“Questa o quella per me pari sono…”. Disinvoltura e irrequietezza nella legislazione italiana sulle fonti del diritto*.


SOMMARIO: 1. Anomalie dell’ultimo ventennio e carenze del quadro costituzionale di riferimento. 2. Le strettoie del “numero chiuso” delle fonti e le crescenti necessità della ricerca del consenso politico. 3. L’insostenibile leggerezza della legge n. 400/88 e le sue conseguenze. 4. Riserva normativa dell’Esecutivo e forma di governo. 5. L’ansia del risultato e l’indifferenza per le forme. La “scala mobile” delle competenze. 6. La separazione dei poteri e la ragionevole distribuzione delle funzioni. 7. Aspettando, tanto per cambiare, l’intervento dei giudici (costituzionali e comuni).

1. Anomalie dell’ultimo ventennio e carenze del quadro costituzionale di riferimento. Quasi vent’anni addietro mi capitò di dire che l’edificio neoclassico dell’ordinamento giuridico ereditato dall’illuminismo, fondato sulla legge, si era trasformato in una costruzione barocca stracarica di figure non tutte inserite in modo armonioso 1). Se volessimo oggi rimanere in quella metafora, dovremmo far riferimento a quell’estremo limite del barocco rappresentato da Villa Palagonia di Bagheria, con i suoi famosi “mostri”, a proposito della quale Goethe, inorridito, usò l’espressione “parossismo palagoniano”. Di “parossismo normativo” forse dovremmo parlare con riferimento alle continue, sempre mutevoli e disordinate manipolazioni del sistema delle fonti del diritto operate da Parlamento e Governo negli ultimi due decenni.
S’è partiti dall’esigenza di sfoltire l’immensa foresta delle leggi italiane, la maggior parte delle quali di carattere micro-settoriale, lontane da quella generalità e quell’astrattezza ritenute indispensabili dalla dottrina protoliberale dello Stato di diritto. Sin dall’inizio vi era stato il chiaro avvertimento che l’ipertrofia della produzione legislativa non imponeva tanto di procedere ad una nuova ripartizione del potere normativo tra Parlamento e Governo, quanto invece di “metter in primo luogo ordine nel sistema”2). L’opera di riordino sarebbe dovuta partire in ogni caso dal riconoscimento della centralità della legge, derivante più che dalla sua efficacia, ormai non più suprema, dalla sua posizione centrale nel sistema delle fonti, dal suo essere, nonostante la sua “crisi” crescente, “atto normativo che, pur essendo normalmente opera della sola maggioranza parlamentare che sostiene il governo (…), è però qualificato dalla circostanza di essere adottato attraverso un costante confronto con l’opposizione ed attraverso un procedimento dotato di alte garanzie di pubblicità (…)”3).
L’esperienza successiva ha dimostrato quanto il rispetto del ruolo della legge come cardine del sistema delle fonti si sia ridotto a vuoto ossequio formale da parte di una classe politica composta in larga parte di persone che, nei confronti della Costituzione, hanno assunto l’atteggiamento di quei “credenti non praticanti” pronti a proclamare la propria religiosità, salvo a violare in modo disinvolto ogni precetto scomodo.
I giuristi, ed in specie i costituzionalisti, sono stati visti per lo più come noiosi predicatori, vecchi parrucconi passatisti, incapaci di cogliere le nuove esigenze e di comprendere nuovi strumenti e nuove teorie. Gli stessi giovani studiosi che in questi anni, con pazienza certosina e acume analitico, hanno smontato pezzo a pezzo i giocattoloni normativi sfornati a getto continuo da Governo e Parlamento – mettendo in rilievo contraddizioni, sciatterie e incostituzionalità – sono stati relegati tra le minoranze fanatiche o, al massimo, guardati con comprensiva indulgenza per la loro necessità di fornirsi di titoli per partecipare ai concorsi universitari. Il dibattito scientifico sulle fonti è rimasto confinato, più di tanti altri, in cerchie ristrette di specialisti ai quali, tutto sommato, si può perdonare un tenace ed innocuo attaccamento alle regole della propria arte.
Perché è accaduto tutto questo?
Bisogna guardarsi dalle spiegazioni semplicistiche basate su generiche condanne della realtà. Ciò che avviene ha sempre una matrice concreta che deve essere investigata, non solo per non essere messi da parte come sterili laudatores temporis acti (il che potrebbe essere solo un problema soggettivo dei giuristi), ma per cogliere nelle stesse anomalie succedutesi le spie di difficoltà serie, non tutte dovute a insipienza e superficialità, ma originate, in misura non marginale, dall’insufficienza del quadro costituzionale di riferimento. Ciò non significa indulgere al giustificazionismo “realistico”, giacché non tocca al giurista farsi carico delle difficoltà politiche, rinnegando i principi del diritto, ma per tentare di individuare vie d’uscita in un groviglio di questioni che sembra inestricabile.

2. Le strettoie del “numero chiuso” delle fonti e le crescenti necessità della ricerca del consenso politico
È stato abbondantemente rilevato e dimostrato in sede di sociologia politica e delle istituzioni che il consociativismo dei decenni successivi alla fine della guerra fredda ed anteriori alla crisi della fine degli anni ’80 è stato l’inevitabile portato di un “bipartitismo imperfetto”, che non consentiva la normale alternanza dei partiti e degli schieramenti politici e bloccava la democrazia ad un fissità di maggioranza e opposizione apparentemente senza fine. Con il passare degli anni, il pluralismo e la complessità di una società in rapido sviluppo economico e sociale imponevano sia ai partiti di governo che a quelli di opposizione di trovare nelle istituzioni intese opportune, per dare “risposte” alle variegate richieste di tutela di gruppi portatori di interessi diversi e contrastanti, ma da comporre necessariamente, allo scopo di evitare l’aumento eccessivo della pressione su un sistema politico incapace di radicali alternative di potere.
