A proposito di una recente consultazione referendaria in Alabama (e del problema del consenso attorno ai valori costituzionali in Europa)


1 – In occasione dell’ultimo election day negli Stati Uniti  che ha visto sancita la riconferma del presidente uscente George W. Bush alla Casa Bianca , tra le numerose consultazioni referendarie tenutesi nei diversi stati dell’Unione, una in particolare ha prodotto una certa eco sulla stampa internazionale (ma alquanto limitata, a dire il vero, su quella italiana), per via dell’esito a dir poco imbarazzante.
Si chiedeva, in sostanza, ai cittadini dell’Alabama di pronunciarsi sulla cancellazione di alcune norme della Costituzione del 1901 dal significato non equivoco, attraverso le quali si statuisce un regime di segregazione razziale e di vero e proprio apartheid in ambito scolastico. Oggetto del quesito sono state, in particolare, la Section 256, ove si dispone che «separate schools shall be provided for white and colored children, and no child of either race shall be permitted to attend a school of the other race» e l’Amendment 111, in base al quale, tra l’altro, «nothing in this Constitution shall be construed as creating or recognizing any right to education or training at public expense».
Dunque, scuole separate per bambini bianchi e neri e disconoscimento di un diritto all’istruzione che possa essere rivendicato nei confronti dello Stato e che possa gravare sui conti pubblici. Queste norme hanno contribuito, assieme ad altre (come quella, per restare in tema, che detta una disciplina assai rigida per l’istituzione delle scuole), a fare della Costituzione dell’Alabama un autentico manifesto ideologico-politico intriso di razzismo e volto a mantenere la superiorità dei bianchi nei confronti della comunità nera. Ed al medesimo scopo sono stati introdotti gran parte degli oltre settecento emendamenti, che ne hanno fatto la più lunga tra quelle degli Stati americani.
Tuttavia parecchie disposizioni, tra cui quelle che impongono la discriminazione razziale, risultano ormai superate da decenni, in quanto inapplicabili in virtù della prevalenza su di esse delle leggi federali. Pertanto, il quesito referendario proposto aveva anche l’obiettivo di eliminare dalla Costituzione delle norme divenute inutili, oltre che evidentemente antistoriche.
Ma a ritenere le norme in questione tutt’altro che anacronistiche, quanto meno sul piano delle convinzioni che esprimono, è stato proprio il corpo elettorale. All’apertura delle urne, infatti, il sorprendente risultato: su un milione e quattrocentomila voti circa, la maggioranza (seppur esigua, poco meno di duemila voti) si è espressa per il mantenimento della Section 256 così com’è. Un esito inquietante che suggerisce di seguito alcune riflessioni, valendo a poco le constatazioni riguardo la scarsa o nulla portata pratica di esso e le motivazioni prevalentemente “fiscali” che, a detta di molti, lo avrebbero determinato.

2 – Una problematica riemersa in concomitanza con il realizzarsi del processo costituente europeo è la seguente: se condizione affinché si possa dare vita ad una Costituzione deve essere, accanto ad una comune identità storica e culturale delle comunità interessate, il riconoscersi di tutti i soggetti che compongono quest’ultime in un nucleo di valori fondamentali che vanno perciò solo a porsi alla base dell’ordinamento.
A tal proposito, affrontando la questione e contestando che  attraverso una constatazione empirica  si possa affermare che dietro ogni grande processo costituente vi sia stata un’omogeneità di fondo dei popoli, soprattutto sul piano delle opzioni assiologiche espresse, Luigi Ferrajoli scrive che «un referendum a favore della libertà di coscienza o delle garanzie penali e processuali che si fosse svolto ai tempi di Cesare Beccaria o della Rivoluzione francese non avrebbe certo raccolto molti consensi. Perfino oggi dovremmo temere una votazione popolare sui diritti sociali o sulla pena di morte».
Ebbene, si dà il caso che quella che poteva apparire come una mera provocazione ha finito per concretizzarsi nella realtà. Sono trascorsi oltre quarant’anni dall’avvio della desegregazione, simbolicamente rappresentato dall’ingresso nella University of Alabama dei primi due studenti di colore, scortati dalla Guardia Nazionale inviata dal Presidente Kennedy e nonostante i tentativi di impedirne l’accesso da parte del Governatore Wallace, il quale sintetizzava il suo credo politico nello slogan «Segregation now, segregation tomorrow, segregation forever». Ma per la maggioranza dei cittadini dell’Alabama l’orologio della storia è rimasto fermo ad allora, avendo essi mostrato di condividere tuttora un orientamento che va nella direzione opposta rispetto ai principi caratterizzanti le democrazie occidentali, in particolare il principio di eguaglianza e la pari dignità delle persone. E che ciò avvenga nel paese che si è assegnato la missione di “esportare” la democrazia nel mondo non può che destare più d’una perplessità.

