimentare lo scontro, e a trasformare in bandiera di tutti anche la cura dei problemi privati di qualcuno. E’ dunque non solo legittimo dire che la tensione è oggi superiore a quella dei tempi della guerra fredda, ma è soprattutto doveroso domandarsi come sia oggi possibile una politica costituzionale. L’intensità dello scontro politico rende gli attori collettivi incapaci di praticarla, ed essa si è conseguentemente ritratta pressoché tutta nell’azione del Presidente della Repubblica. La soluzione del problema – a pena di sconfessare i presupposti stessi del concetto contemporaneo di costituzione – non può essere affidata alla definitiva vittoria di una parte. Né può essere affidata ad un irenico invito pacificatore. La condizione che ha aperto la strada alla presente frattura – alla deriva sempre più elementare, umorale, istintiva, irriflessa, dello scontro – sta in quel sovrappiù di ingegnerismo e di artificiosità istituzionale che si è voluto imporre al sistema politico, per rimodellarlo con costrittivi interventi ortopedici. La questione sta dunque nel decidere se accelerare la bipolarizzazione del sistema politico insistendo sulla personalizzazione della leadership e liquidando ciò che resta delle culture politiche storiche (anche in prospettiva europea) ponga o no le premesse per una ripresa della politica costituzionale. Se si ritiene che l’equilibrio (l’ordine) democratico debba derivare dal riconoscimento di un “giusto minimo” da parte di chi è portatore di visioni conflittuali del “bene” (e se si ritiene che la costituzione sia la premessa per il continuo ampliamento e approfondimento di questo “giusto”) la risposta è evidente; ed è negativa. Solo l’esistenza di identità politiche fortemente strutturate rende infatti possibile una politica costituzionale che coincida con la ricerca dell’overlapping consensus. Perché ci sia consenso morale in una società divisa è necessario che ci siano i soggetti in grado di produrlo. Non si può voler l’uno senza gli altri. A meno, ovviamente, che si desideri un sistema legittimato non ex ante dal consenso morale, ma solo ex post dalle sue prestazioni: in tal caso delle culture politiche si dovrà fare a meno, e la politica costituzionale si identificherà con l’amministrazione dell’apatia.
In questo contesto di – relativa, ma drammatica – anomia costituzionale si è iniziato a sostenere che il vero autore della politica costituzionale è oggi l’Unione Europea, che fornirebbe le fondamentali garanzie per l’unità del paese e l’intelligibilità del suo avvenire. Questa constatazione è certamente vera; ma bisogna ammettere che comporta un completo rovesciamento di paradigma, perché il mantenimento della costituzione non sarebbe più una funzione ascendente, come è per tutto il costituzionalismo moderno (essendo ascendente il ruolo delle élite politiche organizzate su base culturale), ma tornenerebbe ad essere – di nuovo (a riprova del carattere essenzialmente “antico” del costituzionalismo dell’Unione Europea, mirando esso ad instaurare una costituzione legittimata dall’output) – discendente. L’unità politica non sarebbe più l’effetto del patto costituzionale, riconosciuto legittimo per la luce che getta sul futuro, ma la soddisfazione e la sicurezza del presente, del contesto strutturato dal buon esito di politiche soddisfattive la cui stessa esistenza (come nel campo monetario) è resa possibile – o la cui efficacia è moltiplicata – dalla dimensione sovranazionale.

7.- Non essendo possibile condurre qui la ricerca analitica prima prospettata, sui diversi luoghi ove andrebbe misurata l’effettività della costituzione-atto, può essere utile – per concludere cercando di dare consistenza giuridica alle valutazioni troppo sintetiche sin qui esposte – tracciare un breve quadro dei modelli di costituzione (o, se si vuole, delle retoriche sulla costituzione) che si sono contrapposti a partire dagli inizi della storia repubblicana: modelli che nella loro quantità e nel loro contrasto costituiscono il più eloquente sintomo della lotta che si è ininterrottamente combattuta; e cercare successivamente di illustrare lo scenario attuale.