S’è creato così l’humus più favorevole alla crescita smisurata della legislazione settoriale, che ha determinato la perdita di generalità ed astrattezza della legge in una misura ben più rilevante in Italia di quanto è apparso connaturato a tutte le democrazie moderne ispirate dai principi dello Stato sociale. Il procedimento legislativo decentrato per commissioni è apparso per lungo tempo la sede ideale per una legislazione “trilaterale”, contrattata tra Governo, maggioranza parlamentare e opposizione/i. Molte delle richieste di tutela erano – e lo sono tuttora – in tutto o in parte, “trasversali”, nel senso che trova(va)no udienza sia in settori della maggioranza che in settori dell’opposizione e spesso genera(va)no divisioni all’interno della stessa compagine governativa.
Niente di scandaloso in tutto questo. Un sistema democratico deve usare al massimo i propri strumenti di integrazione. Il compromesso tra gruppi avversi, come insegnava Kelsen, fa parte del normale funzionamento di una repubblica parlamentare.
Purtroppo i Padri costituenti, pur lungimiranti in molti campi, non seppero immaginare un sistema delle fonti del diritto diverso da quello liberale classico e si accontentarono di riaffermare la supremazia della legge, ritenendo che l’articolo 1 delle preleggi, depurato dal riferimento alle norme corporative, fosse ancora una base esplicativa sufficiente. Né vi furono tentativi di rafforzamento della funzione normativa dell’Esecutivo dopo l’entrata in vigore della Costituzione, giacché la c.d. amministrativizzazione della legge appariva conveniente alla maggioranza governativa, che diluiva in tal modo la propria responsabilità, ed all’opposizione, che non era costretta così a limitarsi a promettere il sol dell’avvenire, ma poteva ottenere qualche risultato utile per le forze sociali rappresentate in Parlamento.
Il grosso problema che bisognava risolvere era quello dei tempi, che tendevano ad allungarsi eccessivamente, a causa del lavorio precedente agli accordi parlamentari. Il procedimento legislativo per commissioni, pur maggiormente maneggevole, rischiava troppe volte di incepparsi nelle nebbie delle contrattazioni riservate, dei “comitati ristretti” e faceva pagare prezzi molto alti in termini di aspettative a lungo insoddisfatte. Il ricorso al decreto-legge apparve più funzionale alla bisogna, giacché consentiva al Governo di dare risposte immediate alle richieste di tutela, salva sempre la possibilità di rimaneggiare la normativa in sede di conversione all’insegna di quella “cultura dell’emendamento” allora imperante ed oggi non del tutto scomparsa. I regolamenti parlamentari del 1971 si posero, in questa evoluzione, come “la consacrazione della consociazione”4) e ressero l’urto delle crescenti e sempre più frammentate domande sociali sino alla metà degli anni ’80.
Sia nel normale procedimento di formazione della legge (specie in quello decentrato) che in quello di conversione dei decreti-legge lo schema era quello della convergenza trilaterale di Governo, maggioranza e opposizione.
Non entro nel merito della vicenda dei decreti-legge, ufficialmente da tutti deprecati, e tuttavia ampiamente praticati e tollerati, sino alla storica sentenza n. 360 del 1996, che intervenne a stroncare un fenomeno, quello della reiterazione, diventato imponente dopo il venir meno della convenzione consociativa parlamentare e la conseguente maggior difficoltà del Governo di arrivare alla conversione nel termine costituzionale dei sessanta giorni. Mi interessa invece sottolineare che, lungo tutto il processo istituzionale sommariamente richiamato, su questo come su altri versanti, Governo e Parlamento hanno fatto uso degli strumenti normativi esistenti, distorcendoli a fini diversi da quelli storicamente pensati per essi, senza tuttavia plateali violazioni. In particolare, non venne apertamente messo in discussione il principio, formulato dalla migliore dottrina, del carattere “chiuso” del sistema legale delle fonti primarie in un ordinamento a costituzione rigida, per cui la legge ordinaria non può validamente istituire, senza idonea copertura costituzionale, fonti “concorrenziali” rispetto a sé medesima, cioè dotate della stessa forza5).
Recenti tentativi di far dipendere la forza dell’atto normativo dal suo contenuto (più o meno generale) sono inconsistenti sul piano teorico e destinati a naufragare su quello pratico6). Il numerus clausus delle fonti primarie non è legato ad una particolare forma di governo, ma obbedisce al principio di legalità nella sua più corretta configurazione e rappresenta, nello stesso tempo, il principale argine contro il caos delle fonti. Superato questo limite, tutto è possibile e bisogna abituarsi a vedere in giro per l’ordinamento “ibridi” e “chimere” ben più reali di quelli agitati come spauracchi dai sostenitori della vigente legge sulla procreazione medicalmente assistita. Basti pensare, ad esempio, ai testi unici “misti”, strani ircocervi normativi introdotti con la legge n. 50/99 (legge di semplificazione 1998) e opportunamente abbandonati con la legge n. 229/03 (legge di semplificazione 2001) in favore di “codici” composti interamente da norme primarie.
Aver sottovalutato l’importanza di questo fondamentale principio ha lasciato ai margini la proposta, pur avanzata da una parte della dottrina, di introdurre nella Costituzione una disciplina organica del sistema delle fonti, ritenendosi più agevolmente praticabile la strada della legge ordinaria per ottenere il risultato di ricondurre la legge del Parlamento nel suo alveo naturale e, nello stesso tempo, riordinare e semplificare la normativa vigente nei diversi settori. Mai previsione fu più fallace!

3. L’insostenibile leggerezza della legge n. 400/88 e le sue conseguenze
Con tempestività la dottrina fece notare che il modello di delegificazione delineato nell’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988 era suscettibile di essere modificato poiché tale legge ordinaria non possedeva la forza di vincolare il legislatore futuro7). I fatti hanno ampiamente confermato l’inadeguatezza del mezzo scelto per introdurre un meccanismo certo e stabile di delegificazione, realizzabile invece solo con legge costituzionale. Le deroghe si sono accavallate, a seconda delle opportunità contingenti, in base ad un curioso metodo, che consiste nel modulare la fonte di produzione sui desiderati effetti sostanziali delle norme da produrre.