3 – Dobbiamo dunque, prima ancora che pensare ai processi di democratizzazione degli altri, interrogarci sul grado di adesione, all’interno dei nostri sistemi, ai valori costituzionalmente tutelati e sulle possibili implicazioni di un riscontro anche solo parzialmente insoddisfacente.
Tornando alla problematica sopra enunciata, a me pare che se consideriamo una certa coesione nei valori di riferimento del corpo sociale come presupposto indefettibile per aversi una Costituzione, dinanzi a spiacevoli sorprese come quella riservata dal referendum in Alabama  naturalmente il discorso in questa sede è puramente teorico e non vuole certo riferirsi al sistema americano, visto che il voto popolare ha riguardato solo uno dei cinquanta stati dell’Unione  ci troveremo di fronte a due possibili conclusioni: o tale omogeneità non esisteva dal principio, e pertanto non poteva svolgersi efficacemente un processo costituente, oppure essa è venuta meno, e si ravvisa quindi una crisi della Costituzione vigente, che va riformata secondo gli orientamenti popolari.
Tuttavia è evidente che le cose non stanno propriamente in questo modo. Le Costituzioni contemporanee, lungi dal porsi come semplice specchio della realtà esistente, si configurano piuttosto come «patti» fondamentali il cui scopo precipuo è di garantire tutti componendo ad unità le diverse istanze, in modo che tutti, pur se da posizioni diverse (o addirittura contrapposte) possano riconoscersi nell’ordinamento. In particolare, è attraverso la garanzia dei diritti fondamentali  in quanto diritti di tutti  che i consociati vengono posti su un piano di uguaglianza; così da ritenersi, in quanto uguali nei diritti, membri di una medesima comunità. In quella che è stata definita «età dei diritti», è il pari godimento di essi che crea coesione sociale e non viceversa.
Pertanto, è proprio laddove tale coesione manca (o manca parzialmente) che un processo costituente può rivestire un ruolo significativo e risultare particolarmente efficace, attesa la volontà politica di darvi luogo, dalla quale non si vuole certo prescindere; volontà che deve peraltro essere riconducibile, anche solo indirettamente, alla sovranità popolare.
Risulta così valorizzata la funzione «normativa» del costituzionalismo, che informa l’ordinamento alla stregua di quelli che sono i suoi canoni tipici, creando consenso riguardo certe scelte di valore dove non vi era, anziché limitarsi a prendere atto dell’esistente. E d’altra parte, ad un livello più generale, Crisafulli nelle sue Lezioni poteva sostenere che «l’affermarsi di un potere sovrano, e cioè il comporsi di un gruppo sociale a Stato, promuove il sorgere di interessi comuni, anche laddove questi, per l’innanzi, mancavano, e ne provoca comunque di ulteriori, specificamente propri di quel gruppo ad esclusione di ogni altro, pur se spazialmente contiguo o affine sotto altri punti di vista: é, in altri termini, il massimo, oltre che l’imprescindibile, fattore determinante dell’esserci di un popolo».

