Prime riflessioni sulla nuova disciplina costituzionale del procedimento legislativo e dei rapporti tra le due camere parlamentari*


Indice sommario

1. Non l’inizio, ma ancora il cd avvio alla forma federale dello Stato 2. La esclusiva attribuzione alla camera del potere fiduciario e la disciplina del procedimento legislativo. Il procedimento legislativo nel caso della prevalenza della volontà del senato e i poteri del governo 3. L’esercizio collettivo del potere legislativo e i poteri dei presidenti delle camere 4. Il cd testo unificato quale superamento della navette 5. Il regolamento costituzionale di competenza tra le due camere 6. Segue 7. I procedimenti legislativi speciali. 8. I poteri del governo sulla programmazione dei lavori parlamentari e sul procedimento legislativo 9. I mutati equilibri tra governo e parlamento 10. I poteri sostitutivi dello Stato per gli atti della regione 11. I rapporti tra le due camere e il parlamento in seduta comune. L’assemblea della Repubblica 12. La differenziazione tra i poteri costituzionali delle camere 13. La riforma e il sistema delle fonti

1. Si osserva preliminarmente che, malgrado la qualificazione conferita dall’art. 1 del testo di riforma al senato, definito senato federale, non vi è elemento bastevole a segnare un qualche mutamento nella forma dello Stato repubblicano, che pertanto non assume trasformazioni di tipo federale.
Di ciò fanno fede inequivoci dati di diritto positivo contenuti nel testo di riforma. Il senato “federale” è eletto a suffragio universale e diretto su base regionale, secondo l’articolo 3, comma 1, che peraltro riproduce la formula adottata dalla costituzione vigente, e pertanto esclude dal distinto rapporto di rappresentanza i soggetti territoriali del decentramento politico (regioni, province autonome di Trento e di Bolzano, ed ogni altra autonomia locale); la legge elettorale del senato è legge dello Stato (art.3, c.3); la partecipazione all’attività del senato dei rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali, pur prevista all’articolo 3, comma 6, non include il diritto di voto.
Nessun dubbio sul punto possono suscitare né le disposizioni dell’articolo 4, limitativo dell’elettorato passivo per il senato al fine di assicurare, secondo l’intenzione del legislatore peraltro maldestramente estrinsecata, il più stretto rapporto di pertinenza civica del candidato alla comunità territoriale regionale, né la contestualità della elezione dei senatori e dei consigli regionali nel cui territorio sono le circoscrizioni rispettive, nonché la contestualità dei mandati degli uni e delle altre (art.6, c.2 e c.3). Resta decisiva la considerazione delle attribuzioni sostanziali delle due camere, il contenuto del rapporto di rappresentanza che ne unifica la posizione nel sistema, e, infine, emblematicamente, la riproduzione espressa del divieto di mandato imperativo (art.67: “Ogni deputato e ogni senatore rappresenta la Nazione e la Repubblica ed esercita le proprie funzioni senza vincolo di mandato”).
In conclusione, si può affermare che la posizione delle due camere, l’insieme delle loro attribuzioni (salvo, come si osserverà subito dopo, la titolarità del potere fiduciario), e in ispecie per ciò che concerne il procedimento legislativo e il sistema delle relazioni reciproche, non si iscrivono nella cornice di un federalismo, che è inesistente. La progettata riforma resta ferma al cd avvio enunciato dalla legge costituzionale n.3 del 2001: e ciò per l’argomento conclusivo del mancato inserimento della regione nella struttura costituzionale dello Stato, anche mediante un distinto rapporto di rappresentanza negli organi dell’indirizzo politico. Tale inserimento sarebbe stato necessario per dare corpo effettivo alla trasformazione in senso federale, e per assicurarne le garanzie minime di stabilità e di convergenza.