Sarebbe lungo e inutile elencare in questa sede i discostamenti, lievi e vistosi, che si sono succeduti negli ultimi due decenni. Del resto, la più attenta dottrina li ha puntualmente messi in rilievo. Mi limiterò a qualche esempio che mi sembra significativo.
Primo esempio. Con legge n. 59 del 1997 è stato inserito il comma 4 bis nell’art. 17 della citata legge 400/88, nel quale è stabilito in via generale che l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri sono determinate da regolamenti di delegificazione, “con i contenuti e l’osservanza dei criteri che seguono…”.
L’attribuzione di competenza è organica e stabile nel tempo ed i contenuti e criteri da osservare quanto mai generici e scontati (sembra di leggere le nozioni elementari di un manuale di scienza dell’amministrazione). Manca del tutto l’indicazione delle norme legislative da abrogare, la cui individuazione, in questo come in tanti altri casi, è lasciata agli stessi regolamenti “autorizzati”. A tutto concedere, siamo in presenza di un “nuovo tipo di regolamento, dotato di caratteristiche intermedie fra quelle proprie dei regolamenti delegati (…) e quelle proprie dei decreti legislativi”8).
Senza indulgere ad indagini psicologiche, l’intenzione del legislatore, obiettivata nella norma citata, era quella di creare una “riserva di regolamento”9), vale a dire una limitazione alla potestà normativa primaria nel settore dell’organizzazione ministeriale. Che ci sia riuscito solo in parte dipende dal velleitarismo di una pretesa razionalizzatrice non fondata su solide basi giuridiche.
Secondo esempio. L’art. 20 della stessa legge ha stabilito che, con cadenza annuale, il Governo dovrà presentare alle Camere un disegno di legge per la delegificazione e la semplificazione dei procedimenti amministrativi, da attuarsi con regolamenti emanati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il ministro competente, previa acquisizione del parere delle competenti Commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato. I regolamenti de quibus dovranno ispirarsi ad alcuni “criteri e principi”.
Salta agli occhi la somiglianza di questo schema procedimentale con quello della delega legislativa prevista dall’art. 76 Cost., così come integrato dalla prassi ormai costante del limite “ulteriore” del parere obbligatorio delle Commissioni parlamentari.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma mi limito a questi due, che mi danno modo di svolgere alcune brevi considerazioni.

4. Riserva normativa dell’Esecutivo e forma di governo È ormai risalente nel tempo il dibattito sull’ammissibilità di una riserva dell’Esecutivo, desumibile dai principi generali della Costituzione e riferibile in particolare agli artt. 95 e 97. Basti sottolineare, ai fini che qui interessano, che anche il più deciso ed autorevole sostenitore dell’esistenza di una “riserva di indirizzo” del Governo in materia di organizzazione avvertiva in anni ormai lontani che, posta la difficoltà di delimitare con chiarezza dove finisca la funzione direttiva del Parlamento e dove cominci quella del Governo, “il principio di preferenza della legge opera come regola di chiusura nei casi dubbi tutt’altro che infrequenti nella materia.”10) Anche a voler accogliere quindi l’interpretazione più lata della riserva di legge contenuta negli artt. 95 e 97 Cost., non è in alcun modo sostenibile un ribaltamento di forza normativa tra legge e regolamento, sottraendo alla legge la sua forza gerarchica superiore, che poi in concreto significa il potere del Parlamento di aumentare o restringere la sfera della normazione secondaria. Si può discutere se possa esistere, a termini di Costituzione vigente, un “nucleo minimo” di attribuzioni di indirizzo organizzativo del potere esecutivo. Ciò che appare tuttavia indiscutibile è la potestà del Parlamento di legiferare in materia di organizzazione amministrativa, tracciando i confini tra le due sfere (direzione politica del Parlamento e direzione politico-amministrativa del Governo) nella relatività delle diverse situazioni storiche.
Pensare di poter “blindare” i regolamenti di delegificazione (come nell’esempio fatto ed in tanti altri) con vari espedienti verbali e procedurali equivale negare la preminenza della legge del Parlamento, senza passare per la modifica della forma di governo costituzionalmente stabilita. Ogni sistema di fonti del diritto è legato ad una forma di Stato e di governo, anche se non si può stabilire una corrispondenza precisa e totalizzante, ma bisogna procedere per convergenze di principi. Negli ordinamenti contemporanei sembra non da oggi consolidarsi “l’impiego di tecniche di formazione delle deliberazioni collettive diverse da quelle esclusivamente fondate sull’utilizzazione del principio maggioritario”11). Ciò implica non soltanto la valorizzazione, nel quadro costituzionale del governo della legge, di fonti giurisprudenziali, di autonomia etc., ma anche la preferenza per tutti quei procedimenti di formazione nei quali la dialettica tra maggioranza e minoranze, tra interessi ed opinioni diversi, può esplicarsi nella massima misura possibile.