Nelle tabelle che seguono sono riportati, nella prima colonna, i modelli tendenti a valorizzare la costituzione, o comunque benevoli; nella seconda quelli di segno contrario (che possono ovviamente derivare da concezioni politiche antitetiche). E’ molto difficile ordinare i diversi modelli in senso cronologico – secondo cioè la loro apparizione e il periodo della loro “fortuna” – perché, come dimostra anche il convegno linceo sullo Stato delle istituzioni italiane, del 1993, molti dei modelli critici risalenti al periodo costituente hanno continuato ad essere autorevolmente utilizzati fino ai primi anni ’90. Il quadro composito dei contrastanti modi di intendere la costituzione si è così protratto fino alla presente legislatura, quando la polarizzazione estrema delle forze politiche ha generato una questione costituzionale che lo ha ridefinito, semplificandolo.
Non essendo possibile dare all’esposizione un ordine cronologico, si può cercare di distinguere i modelli a seconda dell’oggetto, cioè della caratteristica della costituzione assunta come qualificante.
Alcuni modelli sono focalizzati sul rapporto tra la costituzione e i suoi autori.

La Costituzione figlia dalla Resistenza:
la Costituzione esito del compromesso tra i partiti del CLN, inteso come patto rifondativo della nazione, come conclusione del Secondo Risorgimento, come arca dell’alleanza.
La Costituzione traditrice della Resistenza:
la Costituzione esito del compromesso tra i partiti del CLN, inteso come compromesso di regime e come negoziazione politicamente incoerente.
Conseguentemente:
– la Costituzione “aliena” (mezza russa e mezza latina; un incrocio tra l’aspersorio e la falce e il martello);
– la Costituzione truffa
– la Costituzione trappola
– la Costituzione ispirata a due concezioni diverse e non conciliabili della democrazia, e dunque instauratrice di una società pluralistica, ma non di un sistema politico democratico.

Altri modelli hanno ad oggetto il rapporto tra la costituzione e i partiti, considerato essenziale sotto il profilo della legittimazione complessiva della costituzione stessa
La Costituzione fondata sui partiti, architravi della democrazia.
La Costituzione partitica ma non popolare
La Costituzione partitocratica per necessità, ma inadeguata nell’organizzazione della forma di governo (intrinsecamente consociativa): la Costituzione partitocratica
– per vizio originario
– per vizio sopravvenuto
In ogni caso intrinsecamente consociativa
La Costituzione imposta e sorretta inizialmente dai partiti costituenti, ma poi riconosciuta moralmente in modo diffuso, e dunque valida indipendentemente dalla continuità dei suoi originari portatori: la Costituzione imposta e sorretta solo dai partiti costituenti, e dunque morta con la fine di questi.

Ulteriori modelli mettono in rapporto la legittimazione della costituzione con il suo essere un progetto di società.
La Costituzione strumento di edificazione di una democrazia redistributiva ed emancipante: la Costituzione come atto enfatico, politicamente contradditoria e giuridicamente scadente.
La Costituzione strumento transitorio di edificazione della democrazia progressiva
La Costituzione tradita: la Costituzione di carta; la Costituzione – laica – frutto del tradimento, da parte dei cristiani, del dovere di instaurare omnia in Christo.
La Costituzione come indirizzo “attuale e da attuare”.
La Costituzione come uno degli elementi che hanno reso possibili les Trente glorieuses années (1947-1977) perché ispirata al modello keynesiano-marshalliano.
La Costituzione come progetto inattuabile perché ispirata alle ideologie dei perdenti: sinistra cristiana e socialcomunista.
La Costituzione menzogna, sintomo e copertura della cattiva coscienza del capitalismo.
La Costituzione come insieme di principi capaci di autoespandersi indipendentemente dalla politica; che vive di vita propria nell’opinione pubblica e in quella scientifica e che si consolida attraverso le giurisdizioni La Costituzione “pagina bianca” davanti ai problemi sopraggiunti; muta di fronte al mercato;
gabbia inospitale per il nuovo: il rafforzamento degli esecutivi, la personalizzazione del potere, la fine della politica ideologica.