2. In forza delle disposizioni contenute nell’articolo 32 del testo di riforma, sostitutivo dell’articolo 94 vigente, il potere fiduciario appartiene alla sola camera dei deputati, mentre il senato federale ne è privo. Il dato deve essere qui esaminato sotto il profilo della sua eventuale incidenza sul procedimento legislativo, ad esclusione di quanto possa riferirsi alla forma di governo (che, se è consentita una osservazione qui fuori tema, resta indefinibile, risultando dalla contaminazione di elementi di natura sensibilmente diversificata, posti in un ampio ventaglio di suggestioni, da quella parlamentare a quella presidenziale, dal cd premierato ad altre risalenti alla ondeggiante prassi successiva alla riforma elettorale maggioritaria avutasi in Italia a costituzione invariata).
Dalla esclusione del potere fiduciario dalle attribuzioni del senato scaturiscono due conseguenze: l’una è che l’attuazione legislativa dell’indirizzo politico resta munita dei mezzi di cui il governo dispone nell’àmbito della sua responsabilità politica soltanto per ciò che rientra nelle attribuzioni della camera dei deputati, mentre ne è privato per ciò che rientra in quelle del senato; l’altra è che, anche tenuto conto delle importanti competenze ratione materiae devolute al senato, si introduce una virtuale attenuazione dei livelli di coerenza interna e di funzionalità del sistema ordinamentale. Quest’ultima considerazione si rafforza (e egualmente la prima) se si tiene conto del fatto che il governo, e per esso il premier, può promuovere lo scioglimento anticipato della sola camera, non già del senato, che si rinnova in modo automatico in forza dei richiamati commi 2 e 3 dell’articolo 6 del testo di riforma.
Tra i casi più evidenti che avvalorano quanto affermato, si può prendere in considerazione il caso delle cd leggi quadro, ex art. 117. Secondo il testo di riforma (art.14, c.2), il senato ha competenza prevalente per la deliberazione di tali leggi (e, a quel che sembra, per l’attivazione del relativo procedimento), nelle materie riservate alla competenza regionale concorrente: la camera ha la sola facoltà di proporre, nel termine di trenta giorni, modifiche al testo deliberato dal senato, sulle quali il senato stesso decide in via definitiva.
Il testo modifica la enumerazione e la casistica specifica delle materie sottoposte alla competenza legislativa concorrente, ma ciò evidentemente non incide sul problema generale delineato. Peraltro, il quarto comma dell’articolo 14 sembrerebbe offrire una qualche soluzione, conferendo al governo il potere di qualificare “proprie modifiche” al testo di un disegno di legge, sottoposto all’esame del senato, come “essenziali” per l’attuazione del suo “programma approvato dalla Camera dei deputati” (ex art.32, c.1, che reca il nuovo testo dell’art.94 Cost.), oppure per la finalità di cui all’articolo 120 (in particolare, tutela dell’interesse nazionale).
Senonché la interpretazione di tale disposizione rivela gravi difficoltà ed apre il varco a non poche contraddizioni, che la prassi sarà impotente a risolvere se non incidendo sul contenuto delle norme costituzionali (caso di prassi manipolativa), né l’eventuale ricorso al mezzo del conflitto di attribuzioni, ove attivabile, appare suscettibile di creare minori inconvenienti.
L’esercizio del potere governativo di cui si tratta è infatti sottoposto ad atto di autorizzazione del presidente della Repubblica, evidentemente in funzione di garanzia (qualificazione dell’organo che il testo riafferma). Il presidente irrompe quindi all’interno del procedimento legislativo, fattispecie fin qui ignorata dal sistema repubblicano, non solo, ma arbitrando tra l’organo rappresentativo camera parlamentare, e l’organo del potere esecutivo, che lo è solo indirettamente.
Focalizzando, dei due casi previsti per l’attivazione del potere governativo di intervento sul procedimento (che, va sottolineato, produce l’effetto di devolvere alla camera, sottraendolo al senato, il potere di approvare le modifiche proposte dal governo in via definitiva, sia pure con il quorum aggravato del voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti), il caso in cui il governo giudichi le proprie proposte essenziali per l’attuazione del programma, si deve ammettere che l’atto autorizzativo del presidente della Repubblica inevitabilmente sia spinto sul terreno del merito politico: e qui si profila un contrasto non secondario con la qualificazione del presidente come organo di garanzia.
Inoltre, questa ipotesi in sé è di difficile delimitazione (come sarebbe invece necessario, trattandosi di poteri costituzionali). Le leggi quadro recano i principi fondamentali delle materie enumerate nell’articolo 117 per la parte concernente la competenza regionale concorrente: quali possono essere i termini certi e non equivoci che giustifichino la ipotesi dell’intervento del governo di cui si è detto ? e, conseguentemente, quali i “presupposti costituzionali” su cui possa fondarsi il legittimo atto autorizzativo del presidente della Repubblica, cui fa riferimento del tutto generico ed evanescente il quarto comma dell’articolo 14 del testo di riforma?

