Spunti internazionalistici di riflessione sul Trattato “costituzionale” e sulla natura dell’Unione europea*


Premessa.
Credo che qualsiasi discorso sensato di valutazione generale sul Trattato firmato a Roma il 29 ottobre 2004 non possa prescindere da una precisa consapevolezza: questo Trattato c.d. costituzionale, coi suoi complessi lavori preparatori, non è arrivato dal nulla, né è intervenuto nel nulla, e neppure dal poco e nel poco. Esso rappresenta una tappa – più o meno importante, questo è da vedere – di un cammino cominciato 50 anni fa; cammino che ha dato vita a forme di cooperazione interstatale e di integrazione istituzionale ed economico-sociale in gran parte originali; così come tratti fortemente originali ha il quadro giuridico che fa da cornice e al contempo da strumento regolatore di tali forme: il diritto comunitario, o piuttosto – ormai – il diritto dell’Unione europea.
Se si prescinde da questa consapevolezza si rischia evidentemente di sottoporre il Trattato stesso, inteso nella sua natura e nei suoi contenuti, ad un’analisi decontestualizzata, effettuata con lenti deformanti, che ne impediscono di cogliere a pieno non solo gli aspetti relativi alla natura giuridica ma anche il significato politico concreto.
Questa consapevolezza determina in me una convinzione: che l’approccio più utile per una valutazione critica realistica del Trattato “costituzionale” sia tentare di esaminare se e in qual misura tale Trattato porti un progresso o modifiche sensibili nel peculiare processo giuridico e politico-istituzionale cominciato cinquant’anni fa1. E che meno utile sia invece chiedersi se tale Trattato (con ciò che contiene) risponda – e, se sì, in qual senso e misura – a concetti e nozioni mutuati da esperienze politico-giuridiche profondamente diverse, quali ad esempio i concetti di “costituzione” o di “Stato federale”2. Ciò anche se la terminologia – a mio sommesso avviso inadeguata ed infelice – che si è prescelta per dare un titolo al Trattato di Roma e alla normativa in esso contenuta chiama effettivamente in causa tali concetti e nozioni. Anzi, ci sarebbe da chiedersi: se il nuovo Trattato di Roma si fosse chiamato, in modo più minimalista ma corrispondente alla realtà, “Trattato che apporta modifiche al Trattato sull’Unione europea”, o anche – un po’ più ambiziosamente, ma in modo ancora accettabile – “Trattato che istituisce l’Unione europea”, esso avrebbe mai suscitato altrettante critiche ed interesse, discutibili entusiasmi, timori ingiustificati e “ambizioni frustrate”3, non solo nell’opinione pubblica e nel dibattito politico, ma anche presso gli studiosi ed esperti di diritto costituzionale?
Detto questo, il nuovo Trattato di Roma costituisce senz’altro un’occasione importante per alimentare il dibattito che sin dall’inizio si accompagna all’esperienza comunitaria. Il dibattito sulla natura e le caratteristiche essenziali, dal punto di vista giuridico e politico-istituzionale, del fenomeno “Comunità/Unione europea”4.
Nel contesto di tale dibattito ha senz’altro senso chiedersi se il nuovo Trattato operi un salto di qualità, o quanto meno dia una sensibile accelerazione del processo comunitario verso una forma giuridico-politica di organizzazione integrata, un po’ più simile a quella di un’entità statale che non a un’organizzazione internazionale “classica”.
Posta in questi termini, la questione mi sembra in effetti tutt’altro che meramente classificatoria o nominalistica. Una sua corretta impostazione risulta al contrario cruciale per comprendere, senza equivoci o ambiguità, quali siano al momento attuale (e come possano evolvere in futuro): – il ruolo e i poteri delle istituzioni europee nei confronti dei “cittadini” comunitari; – i rapporti fra tali istituzioni e gli Stati membri; – nonché il rapporto tra il diritto dell’Unione e i diritti nazionali. Si tratta insomma di un tema di primaria importanza per risolvere questioni concrete e quotidiane, e non solo per evitare i falsi entusiasmi o i timori ingiustificati di cui dicevo poc’anzi.
Su questo tema, visto alla luce del nuovo Trattato, cercherò di proporre qualche spunto di riflessione, partendo dall’unica prospettiva con cui ho una minima familiarità – quella giuridica internazionalistica -; prospettiva peraltro del tutto appropriata, dato che stiamo parlando per l’appunto di un Trattato internazionale.