Lo spostamento dell’asse normativo verso il Governo, ancorché “bilanciato” da funzioni consultive attribuite alle Commissioni parlamentari, implica un restringimento delle opportunità di incidenza dell’opposizione nel procedimento formativo della fonte. Qualora paradossalmente si dovesse ritenere, sulla base di dati concreti, che la partecipazione dell’opposizione al processo normativo fosse rimasta invariata o addirittura fosse aumentata, il rilievo diventerebbe ancor più negativo, giacché un ordinamento democratico e pluralista non implica una pura condivisione di potere, ma la formazione di “compromessi” (nel senso kelseniano) in regime di pubblicità e trasparenza, con la possibilità del massimo di controllo dell’opinione pubblico. Tutte circostanze che non ricorrono nelle sedi consultive che tendono ad evitare in buona parte le sedi formali di confronto nell’iter formativo della deliberazione legislativa. Si delinea e si consolida una “tendenza alla progressiva attenuazione della separazione di funzioni fra i poteri, che, sotto l’apparenza positiva di una forma avanzata di collaborazione, forse non rappresenta che un ulteriore modo di sfuggire, con l’indistinzione dei ruoli, all’assunzione chiara di responsabilità.”12)
Per realizzare un massiccio spostamento di potere (non solo normativo, ma complessivamente politico) dal Legislativo all’Esecutivo è indispensabile che vi sia una “sostanziale abdicazione delle metanorme (costituzionali e non) al compito loro proprio di dare un ‘ordine’ ai processi di produzione giuridica.” 13)La rottura del numero chiuso, con la sostanziale equiparazione del regolamento alla legge si converte nella “detronizzazione” della Costituzione, non più suprema norma di riparto delle funzioni tra i poteri dello Stato, ma puro documento in cui vengono indicate, in modo non tassativo, alcune fonti. Il regolamento viene progressivamente rafforzato, tentandosi di rendere digeribile il processo mediante il suo… travestimento da decreto legislativo. Si adoperano infatti espressioni apparentemente equivalenti, dimenticando talvolta che “le parole sono pietre” (per dirla con Carlo Levi). Mentre l’originaria dizione (ancora formalmente in vigore…) del secondo comma dell’art. 17 l. 400/88 prescriveva che la legge delegificante contenesse “le norme generali regolatrici della materia”, la legge n. 59/97 (e tutte le successive modificazioni e diramazioni) prevedono “principi e criteri direttivi” o addirittura soltanto “criteri”, con ciò avvicinando il modello della delegificazione a quello della delega legislativa. Ma il divario non è puramente terminologico, giacché “la differenza tra la predisposizione delle norme generali regolatrici della materia e l’indicazione di principi e criteri direttivi si percepisce sol che si rifletta che la prima realizza già una disciplina, ancorché parziale, della materia, mentre la seconda attiene ai rapporti interistituzionali tra Parlamento e Governo, circoscrivendo e delimitando il potere normativo del secondo”14).
Singole leggi, frutto di specifiche maggioranze parlamentari, tentano di trasvalutare il proprio stesso status costituzionale, attribuendo a se stesse una forza maggiore di quella che possiedono in base ai criteri ordinatori delle fonti desumibili dal sistema costituzionale. I diversi espedienti per prevenire le “ri-legificazioni” non sono altro – come è stato esplicitamente riconosciuto anche da chi guarda con una certa benevolenza a questa tendenza – che il conferimento, da parte della legge sulla delegificazione, di una maggiore capacità di resistenza alle norme di delegificazione, una protezione verso future leggi particolari che vogliano (come è spesso accaduto) intervenire nuovamente e disordinatamente nella materia delegificata15).
Purtroppo la razionalità non può essere perseguita con metodi irrazionali. Questo autentico “processo di autosvuotamento della funzione legislativa” 16)incorre inesorabilmente nel vizio logico di autoreferenzialità. Come il barone di Münchhausen pretendeva di sollevarsi in alto facendo forza su se stesso, allo stesso modo la legge ordinaria tenta di attribuirsi più forza di quanta ne possieda. Sul piano logico-giuridico si verifica una contraddizione, su quello della forma di governo si apre una prospettiva confusa di co-gestione indifferenziata del potere normativo tra Parlamento e Governo, con fasi ed intensità diverse a seconda delle contingenze politiche.
Questa commistione continua rifluisce inevitabilmente sul tasso di democraticità dell’ordinamento costituzionale italiano. Se non si aderisce ad una concezione plebiscitaria della democrazia, si deve riconoscere che la ripartizione pre-definita delle competenze tra gli organi costituzionali è condizione indispensabile perché si affermino la responsabilità di ciascuno di essi, l’equilibrio dei poteri e il necessario reciproco controllo. Tende a prevalere invece una sorta di formazione in progress della volontà normativa, risultato delle continua e reciproca sovrapposizione di Governo e Parlamento.
Giustamente è stato sottolineato che i richiami, in chiave giustificativa, all’esperienza francese non sono pertinenti, poiché la definizione a livello costituzionale della sfera della legge e di quella del regolamento ha introdotto chiarezza in quel sistema, nel quale peraltro si è verificato nei decenni successivi alla Costituzione della V Repubblica un recupero della sfera parlamentare17), come dimostrano non soltanto l’ampliamento delle materie previste dall’art. 34 della Costituzione in ragione di altre norme costituzionali, ma anche la fondamentale decisione del Conseil Constitutionnel (30 luglio 1982 n. 82-143 D.C.) che ha negato l’illegittimità costituzionale di una legge disciplinatrice di materia “riservata” al regolamento. Con riferimento a tale sentenza, è stato autorevolmente osservato che « si la loi peut intervenir en toute matière (…), cela réduit à néant la théorie du domaine réservé du règlement – déjà bien chancelante. »18).
La vicenda francese dimostra che la superiorità della legge del Parlamento rispetto al regolamento governativo e la non praticabilità della limitazione materiale del potere legislativo è questione che va ben al di là della forma di governo, per investire in modo significativo la democraticità dell’ordinamento costituzionale. Del resto, lo schema francese della ripartizione materiale della funzione normativa tra Parlamento e Governo non è stato recepito neppure nelle costituzioni che si sono più direttamente ispirate alla forma di governo della V Repubblica19). Quando un sistema possiede in sé un forte tasso di democraticità, anche le stesse norme costituzionali in astratto suscettibili di interpretazioni riduttive dei poteri del Parlamento vengono intese e sistematizzate nel quadro dei principi democratici, che privilegiano, in ultima istanza, la rappresentanza politica sull’amministrazione, anche quando al vertice dell’Esecutivo vi sia un soggetto eletto direttamente dal popolo. Anzi forse a maggior ragione, giacché nel Parlamento è possibile una dialettica maggioranza-minoranze molto più intensa ed effettiva di qualsiasi procedura “partecipazionista” nell’ambito del potere esecutivo, che, proprio per il carattere elettivo del suo vertice, potrebbe aspirare a scuotere la supremazia normativa del Parlamento, riparandosi sotto l’ombrello della negoziazione sociale delle norme.