3. Per ciò che concerne l’esercizio collettivo della funzione legislativa da parte delle due camere, il terzo comma dell’articolo 14 del testo indica l’àmbito materiale in cui tale esercizio è prescritto: in esso ricadono leggi che toccano le materie rimesse alla competenza dello Stato (o, secondo la distinta previsione della riforma, della Repubblica). Si tratta di un insieme di materie non omogeneo, tra le quali spiccano alcune di particolare importanza, come la disciplina elettorale politica, ed i principi generali di quella regionale, l’insieme delle relazioni internazionali che possono riguardare le regioni (dal punto di vista delle procedure che spetta allo Stato fissare), l’intero capitolo della regolazione dell’autonomia finanziaria regionale, vera clausola costitutiva del decentramento politico, la istituzione e l’ordinamento delle autorità indipendenti.
Ciò che preme qui rilevare è quale specifica disciplina procedimentale sia stabilita a tale riguardo. Per le materie che ricadono ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, come riformato dal testo, nella competenza esclusiva dello Stato, è fissato il principio di prevalenza della volontà della camera, secondo lo schema ed il procedimento omologhi a quelli applicati nel caso in cui del principio di prevalenza benefici il senato.
Il procedimento per l’esercizio collettivo prevede che (art.14, c.3, seconda parte) “Se un disegno di legge non è approvato dalla due Camere nel medesimo testo i Presidenti delle due Camere possono convocare, d’intesa tra di loro, una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camere, incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due Assemblee. I Presidenti delle Camere stabiliscono i termini per l’elaborazione del testo e per le votazioni delle due Assemblee”.
L’intento del riformatore costituzionale è evidente, e viene raggiunto, perché si elimina il rito della navette, a torto o a ragione oggetto di molteplici critiche, anche ed anzi soprattutto fuori dell’àmbito scientifico, ad opera degli operatori istituzionali insofferenti delle logiche procedimentali del legislatore. Il rimedio, tuttavia, appare sicuramente di gran lunga peggiore dell’asserito male.
La disposizione appare ictu oculi imperfetta e monca.
Non si chiarisce, in primo luogo, quale sia la effettiva natura, ed il contenuto, del potere attribuito ai due presidenti delle camere: se esso si traduce in attività ad esercizio dovuto, oppure, secondo il lessico del testo di riforma, in facoltà; quale, conseguentemente, il valore giuridico dell’intesa che essi devono raggiungere, e se riferita alla decisione di (istituire) e convocare la commissione, oppure solo ai termini da definire (si presume di ordine temporale); lo scioglimento di tale nodo essendo essenziale, perché nella prima ipotesi, ad uno anche soltanto dei presidenti finirebbe con l’attribuirsi un innominato potere di veto sulla legge in discussione.
Ora, si deve ricordare che nel quadro del sistema politico maggioritario non è affatto pacifico che sia la maggioranza elettorale a prescegliere ambedue i presidenti: anzi, non solo quanti auspicano la formulazione del cd statuto dell’opposizione inseriscono la proposta di attribuire uno di essi alle minoranze, ma gli stessi quorum aggravati che il testo di riforma fissa per la elezione dei presidenti delle camere (art. 8, che sostituisce il vigente c.1 dell’art.63 cost.) sembrano favorire l’avverarsi di tale schema. La particolare disciplina prevista dallo stesso articolo 8 per la presidenza del senato, secondo cui “Il regolamento del Senato federale della Repubblica disciplina le modalità di rinnovo anche periodico dell’Ufficio di Presidenza” potrebbe complicare il problema interpretativo.
E’ difficile dubitare del fatto che la ipotesi che un presidente di assemblea risulti essere un esponente dell’opposizione superi largamente i termini delle garanzie per le minoranze, in quanto offre in concreto la possibilità che all’opposizione sia conferito il potere di rifiutare l’intesa sulla nomina della commissione e, al tempo stesso, di rifiutare, o contrattare secondo convenienza politica di parte il merito della eventuale intesa sul testo “unificato”: il che appare in netto contrasto più generalmente con la esigenza della funzionalità del sistema, e specificamente con lo scopo espressamente perseguito dal riformatore costituzionale di estendere i poteri necessari perché il premier e la maggioranza elettorale realizzino politica e programma.

4. Ai profili critici che investono natura e contenuto dei poteri dei presidenti delle camere relativi alla istituzione della commissione, altre questioni si aggiungono, non meno complesse, entro cui ci si imbatte in nodi interpretativi pressoché inestricabili. Un semplice accenno qui può essere fatto sulla necessità di rivedere profondamente i lineamenti generali della figura del presidente di assemblea, che la riforma, per quanto fin qui riportato e per altre disposizioni di cui in sèguito, fissa secondo principi molto innovativi.
La commissione (immaginata dal riformatore per evidente suggestione del diritto tedesco) viene incaricata di proporre un testo “unificato” (?) perché le due assemblee deliberino con il solo voto finale (ad esclusione quindi di ogni facoltà di emendamento, e della votazione sui singoli articoli). Sul significato del termine “unificato” sarà indispensabile ricorrere al senso comune perché assuma un senso certo ed univoco, distrattamente tratto dal gergo dei regolamenti parlamentari (un solo testo, sul quale converga la commissione: ma deliberato a maggioranza ? e nel caso, quale maggioranza, trattandosi di commissione bicamerale ?).
Quid juris se la commissione non licenzia il testo “unificato”, oppure se una delle due camere rigetta tale testo ? L’articolo 14 del testo nulla dice al riguardo, e quindi l’interprete deve procedere per tentativi e supposizioni, a fronte di una lacuna che peraltro non dovrebbe aversi, trattandosi di una delicatissima fattispecie del procedimento legislativo ad esercizio collettivo della funzione da parte delle due camere.
La soluzione più attendibile appare quella che rende l’una e l’altra ipotesi equivalenti ad esito negativo del procedimento, che, nel silenzio del testo, dovrebbe essere disciplinato quanto agli effetti al pari di ogni altra ipotesi analoga. Tuttavia, mentre ciò non crea particolari difficoltà ricostruttive per il caso in cui sia una delle due camere a rigettare la proposta della commissione, qualche incertezza potrebbe profilarsi nell’altra ipotesi, in cui la commissione non deliberi alcun testo “unificato”, oppure deliberi non validamente. In questa seconda ipotesi i regolamenti parlamentari potrebbero, forse, prevedere che i presidenti istituiscano una diversa commissione incaricata del problema, anche delimitando l’esercizio di tale potere a particolari fattispecie del procedimento seguìto in commissione.