Il trattato-contratto.
A questo proposito vorrei partire – a rischio di risultare pedante – da alcuni concetti giuridici internazionalistici di base, che troppo spesso sembrano trascurati nella ricca e varia letteratura (specializzata ed “editorialistica”) sul tema in questione.
Precisamente, vorrei ricordare che, in ragione delle caratteristiche strutturali dell’ambiente sociale del diritto internazionale, anche un “trattato – statuto” complesso e multilaterale, come quello di cui stiamo parlando (non diversamente dal trattato con cui, ad esempio, uno Stato s’impegna nei confronti di un altro a costruire un tunnel di passaggio sotto un’altura di confine a fronte del corrispettivo del pagamento di un prezzo) altro non è se non “il mero contratto ugualitario e privatistico fra Stati, idoneo a creare rapporti di diritto/obbligo fra gli Stati parti, ma inidoneo a modificare di per sé la struttura della convivenza fra Stati”5.
Come in occasione della stipula del trattato istitutivo di qualsiasi altra organizzazione internazionale, gli Stati membri dell’Unione, col Trattato “costituzionale”, non fanno dunque altro che vincolarsi al rispetto di certi obblighi. Essi assumono, l’uno nei confronti di tutti e di ciascuno degli altri, precisi impegni “contrattuali”. S’impegnano così, fra l’altro:
– al rispetto di alcuni principi e norme di condotta;
– a cooperare fra di loro e a coordinare le loro politiche in determinati settori;
– a fare quanto concordato per costituire ed avviare organi cui sono attribuite determinate funzioni, e che funzionino secondo procedure e nel rispetto di limiti sostanziali predeterminati consensualmente dagli Stati stessi;
– a rispettare le delibere legittimamente adottate da tali organi, considerandole come idonee a produrre effetti giuridici vincolanti e ad integrare con contenuti specifici quanto già previsto in termini potenziali e generici nel trattato istitutivo.

L’inesistente sovranazionalità dell’Unione e delle sue istituzioni.
Se si ha chiaro ciò, risulta altrettanto chiaro che l’obbligatorietà giuridica nei confronti degli Stati degli atti e del diritto adottati dalle istituzioni dell’Unione, da sempre e anche in futuro (a seguito dell’eventuale entrata in vigore del nuovo Trattato), non ha affatto il proprio fondamento in una inesistente posizione di supremazia dell’Unione sugli Stati membri; ma ha il proprio fondamento esclusivamente nell’impegno contrattuale assunto da questi ultimi.
A tal proposito il fatto che l’Unione abbia una soggettività giuridica – e che oggi, diversamente da ieri, tale soggettività le sia espressamente riconosciuta nel Trattato “costituzionale” (art. I-7) – conta, a ben vedere, molto poco. Che l’Unione sia un soggetto di diritto (anche se resta da precisare in qual senso e su quale piano giuridico – del diritto internazionale, degli ordinamenti interni statali, o del “sistema” comunitario -) non significa assolutamente che tutti gli atti adottati dalle istituzioni dell’UE, riguardanti lo svolgimento da parte loro di un’attività di tipo sia internazionale, sia statale interno, siano da considerare atti di un soggetto “Unione europea” che si ponga come entità a sé stante rispetto agli Stati, capace di obbligarli autoritativamente, e quindi in tal senso sovraordinata e sovranazionale.
In modo molto più rispondente alla realtà politica dei fatti e alla natura giuridica dell’atto che istituisce l’Unione (e già istituiva la Comunità) – il trattato-contratto internazionale – la maggior parte di tali atti vanno considerati piuttosto:
– o come il risultato del funzionamento delle procedure concordate fra gli Stati e a cui questi hanno convenuto di attribuire l’idoneità a produrre norme che regolino la loro condotta6;
– oppure, quando si tratta di atti idonei a produrre effetti normativi o amministrativi diretti sul piano interno dei vari Stati membri, come attività di organi comuni, ai quali gli Stati hanno affidato il compito, in certi ambiti, di affiancarsi o sostituirsi ai rispettivi organi statali nell’esercizio di poteri normativi o di governo in senso lato7. Ma neppure in tal caso può assolutamente vedersi un centro di potere capace di esprimere ed attuare una volontà propria, a prescindere, al di là, o contro le funzioni assegnate dagli Stati e da queste controllate, o sulla base di procedure e modalità diverse da quelle concordate dagli Stati membri, e che – per così dire – si autolegittimino.