Il metodo della concertazione sociale delle scelte politiche, anche di quelle destinate a tradursi in atti normativi, è indubbiamente più adeguato ad una democrazia pluralista della vecchia idea protoliberale della rappresentanza politica pura, intesa come rappresentanza di interessi generali, che poi erano quelli delle classi dominanti. La normazione contemporanea è in gran parte normazione di tutela di interessi di gruppi sociali determinati, anche se non mancano i temi di interesse assolutamente generale (giustizia, sanità, trasporti etc.), che purtroppo talvolta vengono trattati più sotto l’angolatura delle singole corporazioni di riferimento che dal punto di vista dell’intera collettività. La partecipazione di sindacati, associazioni imprenditoriali, gruppi di interesse di vario genere al processo formativo delle norme dovrebbe assumere forme tali da aumentare il tasso di democraticità del sistema, non da diminuirlo. Quest’ultimo esito appare inevitabile se si ritiene di poter sostituire gli strumenti consultivi della partecipazione alla procedura dialettica della decisione
Sarebbe auspicabile quindi un riordino costituzionale delle fonti del diritto, purché la definizione degli ambiti rispettivi della legge e del regolamento sia fatto in maniera tale da evitare l’incontrollata amministrativizzazione della legge e si stabilisca in modo chiaro che in qualunque campo sarà consentito al Governo di emanare regolamenti solo nell’ambito delle leggi vigenti. Il meccanismo originario della legge n. 400/88 dell’abrogazione differita unita alla determinazione delle norme generali regolatrici della materia potrebbe essere perfezionato e costituzionalizzato, costringendo così la Consulta a valutare se le singole leggi di delegificazione o di semplificazione rispondano ai requisiti costituzionali, dichiarando illegittime leggi che contengono norme tanto generali da essere del tutto inconsistenti o che affidano ai regolamenti l’individuazione delle norme da abrogare. Una normazione costituzionale sul punto permetterebbe peraltro di “tipizzare” procedimenti formativi dei regolamenti, allo scopo di realizzare una proficua articolazione di competenze all’interno del genus unitario20). Il tentativo della Bicamerale D’Alema presentava forti ambiguità e non risolveva in modo chiaro la tensione tra supremazia della legge ed esigenza della delegificazione21). Ciò non significa che non ci si possa riprovare non tanto nella prospettiva di una “grande riforma” della Costituzione, quanto in quella, più modesta, di un perfezionamento ed ammodernamento del disegno costituzionale del potere normativo e della sua distribuzione tra Governo e Parlamento, oltre che, come è stato bene o male fatto, tra Stato e Regioni.
Mi rendo conto che nel momento attuale questa proposta può apparire controcorrente. Il d.d.l. di revisione costituzionale attualmente in discussione in Parlamento non solo ignora il problema del riordino e della razionalizzazione del sistema delle fonti del diritto, ma introduce da una parte un’enorme complicazione dovuta alla frantumazione dei procedimenti legislativi e irrigidisce in senso autoritario la forma di governo dall’altra. Ridare maggiori poteri al Parlamento, pur procedendo sulla giusta strada della delegificazione è proposta troppo ragionevole per essere presa in considerazione dagli odierni riformatori “epocali”. Forse val la pena di farla lo stesso, a futura memoria.

5. L’ansia del risultato e l’indifferenza per le forme. La “scala mobile” delle competenze
Il legame tra l’assetto concreto del sistema delle fonti e la forma di governo “materiale” non sarebbe sufficientemente delucidato, se non si mettesse in rilievo che, pur nella diversità degli schieramenti politici di maggioranza, uno dei grandi problemi irrisolti resta l’eterogeneità delle coalizioni di governo, che si riflette sia nei lavori parlamentari che nella stessa predisposizione degli atti normativi dell’esecutivo. Esiste oggi una “impotenza” programmatica ed attuativa molto grave, dovuta probabilmente al venir meno di sicuri punti di riferimento culturali sia a destra, che al centro che a sinistra. Sembra che assieme alle ideologie siano state bandite anche le idee. Questo desolante deserto di valori produce due effetti parimenti micidiali per il sistema costituzionale e per quello normativo in particolare. Da una parte l’indisciplina dei gruppi e dei singoli parlamentari aumenta in tutti i casi in cui non temono lo scioglimento anticipato delle Camere (e, nell’attuale legislatura, non temono di toccare il sancta sanctorum di alcuni interessi personali ed aziendali, la cui compromissione metterebbe in crisi la coalizione), dall’altro prevale una mentalità “praticistica”, che induce a guardare con distacco le differenze formali tra atti e procedimenti.
La sfiducia – talora manifestata, talora dissimulata – verso i propri alleati e verso gli stessi amici o compagni di partito induce a “cogliere l’attimo fuggente”, per far passare una normativa ritenuta, a ragione o a torto, utile e necessaria. Ciascun soggetto tenta, anche con le migliori intenzioni, di sfruttare al massimo la posizione in cui si trova, allo scopo di arrivare per primo e più in fretta possibile a conseguire un risultato. L’intera riforma degli ordinamenti didattici universitari (questa sì epocale!) è stata fatta per decreto ministeriale (il celeberrimo D.M. n. 509/99), sulla base di norme legislative quasi evanescenti. Lo svuotamento della riserva di legge contenuta nell’art. 33 Cost. è stato clamoroso22).
Il procedimento di formazione dei regolamenti delegati, come già s’è detto, assomiglia a quello dei decreti legislativi, mentre non poche confusioni nascono sulla forza attiva dell’uno e dell’altro, talché non appare esagerato parlare di “fungibilità” degli atti normativi del Governo23). A poco sono valse plurime riforme dei regolamenti delle Camere, volte a dare al Governo quella centralità nel processo legislativo e tempi certi per la discussione e l’approvazione delle sue proposte. Il rendimento dei nuovi strumenti regolamentari “decisionisti” (s’è parlato, con una certa enfasi, di “Parlamento decidente”) è stato condizionato dalla “tenuta” della maggioranza nelle aule parlamentari. Alla fine, s’è dovuto constatare che il Governo “è ‘padrone’ dell’ordine del giorno delle assemblee nella misura in cui è in grado di determinare le scelte della sua maggioranza” e che nella prassi si deve notare “il carattere episodico, spesso non legato a strategie programmatiche di lungo respiro delle prove di forza parlamentare del governo…”24).