5. L’ultimo comma dell’articolo 14 prevede e regola il caso delle “questioni di competenza” tra le due camere. Ciò si rende necessario sia perché tali competenze sono diversamente attribuite, sia, e soprattutto, perché la distinzione è sommamente complessa, tenuto conto del fatto che il testo di riforma, seguendo in ciò la precedente revisione costituzionale del 2001, conserva il criterio della materia per scriminare tra le tre ipotesi: principio di prevalenza della volontà della camera, principio di prevalenza della volontà del senato, esercizio collettivo della funzione legislativa.
Ogni decisione è devoluta alla intesa tra i presidenti delle due camere, la quale è qualificata come insindacabile “in alcuna sede”. Tale qualificazione dovrebbe dunque, stando alla lettera della disposizione, resistere anche al controllo della corte costituzionale, e dunque precludere il ricorso degli organi abilitati a sollevare il conflitto di legittimità, istituendo un caso di particolare e forte reviviscenza della figura degli interna corporis, caso concepito nel senso più tradizionale.
I presidenti possono anche deferire,di volta in volta, la questione ad un comitato paritetico composto da quattro deputati e quattro senatori, la cui decisione è parimenti qualificata come insindacabile. Sembra, a prestare fede al tenore letterale della disposizione (art.14, ult.c., ultima parte) che lo stesso comitato proponga ai due presidenti, i quali decidono di intesa tra loro, “sulla base di norme previste dai rispettivi regolamenti i criteri generali secondo i quali un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi”. Anche su quest’ultima norma pesano gravi dubbi interpretativi, molto difficili da sciogliere con la necessaria certezza ed univocità.
Un primo rilievo riguarda la via surrettizia con la quale si introduce una ipotesi di limitazione del potere di iniziativa legislativa (a quel che sembra, anche di quella governativa…), non espressamente prevista né fondata su norme che la riforma rechi. Già questo rilievo, riferito ad un testo costituzionale, e per di più in parti che toccano fondamentali del regime costituzionale, il principio della rappresentanza politica, suscita preoccupazioni di non poco momento.
Ma vi è di più. Quale contenuto e quale valore-forza è possibile attribuire a tali “criteri generali”, devoluti alla intesa dei due presidenti delle camere ? Se si trattasse di una mera ricognizione del sistema normativo costituzionale sulla distinzione tra le competenze legislative ordinate sul triplice piano che il testo di riforma prevede (principio di prevalenza della volontà dell’una o dell’altra camera, esercizio collettivo), basterebbe a questo scopo un mero rinvio ai regolamenti parlamentari ed ai poteri anche impliciti dei presidenti (si osserverà parenteticamente che le funzioni fin qui attribuite alle giunte per il regolamento svaniscono nella penombra che vi stende sopra il testo di riforma, con alcune conseguenze che è ragionevole attendersi, a causa della esclusione dei gruppi minori che ciò produce).

6. In realtà, i poteri ordinatori dei presidenti delle camere, come si sono consolidati fin qui in forza di una prassi che è connaturata alla tradizione parlamentare repubblicana, non solo vengono rafforzati oltre misura dalla riforma, ma sono altresì sensibilmente integrati, e virtualmente proiettati oltre il fine di garanzia che appare essere dominante nel diritto vigente.
A sostegno di questa affermazione sono anche le norme che regolano la facoltà di istituire la commissione per redigere il testo “unificato” dei provvedimenti legislativi sui quali, nella ipotesi di esercizio collettivo, le due camere siano state di diverso avviso deliberativo. Secondo ciò che prevede l’articolo 14 del testo di riforma, sostitutivo del vigente articolo 70 della costituzione, la commissione è paritetica (30 deputati e 30 senatori), e composta “secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camera”: sono i presidenti delle Camere che “stabiliscono i termini per l’elaborazione del testo e per le votazioni delle due Assemblee”.
Si possono aggiungere alcune precisazioni, che scaturiscono dall’esame del rapporto tra sistema istituzionale e modello politico, per il solo fine della previsione sull’esito attuativo della riforma. In una prima ipotesi, che è quella in cui ambedue i presidenti appartengano allo schieramento maggioritario, si avrà un rafforzamento notevole dei poteri della maggioranza, e di riflesso dell’esecutivo, sul procedimento e sulla funzione legislativa delle camere, secondo una logica che richiama gli elementi originari della forma di governo statutaria.
Nell’altra ipotesi, che per quanto si è già notato ha non poche possibilità di avverarsi, in cui uno dei presidenti venga indicato dall’opposizione in una intesa con la maggioranza per la elezione dei vertici parlamentari, si torna invece ai lineamenti della forma di governo repubblicana, riferiti al principio della preferenza per l’intesa, altrove analizzati ed illustrati (v. soprattutto il nostro contributo al XVII volume Annali Einaudi, Storia d’Italia, 2001, nonché la Introduzione in Il Parlamento repubblicano (1948-1988), Quaderni della Rassegna Parlamentare, 3, Milano, 1999). Ciò, peraltro, introdurrebbe una stridente contraddizione con ogni altro tratto essenziale del nuovo sistema maggioritario, che la riforma sottolinea e rafforza con decisione.
Resta comunque da definire latitudine e profondità dei menzionati “criteri generali” che vietano la inclusione nel medesimo atto di iniziativa legislativa di materie risalenti a procedimenti diversi. La laconicità, ed anche la genericità del testo lascia intendere che la intesa di presidenti, volta a fissarli, di fatto possa assumere valore non solo intepretativo ma anche integrativo della disciplina costituzionale sul procedimento legislativo: ciò accresce ancora una volta il potere conferito ai vertici parlamentari, ed introduce una clausola di flessibilità al pur rigido carattere dell’ordinamento, tenendo conto oltre tutto della qualificazione di insindacabilità, proclamata enfaticamente dall’articolo 14 del testo di riforma su tali fonti invero del tutto atipiche.