4 – E veniamo così alla Costituzione per l’Europa. Si è detto che non esiste un demos europeo, non c’è una sfera pubblica europea e non si ravvisano le condizioni in termini di coesione storica, culturale, sociale e politica per dare vita ad un momento costituente. Dunque, la Costituzione europea (ammesso che di Costituzione si tratti) è un artificio, una evidente forzatura e non potrà che risolversi in un fallimento.
Ora, non si vuol certo negare che in siffatte affermazioni vi sia del vero; né si intende trascurare il fatto che l’Unione europea per molti versi risenta ancora della propria genesi «mercantilistica». Tuttavia minimizzare (o peggio, ignorare) il patrimonio comune di principi, costruito in un cammino lungo decenni verso l’integrazione, significa trascurare l’aspetto che, viceversa, andrebbe maggiormente enfatizzato: ossia che i cittadini europei, in quanto tali, risultano a tutt’oggi titolari di un complesso di situazioni giuridiche soggettive senz’altro qualificabili come diritti fondamentali, che sono riassunte in una Carta in procinto di acquisire piena efficacia giuridica (che poi si possa e si debba fare di più sul piano dei diritti, specie di quelli sociali, è un altro discorso). Inoltre, il rispetto da parte degli Stati membri di alcuni valori di fondo  quali la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani  è condizione imprescindibile per far parte dell’Unione europea. Partendo da tali elementi (che, assieme ad altri suggeriscono l’esistenza di un «modello europeo»), non sembra affatto azzardata l’ipotesi di percorrere ulteriori tappe verso un’integrazione sempre maggiore, anche in forza di una Costituzione che si ponga come fattore di coesione; giungendo così i popoli europei, per riprendere le parole del Preambolo al trattato costituzionale, a «superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino». In questa sede, peraltro, si prescinde volutamente da qualsiasi valutazione concreta circa i modi attraverso cui il processo costituente europeo sta giungendo a compimento ed i risultati cui sembra pervenire; ciò che preme sottolineare è la sua realizzabilità storica, in virtù di determinate premesse.
Dunque, nell’ordinamento europeo una certa base di consenso attorno a determinate opzioni di fondo è incontestabile, nonostante le diversità storico-culturali ravvisabili, le quali, d’altronde, non si intende affatto annullare, stante il rispetto delle identità nazionali. Sovente, poi, tale consenso sembra essere finanche maggiore rispetto a quello presente in realtà costituzionali ben più consolidate e, soprattutto, rispetto a quello registratosi in processi costituenti del passato.
Si consideri l’ordinamento degli Stati Uniti d’America. Sui contrasti e sulle divisioni che caratterizzarono i lavori della Convenzione di Filadelfia del 1787 e sul carattere democratico o meno della Costituzione americana si è recentemente interrogato in un bel saggio Robert Dahl. In questa sede rileviamo solo che quella che è ritenuta la prima Costituzione moderna non poté evitare, alcuni decenni dopo, una sanguinosa guerra civile che affondava le radici in una profonda differenza, tra gli Stati del Nord e quelli del Sud, nella visione della società e dei rapporti tra gli esseri umani. E ancora, non poté evitare che all’incirca un secolo dopo il conflitto si scatenasse una formidabile battaglia per l’affermazione dei diritti civili laddove questi erano negati; la quale di nuovo mise a nudo le spaccature esistenti nella realtà americana.
Oggi il referendum costituzionale dell’Alabama ci dice che si tratta di spaccature non ancora del tutto composte. La maggioranza dei cittadini di uno Stato continua ad avversare principi che ormai fanno parte del tessuto costituzionale della Federazione, ed è grazie a ciò che il voto di essi non avrà conseguenze concrete. Ma non è tutto. Schierandosi a favore della segregazione razziale, ci si oppone proprio a quella coesione sociale, intimamente legata al valore dell’uguaglianza, che da taluni è indicata come condicio sine qua non per aversi una Costituzione; potremmo dire, in altri termini, che in Alabama (e quindi, di riflesso ed in misura minore, negli Stati Uniti) non vi è coesione sul principio… della coesione. E’ un dato su cui riflettere.

5 – Infine, un’ultima notazione. Come porsi dinanzi al fatto che alla decisione di mantenere nella Costituzione dell’Alabama norme che è difficile non definire di stampo razzista si sia giunti attraverso una procedura formalmente democratica  addirittura, secondo alcuni, il non plus ultra della democrazia  quale il referendum popolare?
Che la decisione democratica possa avere esiti aberranti, qualora non vincolata a limiti di contenuto, è cosa ampiamente nota e la storia del Novecento è lì a ricordarcelo. D’altra parte, l’irrompere delle Costituzioni rigide risponde esattamente allo scopo di vincolare i pubblici poteri, in particolare la maggioranza al governo in un determinato momento, al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento. La sottrazione della disciplina di taluni aspetti dell’ordinamento, tra i quali quelli concernenti i diritti fondamentali, alla disponibilità della maggioranza di turno (quand’anche essa sia direttamente popolare e non semplicemente di derivazione popolare) e perfino, talvolta, al legislatore costituzionale in sede di revisione, protegge la minoranza dalle possibili degenerazioni del sistema e favorisce inevitabilmente la tenuta del patto costituzionale. In questo modo il consenso attorno ai valori di fondo si rafforza, dal momento che ciascuno si sente garantito. La maggioranza governa nel rispetto delle minoranze e nell’ambito di regole e principi condivisi da tutti: è il quid della «democrazia pluralista».
Oggi, tuttavia, nel sistema costituzionale italiano si assiste al ritorno prepotente del diverso modello della «democrazia maggioritaria», che, privilegiando la stabilità come valore e anteponendo l’efficacia dell’azione di governo al consenso diffuso e alla partecipazione, pare incontrare il favore della classe politica in misura alquanto trasversale. La parola d’ordine, che non si perde occasione di invocare, è che chi è stato investito dal popolo del potere di governare lo fa come preferisce, senza curarsi troppo dei vincoli istituzionali. La sovranità popolare è piegata ad uso e consumo di chi esce vincitore dalla contesa elettorale e brandita come un’arma verso chi si frappone all’attuazione del programma. Se poi si instaura la prassi di modificare la Costituzione a colpi di maggioranza, il quadro è completo.
In un siffatto contesto, il costituzionalismo non può esimersi quanto meno dal rammentare un insegnamento che ci viene dall’esperienza: ovvero che la maggioranza talvolta può anche sbagliare, anche laddove oggi i paletti del tracciato democratico sono all’apparenza ben piantati a terra. Alabama docet, anche se sembra così lontana.

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