La Costituzione vecchia, ma non antica e veneranda; non da restaurare nei particolari, ma da abbattere e ricostruire.
La Costituzione come atto scadente, che è deperito da solo fino a rendersi indifferente
La Costituzione come mito politicamente morto, da sostituire col mito salvifico della sua revisione, o addirittura della evocazione di un nuovo potere costituente
La Costituzione dichiarata scadente, vecchia e muta da una classe politica fallita per farne un capro espiatorio.
La Costituzione, sovraccarica di norme di principio, limite ridondante alla democrazia, e conseguentemente causa di un eccessivo ruolo delle giurisdizioni.

8.- Per quanto manchevoli nei dati e imperfette nell’architettura queste tabelle rendono agevole constatare quanto lo scontro politico che caratterizza la presente legislatura abbia influito sui modi di intendere la costituzione, semplificando il quadro che si era stratificato.
Tra i modelli negativi (di diversa matrice ideologica), erano già sbiadite da tempo, ben prima dell’attuale polarizzazione, le concezioni – pur importantissime nel passato – della “costituzione traditrice della Resistenza” o della “costituzione cattiva coscienza del capitalismo”. Si sono invece mantenute quelle (di segno politico opposto alle precedenti) incentrate sul suo carattere “alieno” (essenzialmente ricondotto all’inconciliabilità delle ideologie dei costituenti con l’economia di mercato) e sul suo carattere compromissorio in senso deteriore, riferito ora alle ideologie ispiratrici, ora alle soluzioni tecniche. Ha trovato nuovo spazio l’argomento della sua inaccettabilità di principio perché laicista, e si sono rafforzate le critiche – non originarie come le precedenti – incentrate sul suo essere “vecchia”, pagina bianca, gabbia incapace di accogliere il “nuovo”, e, da ultimo, sul suo essere troppo “lunga”, così da risultare, con le sue troppe disposizioni, un limite ridondante alla democrazia e una piattaforma eccessivamente ampia per l’intervento delle giurisdizioni (ordinaria e costituzionale).
Tra le concezioni positive era sbiadita da tempo quella della costituzione tradita; sono ritornate ad essere vive, in quanto direttamente controverse – in un’aperta polemica tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio – quelle della costituzione figlia della Resistenza e, in quanto elevato compromesso politico-ideologico, tavola dei valori condivisi. Si sono rafforzate – nell’opinione pubblica non solo di opposizione – quella della costituzione come saggia premessa di un’economia mista complessivamente positiva (non più demonizzata come al tempo della religione delle privatizzazioni) e – nell’opinione dei giudici e degli studiosi – la concezione della costituzione come insieme di principi dotati, nella tutela dei diritti, di capacità autoespansiva indipendente dalla politica.
Sia tra quelle positive che tra quelle negative – dopo un uso parossistico fino alle elezioni del 1994 – sono sbiadite le immagini della “costituzione partitocratica”: per necessità originaria o per vizio successivo (le prime) o per vizio originario (le seconde). Di fronte alla constatata difficoltà di stabilire precisi e verificabili nessi causali tra le disfunzioni del sistema politico-amministrativo e la normazione costituzionale, anche a causa degli effetti imprevisti delle riforme introdotte, si è infatti diffusa l’idea della “innocenza” della costituzione; per quanto sopravviva la suggestione di cercare nella plusvalenza istituzionale la soluzione ai problemi della “ingovernabilità dell’iper-maggioranza”. E l’idea dell’innocenza della costituzione ha confermato la saggezza dell’indicazione dossettiana circa l’uso della costituzione come “capro espiatorio”.
In sintesi, non sembra si possa dire che l’acme della polarizzazione politica abbia fatto definitivamente sbiadire i modelli che hanno dominato fino ai primi anni ’90, legati alle passioni della guerra fredda e della conventio ad excludendum. Li ha solo fusi e ricomposti, contrapponendo ad un modello fortemente negativo – la Costituzione aliena (fatta dei nemici del liberal-liberismo), vecchia, scadente, ridondante – un modello positivo, essenzialmente espressione di pietas retrospettiva che vede in essa un saggio armistizio storico (oggi insufficientemente garantito), la condizione delle Trente glorieuses années di sviluppo economico e democratico, e un insieme di norme vitali (particolarmente nei profili che l’opposta visione considera ridondanti) idonee a radicare ed espandere la propria effettività attraverso la via giudiziaria.