7. Quanto ai procedimenti legislativi speciali sembrano meritevoli di considerazione specifica le seguenti fattispecie contenute nel testo di riforma.
L’articolo 16, sostitutivo dell’articolo 72 vigente della costituzione, dispone che: “La procedura normale di esame e di approvazione diretta (sic !) da parte dell’Assemblea e sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa”. Il quarto comma dell’articolo che reca la norma sembra dunque, alla luce di ogni ragionevole criterio interpretativo, escludere altre ipotesi dal novero degli atti coperti dalla riserva di assemblea (ed è certamente in riserva di assemblea” da tradursi il criptico e per la verità anche improprio termine “approvazione diretta” cui fa ricorso il testo di riforma).
I provvedimenti “liberati” dalla riserva di assemblea sarebbero dunque l’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e l’approvazione dei bilanci e dei consuntivi (quanto a tali ultimi, l’articolo 20 del progetto determina o, se si preferisce, rende esplicita, la attribuzione al governo della iniziativa legislativa esclusiva). L’uso del condizionale viene spontaneo vista la rilevanza dell’oggetto di tali atti.
In ogni caso tuttavia bisogna ricordare che la riforma non modifica il sistema delle garanzie per governo e minoranze: resta immutata infatti la facoltà dell’esecutivo e di un decimo dell’assemblea, o di un quinto della commissione, di chiedere ed ottenere la rimessione all’assemblea, fino al momento della sua approvazione definitiva (che è l’approvazione finale, poiché ambedue gli atti risalgono, ai sensi della riforma stessa, alla competenza prevalente della camera dei deputati).
Diversa è la ipotesi della legge di conversione. La disciplina contenuta nel testo di riforma dei procedimenti legislativi abbreviati non include l’atto di conversione tra quelli coperti da riserva di assemblea, e così si uniforma al testo vigente. Ciò peraltro, tenuto conto del fatto che si tratta di una revisione generale della materia, porta ad escludere la legittimità della prassi interpretativa fin qui assecondata, il cui fondamento peraltro ha subìto rilievi nella letteratura e qualche incertezza pure che si è manifestata inizialmente tra gli operatori istituzionali, secondo la quale la legge di conversione, malgrado il silenzio della costituzione, sarebbe egualmente coperta da questa riserva.
Altra disposizione (art. 18 del testo di riforma, che reca un comma aggiuntivo al vigente art. 76 della Carta) prescrive che “I progetti dei decreti legislativi, predisposti dal Governo, sono sottoposti al parere delle commissioni parlamentari competenti secondo le norme dei regolamenti di ciascuna Camera”. La disposizione costituzionalizza quanto prevede già la legge n.400 del 1988: tale parere, in mancanza di ogni contraria norma espressa, non potrà avere che valore non vincolante (pur potendo il regolamento parlamentare definire forme speciali di controllo politico, quando il governo non ne tenga conto, né vi si uniformi), divenendo in ogni caso obbligatorio.

8. Il quinto comma dell’articolo 16 del testo di riforma prevede particolari poteri del governo che incidono sulla formazione dell’ordine del giorno delle camere, e quindi danno luogo a procedimenti legislativi speciali, che è necessario esaminare attentamente, poiché incidono non poco sulla posizione e sulle funzioni del parlamento nel nuovo sistema costituzionale delineato dalla revisione.
Secondo le norme che la disposizione reca, il governo può chiedere ed ottenere: a) che siano “iscritti all’ordine del giorno delle camere e votati entro tempi certi, secondo le norme dei rispettivi regolamenti, i disegni di legge presentati o fatti propri dal Governo stesso”; b) decorso il termine, che, su iniziativa del governo “la Camera dei Deputati deliberi articolo per articolo e con votazione finale sul testo proposto o fatto proprio dal Governo”.
L’ultima parte della disposizione contiene invece un rinvio ai regolamenti parlamentari della fissazione “delle modalità di iscrizione all’ordine del giorno di proposte e iniziative indicate dalle opposizioni alla Camera e dalle minoranze al Senato, determinandone i tempi di esame”. E’ da notare che la tutela delle opposizioni, e delle minoranze, si riferisce al solo esame dei provvedimenti, non includendo la fase deliberativa in senso proprio.
Il potere attribuito al governo dalla disposizione del testo di riforma configura una forma di intervento dell’esecutivo limitativa dell’autonomia delle camere, costantemente ritenute padrone del proprio ordine del giorno e delle decisioni procedurali, fin qui prerogative costituzionali indiscusse (salvo il caso della posizione della questione di fiducia, a sua volta istituto non previsto dalle disposizioni costituzionali vigenti, e però ammesso ormai pacificamente dalla prassi trasformatasi in norma consuetudinaria, dopo alcuni iniziali contrasti presto sopiti).
Peraltro, la posizione della questione di fiducia mostra, nei tempi più recenti, una tendenza espansiva assai accentuata, e ha finito con l’erodere persino il potere emendativo delle camere, fino a sfociare in una sorta di vote bloqué globale di interi provvedimenti, grazie all’uso surrettizio dell’emendamento accorpativo e interamente sostitutivo del testo in esame. Tale prassi suscita un generale giudizio di censura tra gli studiosi e gli osservatori, come di caso grave di rottura del sistema vigente: a ciò sembra ricollegarsi la ispirazione che muove sul punto il testo di riforma.
Si costituzionalizza il principio sottostante, sia pure confusamente, la tendenza e se ne fa ipotesi sistematica ed organica: l’esecutivo, appellandosi ad un suo apprezzamento soggettivo di essenzialità del testo legislativo o presentato dal governo stesso, o dal governo “fatto proprio”, vincola non solo la programmazione dei lavori parlamentari, ma anche la forma del procedimento, che assume caratteri di procedimento speciale, tale instaurandosi per la esclusiva volontà del gabinetto.