Le competenze dell’Unione e i limiti per la sovranità-libertà degli Stati.
Da questo punto di vista il nuovo Trattato di Roma non comporta né lascia presagire alcun salto di qualità, né tanto meno “rivoluzioni”. E ciò non solo per la sua natura di trattato-contratto fra Stati, ma anche per i contenuti espressi di alcune sue disposizioni fondamentali, dalle quali continua a trasparire in modo inequivoco la volontà in tal senso degli Stati membri.
Secondo l’Art. I-1, il Trattato “istituisce l’Unione europea, alla quale gli Stati membri attribuiscono competenze per conseguire i loro obiettivi comuni”.
Secondo l’Art. III-2, sul principio delle competenze di attribuzione, “L’Unione agisce nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nella Costituzione, per realizzare gli obiettivi stabiliti”.
In altre parole, in questo nuovo Trattato – come negli altri che hanno scandito il cammino dell’esperienza comunitaria dalle origini in poi, e come per la verità accade con qualsiasi trattato internazionale – può sì parlarsi di limiti importanti per la sovranità degli Stati, e persino di una situazione di sovranità “mista” o “ripartita” fra Stati membri e Unione8. Ma ciò, in una prospettiva internazionalistica, soltanto se e nella misura in cui intenda farsi riferimento alla c.d. sovranità-libertà degli Stati, alla libertà cioè di ogni Stato di esercitare poteri di governo in senso lato sulla propria comunità territoriale e di portare avanti la propria politica verso l’esterno. Ma certo non v’è alcuna limitazione di sovranità intesa quale sovranità-indipendenza degli Stati membri, intesa cioè come espressione del fatto che questi sono padroni di se stessi, regna et civitates superiorem non recognoscentes9. In questo senso – lo ripeto – il nuovo Trattato non comporta nessun salto di qualità o cambiamento di direzione: anzi fornisce al contrario, come dirò fra breve, un’ennesima significativa conferma.

Il fondamento contrattuale della prevalenza del diritto dell’Unione.
Né deve indurre in inganno il fatto che si sia previsto espressamente, all’art. I-6 del nuovo Trattato, la prevalenza del Trattato stesso, e del diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione, sul diritto degli Stati membri.
A parte che bisognerà vedere se e fino a che punto le Corti costituzionali nazionali accetteranno mai la prevalenza di tale diritto sui principi fondamentali delle rispettive Costituzioni, la prevalenza in questione non rappresenta certo una novità con riferimento né al diritto comunitario, né al diritto proveniente da altre “fonti” internazionali. Nella propria sovranità-libertà di regolare il sistema delle fonti normative rilevanti, gli Stati membri dell’UE da molto tempo si sono aperti – anche troppo e senza sufficiente rispetto per il principio (questo sì costituzionale) del rispetto della sovranità popolare 10– al rinvio a norme o a procedimenti di produzione normativa internazionali e comunitari, e all’attribuzione alle norme in questione, una volta recepite nei rispettivi ordinamenti statali, di un rango molto elevato, superiore non solo alla legge ma persino a norme costituzionali.
L’unica novità dell’art. I-6 – novità peraltro significativa per l’internazionalista – è che, in virtù di tale disposizione, l’origine e il fondamento più saldo di tale prevalenza non dovrà più essere ricercato in eventuali principi delle varie costituzioni nazionali (più meno storpiati interpretativamente all’occasione) che consentano o impongano la prevalenza sul piano dei rispettivi ordinamenti. E neppure in un sedicente principio costituzionale comunitario che affermi un primato “quasi divino” del diritto comunitario. Piuttosto, tale prevalenza si conferma ora più chiaramente dipendere dall’impegno contrattuale assunto dagli Stati membri, in base al quale questi risultano espressamente impegnati, l’uno nei confronti degli altri, a garantirla e – presumibilmente – a garantire il controllo della sua attuazione ad opera delle istituzioni comunitarie.