9.- Se queste osservazioni appaiono ragionevoli, se ne può trarre una prima considerazione: che esiste una netta asimmetria nei soggetti portatori delle retoriche sulla costituzione. Quelle negative sono infatti portate dalla classe politica di governo, mentre quelle positive sono portate dal Presidente della Repubblica e da una parte del mondo intellettuale e della pubblica opinione, ma sono prive di un convinto radicamento nella classe politica dell’attuale opposizione. Alla polarizzazione, per così dire, degli atteggiamenti “valoriali” nei confronti della Costituzione non ha dunque corrisposto una polarizzazione delle culture istituzionali della classe politica, e cioè del rispettivo modo d’intendere la democrazia e, conseguentemente, l’assetto preferibile della forma di governo in senso lato. Questo non significa che la classe politica dell’attuale opposizione non sostenga il giudizio storico complessivo – come giudizio di valore – che fonda la scriminante dell’attuale polarizzazione. Significa che quel giudizio è confinato sul piano delle idealità, e che non ispira o riassume la concezione attuale della forma di stato e della forma di governo che essa vorrebbe realizzare.
Ma perché il giudizio di valore sulla costituzione del ’47 è stato, ed è, tentennante da parte di coloro che dovrebbero essere gli eredi dell’“arco costituzionale”? La risposta va ricercata in un duplice ordine di fattori. Il primo – che attiene più strettamente al modo di concepire in astratto il concetto di costituzione – è che, al di fuori degli ambienti più strettamente e personalmente legati all’esperienza resistenziale, anche le interpretazioni positive della Carta del ‘47 sono state sempre corrette e ridimensionate da rilievi critici attinenti a presunte sue anomalie: rilievi dipendenti da concezioni o anguste o superficialmente eclettiche, ma che hanno impedito – al di fuori di quegli ambienti e della parte maggioritaria della cultura giuridica – di attribuire particolare pregio alla carta del ‘47. Ad esempio, che una “buona e vera” costituzione dovrebbe essere espressione di una sostanziale omogeneità di concezioni, di scelte fondamentali, di orientamenti (a differenza della nostra); che dovrebbe essere prodotta con altissima solennità e diretta partecipazione popolare (a differenza della nostra); che, seppur nata da un compromesso interpartitico, dovrebbe immediatamente tradursi in cultura diffusa e omogenea, che faccia premio su quella delle rispettive appartenenze (a differenza della nostra); che dovrebbe essere un complesso normativo perfettamente coerente (a differenza della nostra); che istantaneamente dovrebbe realizzarsi in tutte le sue parti e in tutte le sue funzioni, ed essere normalmente ed uniformemente effettiva (a differenza della nostra) …
Sono tutte concezioni che non reggono ad una critica storico-comparatistica (dov’è la maggior solennità, la maggiore partecipazione popolare diretta e la maggior omogeneità che hanno presieduto alla nascita della costituzione tedesca?) e che contraddicono concezioni teoriche importanti. Sono figlie di una concezione assoluta, che vede la costituzione come un “tutto” schmittiano, in cui l’essere e il dover essere sono assorbiti l’uno nell’ottica dell’altro, e che pretende di instaurare perfette dipendenze reciproche. Questo atteggiamento intellettuale può essere certo spiegato dal fatto che il costituzionalismo occidentale nel suo complesso (anche quello liberale) fino alla II guerra mondiale presupponeva una concezione politico-morale comprensiva (il costituzionalismo monoclasse è anche monomorale) che veniva attribuita alla nazione, e attraverso essa, alla costituzione e allo stato; ma non può essere spiegato alla luce del costituzionalismo del secondo Novecento. E’ un fardello di cui non abbiamo ancora finito di sbarazzarci, ma che comunque spiega perché nella classe politica del cd. arco costituzionale fossero presenti concezioni che sopportavano la costituzione come un qualcosa di molto imperfetto (e basti fare il nome di Calamandrei, di Jemolo, di Nitti, di