9. La dichiarazione del governo di cui si è detto implica: la iscrizione all’ordine del giorno della camera del provvedimento cui la dichiarazione si riferisce; la fissazione del termine per la votazione (qui da intendersi per il perfezionamento dell’iter); ad ulteriore garanzia dell’esecutivo, la subordinata ipotesi, per cui si prescrive che, qualora il termine sia trascorso senza la attuazione di quanto previsto, ossia il compimento dell’iter, discussione e votazione, su richiesta del governo, la camera dei deputati (la norma non si applica anche al senato) “deliberi articolo per articolo e con votazione finale sul testo proposto o fatto proprio dal Governo”.
L’ultima delle norme citate, che nel loro insieme compongono questo procedimento legislativo speciale frutto della esclusiva manifestazione di volontà dell’esecutivo bastevole ad attivarlo, suscita non pochi problemi interpretativi. Stando alla lettera della relativa disposizione, la decorrenza del termine senza che sia compiuto l’iter legislativo comporterebbe, sulla richiesta del governo, un tipo di votazione omologo a quello ora applicato per il procedimento redigente, che esclude, nella fase dell’assemblea, ogni facoltà emendativa.
Nulla è espressamente previsto per il caso in cui il termine sia compiuto essendo già iniziate le votazioni ed approvati alcuni articoli. Stando alla lettera, per la verità inequivoca, della disposizione, tali deliberazioni sarebbero di nessun valore, poiché un nuovo procedimento si instaura, consistente appunto nella votazione degli articoli e in quella finale “sul testo proposto o fatto proprio dal Governo.
Comunque sia, si deve ammettere che, considerati i provvedimenti che rientrano nella previsione del testo di riforma, il risultato è un forte spostamento dell’equilibrio tra legislativo ed esecutivo in favore del secondo: l’influenza del governo, grazie a questo tipo di procedimento speciale, sull’esercizio della funzione legislativa della camera dei deputati è veramente inusitato in un regime rappresentativo vero e proprio.
Si ricorderà che tali provvedimenti, per la deliberazione dei quali la camera dei deputati gode di prevalenza rispetto al senato, comprendono questioni di decisiva rilevanza secondo ciò che prescrive il testo della riforma: politica estera e rapporti internazionali dello Stato, rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; promozione internazionale del sistema economico e produttivo nazionale; immigrazione; rapporti della Repubblica con le confessioni religiose; difesa e forze armate; sicurezza dello Stato; politica monetaria; moneta; tutela del risparmio e del credito e mercati finanziari, tutela della concorrenza e organizzazioni comuni di mercato; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato, perequazione delle risorse finanziarie; organi dello Stato e relative leggi elettorali, referendum statali; elezioni del parlamento europeo; ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale e regionale; cittadinanza, stato civile ed anagrafi; giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale, giustizia amministrativa; determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; etc.

10. Il testo della riforma modifica parzialmente il secondo comma dell’articolo 120 vigente (dopo la l.cost. 2001, n.3), attribuendo allo Stato, e non più al governo, il potere sostitutivo di regioni, città metropolitane, provincie e comuni nell’esercizio delle funzioni loro assegnate dagli articoli 117 e 118 della costituzione, “nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per la incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali e nel rispetto dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà”. E’, infine soppresso il secondo periodo del comma, che nel testo vigente è il seguente: “La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.
Non sarà facile ricostruire il senso della disposizione, anche per la parte che concerne il procedimento legislativo: e probabilmente sarà questo uno dei numerosi punti, ove la riforma fosse definitivamente approvata, per i quali l’attività di controllo della corte costituzionale sarà pressata ad inoltrarsi sul terreno, che la stessa corte ha mostrato in più di una recente occasione, e rettamente, di non gradire, della riscrittura parziale delle disposizioni novellate in questa stagione delle istituzioni repubblicane.
Preliminarmente va osservato che la sostituzione del governo quale titolare di un simile potere censorio merita in linea di principio pieno consenso, sulle cui ragioni è superfluo soffermarsi: con quella attribuzione, la riforma del 2001 consegna le chiavi dell’autonomia politica delle regioni all’organo esponenziale della maggioranza di indirizzo. E però la soluzione escogitata per individuare il nuovo soggetto titolare di questo potere cade irrimediabilmente nella indeterminatezza, per profili che sono tutti essenziali: quali organi dello Stato ne sono titolari; con quali atti, e procedimenti eserciteranno i poteri sostitutivi, e con quali garanzie ?
Per ciò che concerne materie coperte da riserva di legge, e per atti censurandi che hanno natura legislativa, sembra che debba essere il parlamento, per evidenti motivi sistematici, con atto legislativo.
Nel caso in cui la censura abbia per oggetto attività di natura amministrativa, dovrebbero essere chiamati in causa i poteri del governo in questo campo: le questioni interpretative qui ancora più complesse e prive di riferimenti certi nel testo della riforma, esulano dall’oggetto di queste note.
Peraltro potrebbe delinearsi anche altra prospettiva ricostruttiva della regolazione dell’intervento sostitutivo in forma di legge. Il testo della riforma reca all’articolo 45 una modifica del vigente articolo 127 della costituzione, consistente nell’aggiunta di un comma 1 bis, che attribuisce al governo “qualora ritenga che una legge regionale o parte di essa pregiudichi l’interesse nazionale della Repubblica, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione, invita la Regione a rimuovere le disposizioni pregiudizievoli”. In caso di inadempimento, il governo, entro altri quindici giorni, “sottopone la questione al Parlamento in seduta comune che, entro gli ulteriori quindici giorni, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei propri componenti, può annullare la legge o le sue disposizioni”: segue il decreto del presidente della Repubblica che emana l’atto di annullamento.
Appare evidente la filiazione diretta della previgente disposizione dell’articolo 127 della costituzione, abrogato dalla riforma costituzionale del 2001 (art. 8, l.cost. 18 ottobre 2001,n.3). Torna quindi il conflitto di merito tra Stato e regione, meglio precisato nel suo procedimento. L’accostamento accennato alla ipotesi ora formulata nel testo di riforma si può ragionevolmente argomentare, in quanto il controllo volto a reprimere il contrasto tra la legge regionale e “l’interesse nazionale della Repubblica”, tanto si estende al merito politico delle disposizioni legislative regionali, quanto, in particolare, ciò si verifica nel caso in cui i beni tutelati siano “l’unità giuridica” o “l’unità economica” della Repubblica. Si tratta di nozioni tutte sostanzialmente sfuggenti e generiche, risalenti a determinazioni soggettive dell’organo esponenziale della maggioranza politica, come prova la lunga storia della vexata quaestio della nozione di interesse nazionale.