Verrebbe la tentazione di parlare di “machiavellismo normativo” per la svalutazione della correttezza dei mezzi istituzionali in favore di fini sostanziali di regolazione che si ritengono vantaggiosi per gli interessi che si intendono tutelare o per un miglior funzionamento dell’apparato tecnico-amministrativo. Il Segretario fiorentino si riferiva però ai disegni strategici del Principe, che nell’attuale contesto storico e politico italiano sembrano mancare.
Da questa amara riflessione si può trarre tuttavia un auspicio positivo. La possibilità di realizzare un razionale, efficace e costituzionalmente corretto riordino del sistema delle fonti è legata alla capacità di recuperare un indirizzo politico unitario (quale che sia il giudizio che si possa dare sul merito dello stesso). Dopo molti anni di riforme, a Costituzione invariata e variata, di rielaborazioni e di esperimenti in corpore vili, un nuovo senso di responsabilità delle forze politiche potrebbe render possibile tracciare un disegno del sistema delle fonti dalle linee semplici, anche con una revisione specifica e mirata della Costituzione, volta ad introdurre quella disciplina organica da molti anni auspicata da una parte cospicua della dottrina. Anche in questo campo bisognerebbe guardarsi dall’idea fuorviante che l’escogitazione di regole ad hoc possa surrogare l’assenza di indirizzo politico del Governo e della maggioranza parlamentare. Si sono avvicendati strappi istituzionali, situazioni normative precarie, sforzi erculei di singoli ministri di buona volontà, ma nel complesso le demolizioni effettuate appaiono sproporzionate rispetto alle modeste costruzioni realizzate.
In sintesi, le regole di produzione del diritto devono essere valido strumento di concretizzazione normativa di qualsiasi politica. L’inversione logica cui abbiamo assistito è invece la ricerca di validi strumenti normativi per realizzare una data politica. Da qui i continui aggiustamenti, il trascorrere senza sosta da una fonte all’altra, a seconda delle contingenze, quell’incessante stop and go che fornisce molto materiale di commento ai giuristi, ma che, alla lunga, produce un logoramento irreversibile non solo nel sistema delle fonti in quanto tale, ma nello stesso modo di concepire il rapporto tra principi, regole e contenuti sostanziali, con un riverbero di questi ultimi sui primi due che, se generalizzato e consolidato, condurrebbe alla fine dello Stato di diritto.
Il plus-valore della politica sul diritto determina un moto incessante delle fonti, che sembrano salire su una scala mobile, per mezzo della quale il regolamento aspira a porsi sul livello del decreto legislativo, il decreto legislativo su quello della legge formale e quest’ultima sul livello della Costituzione. Questo movimento ascensionale porta la Costituzione ad andare così in alto…da scomparire tra le nuvole!

6. La separazione dei poteri e la ragionevole distribuzione delle funzioni
La scontata inapplicabilità dello schema originario di Montesquieu agli ordinamenti costituzionali contemporanei non esime da una riflessione sul rapporto Parlamento-Governo nel quadro costituzionale italiano vigente, alla luce di alcuni principi generali che sembrano essere propri di una democrazia pluralista.
La Costituzione ha previsto un’articolazione della funzione normativa tra gli organi costituzionali con una fisionomia definibile sulla base di una ricostruzione storica, oltre che logico-giuridica, successivamente completata ed arricchita dall’esperienza dell’ultimo sessantennio. La considerazione complessiva che si può fare sulla base del disegno costituzionale originario e dello sviluppo evolutivo susseguente è la diffusione della funzione normativa tra soggetti e organi diversi abilitati a porre in essere atti di differente forza ed efficacia nell’ordinamento, sia in assoluto che nei loro rapporti reciproci. Nei sistemi costituzionali moderni e contemporanei non è più sostenibile la primigenia corrispondenza, tipica dello Stato di diritto protoliberale, tra forma ed efficacia dell’atto normativo e natura delle norme contenute. Alla maggiore generalità di una prescrizione non corrisponde necessariamente la maggiore generalità o intensità dell’interesse tutelato. Ciò rende possibile che un atto formalmente legislativo contenga prescrizioni di limitata o nulla portata generale, ma ritenute dal Parlamento tanto essenziali all’interesse generale da meritare di rivestire la forma legislativa. Si tratta di un apprezzamento politico che può essere, caso per caso, condiviso o contestato, ma non ritenuto costituzionalmente illegittimo.
Che la legge debba tendenzialmente contenere prescrizioni a carattere generale può essere utile e necessario per il buon funzionamento delle istituzioni e il regolare svolgimento delle funzioni normative, ma non può essere regola assoluta, da cui trarre elementi per valutazioni di legittimità costituzionale. Per questo motivo appaiono inani e velleitarie tutte le costruzioni dottrinali che tendono a ricavare una maggiore o minore forza passiva degli atti legislativi dal grado di generalità delle loro prescrizioni. Avviare un processo di riqualificazione del sistema delle fonti su queste basi è come edificare sull’argilla e poi meravigliarsi se la casa crolla o perde stabilità in breve tempo. La dissociazione tra forma e sostanza è l’approdo irreversibile di un processo di democratizzazione delle decisioni politiche che si riflette sulla superiore forza delle fonti maggiormente legittimate sul piano della rappresentanza popolare. Anche per questo motivo la decisione politico-normativa è sempre e comunque prevalente rispetto a quella giudiziaria sul piano della creazione della regola, beninteso all’interno del quadro costituzionale.
Se questo è vero, è altrettanto vero che l’invadenza del Parlamento nella sfera dell’applicazione-attuazione del diritto non può che essere guardata con estrema prudenza, se non con sospetto, giacché è difficile immaginare interventi legislativi puntuali su casi singoli che non entrino in contrasto con i principi recati dal combinato disposto degli artt. 3 e 97 della Costituzione. La stessa potestà legislativa è assoggettata a limiti, poiché nell’ordinamento costituzionale italiano non esistono funzioni dai confini illimitati. La fondamentale distinzione tra il previo disporre in generale e il successivo provvedere in concreto costituisce ancor oggi una delle eredità più vitali dell’antico principio della separazione dei poteri, se si vuole conservare la natura di democrazia liberale al sistema costituzionale italiano, ben diverso da un regime di democrazia “assoluta”25).