Dimensione interindividuale e struttura giuspubblicistica nell’Unione europea.
Se è vero che il Trattato “costituzionale” non lascia presagire nessun salto di qualità rispetto al passato, nel senso di una limitazione della sovranità-indipendenza degli Stati membri (e quindi dell’evoluzione dell’esperienza comunitaria verso modelli politico-organizzativi di tipo statale federale), è però altrettanto vero che esso conferma ed anzi rafforza la presenza nel fenomeno “Unione europea” di due dimensioni giuridico-normative concorrenti.
Accanto alla dimensione delle relazioni di tipo internazionalistico e ugualitario regolate dal Trattato11, si pone infatti incontestabilmente nell’UE una dimensione interindividuale organizzata, caratterizzata dalla presenza di una struttura di tipo giuspubblicistico: struttura non “istituita” dal Trattato, ma che risulta essere per un verso il prodotto della concreta attuazione ad opera degli Stati degli impegni assunti nel Trattato in ordine alla creazione e al funzionamento degli organi, e al conferimento a tali organi di poteri normativi e amministrativi nei confronti della comunità territoriale europea (persone fisiche e giuridiche), ma soprattutto – per altro verso – il prodotto dall’esercizio effettivo da parte delle istituzioni comunitarie dei poteri ad esse affidati12.
Tale dimensione, da sempre presente nell’esperienza comunitaria (che per questo configura anche un processo politico-giuridico d’integrazione), ha acquisito, com’è noto, una rilevanza primaria nella vita quotidiana europea, almeno con riferimento ai settori della regolamentazione del mercato e della moneta, grazie tra l’altro all’azione (e talvolta alle forzature) di due istituzioni, la Corte di giustizia e la Commissione, ma anche – più recentemente – alla creazione e all’attività della Banca centrale europea. Cose sin troppo note per essere ricordate.
Con riferimento a siffatta dimensione interindividuale, integrata e organizzata, è effettivamente rinvenibile – come accennavo – una struttura di tipo giuspubblicistico, in cui le istituzioni comunitarie svolgono un ruolo fondamentale, in posizione di sovraordinazione rispetto alla collettività sottostante e, talvolta, alle istituzioni statali (ma non agli Stati membri). Ed è proprio qui che sussiste un’enorme differenza quantitativa fra l’Unione europea e le altre organizzazioni internazionali oggi esistenti.
La dimensione interindividuale organizzata, per quanto presente in tutte le altre organizzazioni internazionali degne di questo nome, è infatti in genere – in tali organizzazioni – molto piccola, minuscola a confronto con la dimensione di tipo internazionalistico ugualitario. Nella Comunità, e oggi nell’Unione europea, essa è invece diventata sempre più estesa e consistente, arrivando ad occupare uno spazio quasi paragonabile a quello occupato dalla dimensione internazionalistica.

La dimensione interindividuale organizzata alla luce del nuovo Trattato.
Per quanto riguarda questa dimensione, il nuovo Trattato contribuisce dunque, sotto alcuni profili, ad ampliarla e precisarla, ed anche a connotare in modo un po’ meno inadeguato che in passato la sua natura democratica.
Estensioni e precisazioni della dimensione interindividuale li abbiamo ad esempio nel campo dell’azione penale, laddove si prevede un Procura europea (art. III-274) che possa agire di fronte a giurisdizioni nazionali per reati contro gli interessi finanziari dell’Unione o per crimini a base transnazionale. O ancora con la previsione di un “corpo europeo di aiuto umanitario” (art. III-321, par. 5) per inquadrare i contributi comuni dei giovani europei alle azioni di aiuto decise dall’UE. O ancora, in una prospettiva più generale, nella precisazione delle materie c.d. di competenza esclusiva dell’UE (art. I-13), o nella previsione espressa del potere della Commissione di adottare regolamenti europei delegati (art. I-36).
Una maggiore attenzione alle c.d. garanzie democratiche emerge, fra l’altro: dalla generalizzazione della procedura di codecisione, come procedura legislativa ordinaria (art. I-20); dal riconoscimento del diritto all’iniziativa legislativa popolare (art. I-47); dall’inserimento a pieno titolo della Carta di Nizza nel Trattato, come parametro di legittimità dell’attività dell’UE (Parte Seconda del Trattato); dall’attribuzione di un ruolo ai Parlamenti nazionali in ordine alla valutazione del rispetto del principio di sussidiarietà da parte dell’istituzioni dell’Unione (art. I-42), con particolare attenzione al settore della cooperazione di polizia e giudiziaria penale (art. III-259); dalla generalizzazione del doppio grado di giudizio per tutti i ricorsi proposti da individui ai giudici comunitari (art. III-358); e anche dal fumoso Titolo VI della Parte Prima dedicato alla “Vita democratica dell’UE”, con la sua retorica affermazione dei principi dell’uguaglianza democratica e della democrazia rappresentativa e partecipativa.