11. Alcune brevi considerazioni sono sufficienti, per ciò che concerne i rapporti tra le due camere, per il caso in cui si abbia la seduta comune del parlamento. In generale non si hanno modifiche su tale fattispecie, che quindi resta regolata dalle norme vigenti.
Viceversa innovazioni significative sono introdotte dal testo di riforma per ciò che concerne l’organo destinato ad eleggere il presidente della Repubblica, tanto da eliminare alcuni dubbi interpretativi sulla natura dell’organo e sulle sue funzioni, affiorati prevalentemente nello svolgimento pratico delle istituzioni. L’organo è del tutto distinto da ogni ipotesi di seduta comune delle camere, come chiariscono le norme dell’articolo 22 del testo di riforma, e si attesta su lineamenti di collegio elettorale.
Muta il nome (Assemblea della Repubblica), e sostanzialmente la composizione, essendo formato oltre che dai membri le due camere, dai presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, nonché da delegati, che ciascuna regione elegge in misura di due ciascuna (la Valle d’Aosta un solo delegato), e di un ulteriore numero di delegati per ogni milione di abitanti.
L’assemblea della Repubblica, radunata per la elezione del presidente della Repubblica, è presieduta dal presidente della camera (art.22, c.1), che ne dispone altresì la convocazione, regolata secondo le norme vigenti dell’articolo 85 della costituzione.
Non vi sono altre ipotesi in cui l’assemblea abbia funzioni elettorali, poiché ciascuna camera esercita singolarmente tale funzione per la designazione dei membri del consiglio superiore della magistratura e dei giudici della corte costituzionale (rispettivamente artt. 36 e 51 del testo di riforma).
Sembra dunque potersi concludere nel senso che l’organo che elegge il presidente della Repubblica: a) è organo distinto dal parlamento in seduta comune; b) è organo esclusivamente preposto alla funzione di designazione elettiva del presidente.
Vi è da aggiungere che l’articolo 25 del testo di riforma conserva la attribuzione al presidente del senato della supplenza del presidente della Repubblica (i cui presupposti vengono oltremodo semplificati, riducendosi alla ipotesi, alquanto tautologica, secondo cui “Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato federale della Repubblica”). Tale attribuzione riproduce quindi il riequilibrio che la vigente costituzione opera tra i poteri dei presidenti delle camere relativi all’ordinamento dell’ufficio costituzionale del presidente della Repubblica.