Ai giorni nostri, la vecchia impostazione giacobina della democrazia assoluta (che finisce con l’essere totalitaria) sembra essere stata rispolverata in chiave conservatrice e non si esprime tanto nell’affermazione dell’onnipotenza delle assemblee elettive, quanto piuttosto nella rivendicazione di un “primato” della politica che, nel campo di cui ci occupiamo, si risolve nell’uso spregiudicato delle fonti, a seconda dei risultati contingenti cui si mira in un dato momento e nella giustificazione del dilagare della potestà normativa del Governo, che tende a porsi sullo stesso piano di quella legislativa del Parlamento e talvolta a superarla con operazioni di auto-rafforzamento della singola fonte, che altro non sono che tentativi di perpetuare nel tempo le volizioni delle transeunti maggioranze parlamentari.
Le vicende recenti della legislazione delegata sono un’ulteriore conferma della distorsione dei principi generali del sistema delle fonti del diritto in Italia. Si stenta a trovare il giusto mezzo tra deleghe troppo generiche, che equivalgono a veri e propri “mandati in bianco” al Governo, e deleghe eccessivamente dettagliate, che degradano la legislazione delegata a potestà regolamentare, con l’effetto perverso aggiuntivo della ri-legificazione di materie che si erano volute delegificare. La continua rincorsa tra deleghe legislative e delegificazione mostra una tendenza alla commistione, presente anche nella XIV legislatura26), che finisce per destabilizzare in permanenza il sistema delle fonti, senza peraltro raggiungere l’auspicato effetto di semplificazione, giacché ancor oggi il cittadino continua ad essere oppresso da una selva di disposizioni normative di diversa forza e di diverso livello, con dubbi effetti abrogativi reciproci, tale da alimentare incertezze e contenziosi.
Vengono prefigurate ed attuate vere e proprie “catene” normative rese possibili dall’abuso di formule standard, che consentono il puro e semplice transito di potere legislativo dal Parlamento al Governo, senza alcun vincolo sostanzialmente apprezzabile del primo sul secondo. Ad esempio, l’art. 20 della legge n. 59/97, nel testo introdotto con legge n. 229/03, prevede che il disegno di legge annuale per la semplificazione e il riassetto normativo ponga esso stesso criteri e principi direttivi di carattere generale ai futuri decreti legislativi che saranno emanati in base alle future deleghe. Queste ultime, a loro volta, dovranno contenere “principi e criteri direttivi specifici per le singole materie”. Sembra quasi che il legislatore di oggi non si fidi del legislatore del prossimo avvenire e tenda a legargli le mani con una normazione “per cerchi concentrici”, che determina l’anomalia suprema della delega legislativa a tempo indeterminato. Infatti il primo comma del suddetto articolo, nel prevedere che ogni anno venga approvata una legge di semplificazione, che dovrà contenere una serie di deleghe legislative, detta principi e criteri direttivi applicabili ai decreti legislativi che negli anni futuri saranno emanati in seguito alle leggi annuali di semplificazione. Si affiancano così una delega permanente a tempo indeterminato e deleghe annuali, con effetto cumulativo dei principi e criteri direttivi dettati in generale dalla legge n. 229/03 e di quelli che via via si succederanno negli anni.
Né l’anomalia viene attenuata dai contenuti di questi principi e criteri direttivi, che talvolta finiscono per essere mere tautologie. Proviamo a leggere unitariamente – ad esempio – il comma 3, comma 1, primo inciso, del citato art. 20 e la lettera c) del medesimo comma: “salvi i principi e criteri direttivi specifici per le singole materie, stabiliti con la legge annuale di semplificazione e riassetto normativo, l’esercizio delle deleghe si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi…lett. c) indicazione dei principi generali…”. In definitiva viene stabilito in generale che i futuri decreti legislativi oltre i principi e criteri direttivi fissati dalle leggi di semplificazione dovranno, a loro volta, contenere altri principi generali. Nell’un caso e nell’altro non è dato reperire indizi su quali possano essere tali principi generali, giacché il generico riferimento alla legge n. 241/90 in materia di informazione, partecipazione, contraddittorio, trasparenza e pubblicità dei procedimenti amministrativi ha solo un valore di richiamo della legislazione vigente. In parole semplici, si potrebbe dire che si prevede una delega legislativa che contiene il principio direttivo prescrivente che in futuro debbano essere osservati i principi generali della legislazione vigente. Assistiamo appunto al trionfo della tautologia.
Le cose non sembrano migliorare con il d.d.l. di semplificazione attualmente di corso di esame in Parlamento (A.S. 3186). Un solo esempio tra i tanti possibili. L’art. 2 prevede che il Governo è delegato ad adottare entro un anno uno più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di benefici a favore delle vittime del dovere, del servizio, del terrorismo, della criminalità organizzata e di ordigni bellici in tempo di pace. A parte la pessima tecnica legislativa, con effetti involontari di umorismo nero nascenti dall’inserimento in un unico elenco del “dovere”, del “servizio”, del “terrorismo” e della “criminalità organizzata” (era tanto difficile pensare che un agente di polizia ucciso da terroristi o da mafiosi è, per ciò stesso, vittima del dovere e del servizio?), rasentano il surreale i punti a), b), c) e d). Si tratta di una serie di ovvie banalità, prive di ogni capacità direttiva nei confronti del legislatore delegato. Intanto si prevede, tautologicamente (vedi sopra), che debba essere realizzato (lett. a)) “il riassetto, coordinamento e razionalizzazione” della legislazione vigente, la delegificazione, la semplificazione dei procedimenti amministrativi e del linguaggio normativo. Si prevede pure che (lett. b)) debbano essere definite, per ciascuna tipologia di vittime, i benefici applicabili, anche in relazione alla diversa matrice degli eventi lesivi. In una per me indimenticabile lezione al Seminario di studi e ricerche parlamentari di Firenze, nel lontano 1969, Alberto Predieri insegnava a noi giovani apprendisti come fare ad individuare nei piani economici le espressioni prive di contenuto, purtroppo abbondanti in documenti del genere. È sufficiente figurarsi l’espressione contraria: se il risultato è assurdo o ridicolo, allora siamo in presenza di una mera espressione retorica priva di contenuto. Tale risultato otteniamo, se pensiamo a principi e criteri direttivi che imponessero di scompigliare e complicare i procedimenti amministrativi ed il linguaggio normativo, di prevedere benefici unici per le vittime senza tener conto delle cause e delle tipologie. Appare evidente che invece di principi e criteri direttivi si inseriscono giudiziose manifestazioni di buona volontà, al massimo stanche ripetizioni di canoni di buon senso comune. I contenuti sono rigorosamente banditi. Non solo manca lo schizzo sommario del quadro, ma manca anche la cornice; viene indicato soltanto il muro dove in futuro il quadro dovrà essere appeso.