Il primato della dimensione internazionalistica e la sua conferma nel nuovo Trattato.
Queste sono novità che possono favorire un qualche sviluppo ulteriore di una realtà europea interindividuale integrata e organizzata. Ed è proprio con riferimento a tale realtà e alla sua struttura giuspubblicistica che il nuovo Trattato – come già ciascuno dei precedenti – può effettivamente intendersi quale “statuto giuridico” o “costituzione formale” dell’Unione europea (se poi sia una buona costituzione, è altro discorso …).
Restano però alcuni limiti fondamentali che a mio avviso impediscono una crescita della struttura giuspubblicistica tale da porre le premesse – e, sottolineo, soltanto le premesse – per eventuali salti di qualità in senso statale-federale dell’Unione.
Uno di questi limiti consiste nel fatto che restano ancora eccezionali e molto settoriali i casi in cui è consentito alle istituzioni comunitarie di esercitare un potere di governo diretto (che non passi cioè per il filtro degli Stati membri interessati) nei confronti della collettività sottostante13.
Altro limite fondamentale consiste nel fatto che non è prevista alcuna possibilità per il Parlamento europeo – ossia per l’unica istituzione rappresentativa dei “cittadini dell’Unione” complessivamente considerati, e non come sudditi degli Stati membri – di incidere per un eventuale ampliamento dei poteri dell’Unione a spese degli Stati.
Inoltre, la stesura del nuovo Trattato ha dato l’occasione agli Stati membri di ribadire – proprio a fronte e, per così dire, a bilanciamento dei rafforzamenti e dei miglioramenti democratici della dimensione di integrazione interindividuale – il primato della dimensione internazionalistica ugualitaria, per impedire così alla prima di progredire senza controllo fino a scalzare la seconda, fino a limitare cioè non la sovranità-libertà degli Stati membri, ma la loro stessa sovranità-indipendenza.
In questa direzione vanno alcuni punti significativi del nuovo Trattato. Fra questi: la previsione espressa della possibilità di recesso per gli Stati membri (art. I-60), e l’esclusivo mantenimento del tradizionale metodo della conferenza intergovernativa e del criterio dell’unanimità per consentire qualsiasi modifica del Trattato (art. IV-443) ; nonché la significativa negazione del metodo comunitario e la conferma invece del metodo internazionalistico-intergovernativo per tutto quel che concerne l’ambito cruciale politica estera e di difesa (Titolo V della Parte III).
Infine, non è privo di significato il fatto che, all’art. I-5 (“Relazioni tra l’Unione e gli Stati membri”), gli Stati membri abbiano ritenuto necessario affermare, a scanso di equivoci: “L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali”, sostituendo così con grande enfasi la meno impegnativa e appariscente formula attualmente contenuta nell’art. 6, par. 3 del Trattato sull’Unione europea (“L’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri”).

A mo’ di conclusione.
In considerazione di ciò, se proprio dovessi partecipare al gioco intellettuale del confronto con l’esperienza costituente che, alla fine del Settecento, ha portato alla formazione degli Stati Uniti d’America, direi non solo che nel corso dei lavori preparatori del nuovo Trattato di Roma non è affatto scoccata la scintilla, per dirla con Amato , che scoccò nel 1787 durante la Convenzione di Filadelfia (dando il via alla trasformazione di una unione confederale di Stati in uno Stato federale). Ma direi, piuttosto, che ci si è fermati ad uno stadio più vicino e forse anche più arretrato di integrazione (almeno quanto alla crucialità degli aspetti in cui questa si realizza) rispetto a quello realizzato dagli Articles of Confederation del 1777.
E, forse, visti alcuni contenuti della c.d. Costituzione europea, è stato meglio così.
Per concludere, è chiaro che solo la storia dei prossimi anni o, più probabilmente, decenni potrà dirci se il Trattato firmato a Roma il 29 ottobre 2004 – ammesso e non concesso che entri mai in vigore – abbia contribuito a far evolvere l’Unione europea verso una realtà giuridico-politica in cui la dimensione interindividuale e la struttura giuspubblicistica risultino prevalenti rispetto alla connotazione internazionalistica ugualitaria, e se quindi tale Trattato si sia meritato l’ambizioso appellativo di “costituzione” della realtà in questione.
Al momento attuale, tuttavia, i motivi per essere dubbiosi e perplessi mi sembrano, a questo riguardo, molto più consistenti di quelli per non esserlo.

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