12. Il terreno sul quale si pongono i maggiori problemi interpretativi del nuovo sistema parlamentare, e quindi delle relazioni tra i due rami del parlamento, è quello delle attribuzioni costituzionali che, diversamente da ciò che si riferisce ai profili della forma dello Stato e di cui si è detto, segnala una differenziazione di non poco conto, risalente alla disciplina della forma di governo.
Per ciò che concerne la funzione legislativa si richiamerà quanto fin qui osservato (e su cui si tornerà, per considerazioni relative al sistema delle fonti in generale), posto a raffronto con la attribuzione del potere fiduciario alla sola camera dei deputati.
Non vi è dubbio che il ruolo del senato risulti rafforzato quanto alla funzione legislativa, indipendentemente da ogni considerazione sulle materie rimesse a tale competenza (in ogni caso assai rilevanti), poiché esso è liberato da ogni vincolo derivante dal soppresso rapporto fiduciario con il governo. Ciò implicherà, se la riforma sarà definitivamente approvata, non poche conseguenze sull’attuazione legislativa dell’indirizzo politico, nonché ed a maggior ragione del programma di governo: ma le relative considerazioni appartengono ad altro tema, qui non esaminato, che è appunto quello della forma di governo.
Nel caso della competenza legislativa prevalente del senato si apre pertanto un varco ad una normazione primaria, il cui procedimento formativo è privato di una importante clausola di unità e coerenza interna che è costituita dal vincolo fiduciario e dai mezzi che il governo può porre in campo nell’avvalersene.
Il governo può, peraltro, ricorrere al mezzo straordinario offerto dalla disposizione dell’articolo 14, comma 4, del testo di riforma, che si è precedentemente illustrato. Ma si tratta appunto di un mezzo straordinario, sottoposto a regole procedimentali non semplici, tale quindi da apparire non adeguato alla necessità che viene alla luce del rispetto di quei valori della unità e della coerenza interna dell’ordinamento di cui si è appena fatta menzione: un ricorso frequente ad esso, per una reale o asserita tendenza del senato a non tener conto dei detti valori creerebbe una crisi istituzionale che appare, stando al testo della riforma, senza soluzione.
Nel caso della competenza legislativa delle camere ad esercizio collettivo, ancor più labile, sotto il profilo qui preso in esame, la mediazione esercitata dai presidenti delle due camere, che può aver luogo solo nella eventualità di testi diversi approvati da esse, non può esercitarsi se non assai indirettamente per il fine della tutela della unità e della coerenza interna: in sostanza risulta, su tale piano, inefficace.
Il maggior ruolo del senato appare, inoltre, destinato ad esplicarsi con particolare forza politica, qualora, verificandosi le condizioni per vicende relative a singole regioni, il rinnovo in carica dei senatori avvenga parzialmente (cfr. art.6, c.2, testo di riforma): ne deriva infatti un aggiornamento continuo della rappresentatività politica di questo ramo dele parlamento.

13. Per ciò che attiene il sistema delle fonti, e la relativa disciplina costituzionale sotto lo specifico profilo del principi di legalità, l’esame del testo di riforma, per quanto sommario e condotto in una prima lettura, offre seri motivi di giudizio critico negativo.
Al centro di ciò si collocano la posizione della legge nel sistema stesso, e il rapporto tra le attribuzioni degli organi della rappresentanza e la formazione della legge.
La riforma conserva il criterio della materia come dato essenziale scriminante il riparto delle competenze tra Stato e regione. Non solo, ma, a parte i riflessi sul procedimento legislativo e quindi sulla differenziazione delle relative attribuzioni tra camera e senato, gli inconvenienti da tempo lamentati insiti nella applicazione di tale criterio prevedibilmente aumenteranno, tenuto conto del forte slargamento delle competenze devolute alle regioni, nonché delle delicate questioni che sono comprese nella competenza del parlamento ad esercizio collettivo.
Altri argomenti possono addursi a sostegno della considerazione enunciata. Ne deriva la prospettiva di uno stato di incertezza difficilmente superabile dalla attività di controllo della corte costituzionale, ed in definitiva rimesso, a quei rimedi puntuali ma di dubbia validità generale che potranno sortire dal ricorso alle intese tra i presidenti delle due camere.
Il quadro che si delinea è dunque segnato dalla precarietà dei limiti reciproci di poteri e competenze tra gli organi della rappresentanza nell’esercizio del potere legislativo, che è dato generalmente propizio alla maggior lentezza, se non alla paralisi, della funzionalità del legislatore parlamentare. In più, e tenuto conto di ciò che può in concreto contrassegnare l’attuazione del rinnovato ordinamento, qualora manchi la intesa tra i due presidenti delle camere, anche in conseguenza della loro eventuale diversa derivazione politica, tra maggioranza ed opposizione, questi inconvenienti possono accentuarsi, mentre può al contrario avvenire che tornino quelle pratiche cd consociative, innestate tuttavia in un regime esplicitamente conformato al principio maggioritario.
Il governo, come si è osservato, dispone di poteri non secondari per ridurre alla conformità al proprio indirizzo ed alla esigenza di attuazione del programma gli orientamenti legislativi del parlamento che vi contrastino, fino al ricorso ad un mezzo, del tutto inusitato negli ordinamenti rappresentativi, di chiedere ed ottenere l’inversione del principio di prevalenza in favore della camera e a danno del senato: ciò tuttavia incontra i limiti che si sono ricordati, forzando i quali si potrebbero avere crisi molto gravi, e comunque costituisce un rafforzamento ultre vires delle attribuzioni dell’esecutivo (come è per le attribuzioni del governo stesso sulla programmazione dei lavori parlamentari e sullo speciale procedimento che si instaura in conseguenza di tale intervento).
E’ tuttavia possibile che si verifichi altro trend, convergente verso questo esito e non meno significativo. Se si tiene conto infatti dello svolgimento pratico delle istituzioni dell’indirizzo, e degli orientamenti subito emersi e via via costantemente affermatisi fin dalla riforma elettorale maggioritaria a costituzione invariata, inalterati al variare delle formule politiche, si deve ragionevolmente prevedere che sarà fortemente incoraggiata la spinta alla retrocessione della fonte primaria, sostituita dalle altre fonti, e da pseudofonti. Si tratta di un ben noto trend, solitamente argomentato sulle cd lentezze del procedimento legislativo parlamentare, che però sul piano della logica giuridica è solo uno scoperto pretesto, ed anche emulativo, poiché tra le cause primarie di tali lentezze sono i comportamenti del governo e le vicende delle maggioranze.

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