Salvemini, di Giannini per individuare la matrice di questi atteggiamenti, durati ancora, come prima abbiamo notato, negli anni ’90). Il consenso alla costituzione era dunque tentennante – tarlato dal mito giuridico dell’organicità e della coerenza del disegno normativo, e da quello politologico della potenza dell’ingegneria istituzionale – e quando il vento del “nuovo” (ci sia consentito ricorrere a questa espressione come a un espediente stenografico) cominciò a soffiare impetuoso sugli eredi dei fondatori della repubblica, pochi si alzarono a sostenere l’innocenza della Carta del ’47 rispetto alle degenerazioni del recente passato, e il valore del suo modello di democrazia identitaria-redistributiva rispetto a quello populistico-liberistico montante. Pur diversamente declinato, è questo modello – che presuppone, al suo cuore, l’appannarsi definitivo delle identità politico-culturali collettive e la necessità di surrogarne il ruolo costituzionale-materiale con la personalizzazione della leadership – il modello sostanzialmente condiviso. Ed è dunque l’egemonia di questo modello il secondo fattore che spiega – non più sul piano delle concezioni astratte della costituzione-atto, ma su quello delle opzioni concrete intorno all’“ottima repubblica” – lo scarso pregio attribuito da gran parte dell’attuale opposizione alla Costituzione del ’47.
L’asimmetria di cui stiamo discutendo mette dunque in evidenza che ciò che divide attualmente la maggioranza dall’opposizione è essenzialmente la pietas, o il rancore, con cui si guarda al passato repubblicano (e, specularmente, a quello fascista); è la condivisione, o no, del ribellismo alla gabbia della legge e al peso dei suoi guardiani; è la disponibilità, o no, all’uso privatistico della legislazione … ma non è la concezione di fondo della democrazia.
Questa considerazione rende ineludibile la domanda se la costituzione sia ancora propriamente valida, o se sia solo una sopravvivenza dovuta alle divisioni di chi la vorrebbe mutare. In questo secondo caso avremmo una costituzione indesiderata, ma non sostituita: un ingombro, di fronte al quale la classe politica anziché chinare la testa alza le spalle. In effetti, è ovvio, l’indifferenza rappresenta la principale via di fuga dalla rigidità, e gli esempi puntuali d’indifferenza non mancano. Dalle guerre alla decostruzione del sistema delle fonti, dall’assetto delle telecomunicazioni alla disciplina delle immunità, fino al più apparentemente banale caso dell’allargamento della flagranza (l. n. 377/2001) i casi di consapevole scavalcamento della Costituzione sono numerosi.
Come valutare questi fatti, e come dunque rispondere alla domanda se la Costituzione del ’47 sia tuttora valida perché “resistente”, o se sia solo un’ombra perché indifferente? Una costituzione che sopravvive nelle aule giudiziarie e nelle riviste di dottrina – potremmo dire, con autoironia, una costituzione “dei pedanti” – dimenticata dalla classe politica e dagli attori sociali?
La risposta dipende dalla concezione di costituzione che assumiamo. Se pensiamo che le costituzioni e “le leggi sono simili alle ragnatele: se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e se ne va”1) , allora dobbiamo concludere che la costituzione è qualcosa di ormai lacerato, che sopravvive come norma tecnica negli interstizi in cui operano i giuristi. Ma se pensiamo che la validità di una costituzione dipenda essenzialmente dal fatto che gli individui e gli attori sociali abbiano assunto l’abito mentale di ricondurre ad essa gli scontri circa le modalità con cui risolvere i problemi principali della loro vita collettiva (problemi in ultima istanza di natura morale), allora si dovrà dire che finché permarrà questo atteggiamento in una parte quantitativamente considerevole dell’opinione pubblica, e in settori politicamente attivi delle élite politico-parlamentari, la costituzione continuerà ad essere un atto normativo valido, seppur immerso in una fase difficile della altalenante lotta per la sua effettività.

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