7. Aspettando, tanto per cambiare, l’intervento dei giudici (costituzionali e comuni)
De hoc satis. Forse è arrivato il momento per un deciso intervento della Corte costituzionale simile a quello che, nel 1996, stroncò la prassi della reiterazione dei decreti-legge e con essa tutte le contorsioni dottrinali mirate a giustificarla.
Alcuni principi-cardine del sistema costituzionale delle fonti potrebbero essere “imposti” al legislatore mediante la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli atti normativi con forza di legge che pretendono di esplicare più forza attiva e passiva di quanto ne possiedano. Regolamenti che pretendono di abrogare leggi con autorizzazioni “in bianco” da parte di leggi che non si preoccupano di indicare le norme legislative da abrogare, decreti legislativi “correttivi” e “integrativi” non coperti dalla originaria delegazione legislativa, principi e criteri direttivi generici e tautologici, limiti al futuro legislatore posti con legge ordinaria. Sono alcuni degli “orrori” che dovrebbero essere spazzati via dal controllo di costituzionalità delle leggi. Più sensibilità e coraggio dovrebbero dimostrare i giudici comuni, specie quelli amministrativi, nel valutare la legittimità di regolamenti in violazione di legge “coperti” in modo generico da leggi di delegificazione difformi dal modello della legge n. 400/88, l’unico, allo stato, compatibile con la Costituzione vigente.
Segnali nel senso giusto già si possono rilevare sia nella giurisprudenza costituzionale che in quella amministrativa27).
Nella sentenza n. 251 del 2001, ad esempio, la Corte costituzionale ha stabilito che, quando la legge di delega si limita ad abilitare il Governo a “rivedere e riordinare” la legislazione vigente in una data materia, senza null’altro specificare sul piano dei contenuti, tale delega “ha da essere intesa in senso minimale, che non consente di per sé, in mancanza di specifiche disposizioni abilitanti, l’adozione di norme che siano sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo preesistente.”28) Lo stesso orientamento esprime la Corte a proposito di “leggi formalmente di delega caratterizzate dall’assenza o vaghezza dei principi direttivi, le quali, nonostante il nomen e la formale attribuzione della ‘forza di legge’ ai relativi decreti, in realtà consentono al Governo soltanto il coordinamento di disposizioni preesistenti” (sent. n. 280 del 2004). Corretta appare quindi l’impostazione dottrinale che postula una “inversione proporzionale tra legge di delega e decreto legislativo”, con la conseguenza di dover considerare “tanto più ridotto il margine di manovra di cui dispone l’organo delegato, quanto più laconica e inespressiva è (…) la fonte delegante.”29).
Una posizione rigorosamente coerente della Corte su questa linea di ragionamento dovrebbe portare ad un sindacato “stretto” sull’eccesso di delega. Ogni controllo verrebbe vanificato, se i poteri del legislatore delegato aumentassero in proporzione diretta alla genericità e vaghezza della delega. Non si tratta di inventare cose nuove e inusitate, ma di applicare puramente e semplicemente l’art. 76 della Cost., in base al quale l’esercizio della potestà legislativa delegata si deve mantenere nell’alveo della legge di delegazione, con la conseguenza che ogni modifica, ampia o ristretta, della legislazione precedente deve passare attraverso il varco aperto da tale atto legislativo. Ulteriore conseguenza di questo ragionamento è che l’estrema genericità della delega finisce con il privare i decreti legislativi conseguenti della forza attiva della legge – come esplicitamente riconosce la Corte nella citata sentenza 280/04 – giacché l’apertura di un varco non può coincidere con l’annullamento del confine divisorio. Sarebbe comunque necessario l’intervento della Corte costituzionale, cui rimane il compito di accertare la violazione dell’art. 76, a seconda dei casi, da parte del decreto legislativo o della legge di delega o di entrambi: il primo per aver modificato la legislazione preesistente senza adeguata copertura da parte del legislatore delegante, la seconda per aver predisposto ultra vires una copertura tanto ampia da configurare una sorta di “mandato generale a legiferare” in una data materia, incompatibile con la Costituzione vigente.
Sulla stessa linea logica si dovrebbero collocare i giudici comuni (amministrativi in particolare) che potrebbero benissimo annullare (o dichiarare nulli, secondo una convincente precisazione concettuale30)) quei regolamenti che risultassero in contrasto con una legge preesistente, anche in presenza di una generica disposizione legislativa “delegificante”, quando non sia dalla stessa legge individuata la disposizione da abrogare e non vengano determinate le norme generali regolatrici della materia. Pur non avendo rango costituzionale, il secondo comma dell’art. 17 della legge n. 400/88 va ritenuto, a mio modesto avviso, la condizione minimale indispensabile perché non vengano concessi ai regolamenti “delegati” (o “autorizzati” o come altro si voglia dire) uno spazio ed una forza maggiori di quelli accordati agli stessi decreti legislativi.
In questo, come in tanti altri casi, siamo costretti ad attendere la “supplenza” giudiziaria, che ponga rimedio a guasti non riparati dal Parlamento o da esso addirittura provocati. Sinora è prevalsa una disinvoltura nell’uso degli strumenti legislativi predisposti dalla Costituzione che ricorda la spensierata leggerezza del Duca di Mantova di verdiana memoria.

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