Applicazione della legge Severino e “inagibilità parlamentare”: quel che è chiaro per le norme è certo legittimo per la Costituzione.

Emergenza costituzionale

1.       La condanna in Cassazione di Berlusconi e lo scenario intorno alla sua decadenza da Senatore.

Era inevitabile che le Istituzioni del nostro Paese fossero scosse dalle fondamenta all’indomani della pronuncia del 1 agosto della Corte di Cassazione, Sezione Feriale, con la quale, in uno dei procedimenti penali che hanno visto (e vedono) imputato Silvio Berlusconi, si è per la prima volta registrata la conferma nei suoi confronti, ad un passo dall’ennesima prescrizione, della severa condanna a quattro anni di reclusione per il reato di frode fiscale inflittagli, nel mese di maggio dello scorso anno, dalla Corte di Appello di Milano. Inevitabili dunque gli scossoni, almeno per quanti seguono l’evoluzione delle malferme istituzioni politiche italiane e sono perciò avvertiti sia della divisività, che accompagna la popolare figura e l’azione (non solo politica) di Berlusconi, sia delle (discutibili) interpretazioni, che con diversità di accenti e di argomenti vengono fornite dalla fine degli anni Ottanta a proposito del supposto intollerabile “squilibrio giustizialista”, che avrebbe reso nei fatti la Magistratura Italiana – una parte di essa – capace di fuoriuscire dal suo alveo costituzionale ed addirittura in grado di determinare (o cambiare) il corso degli indirizzi politici del Paese. Si tratta della tesi fatta propria da Berlusconi che si ritiene “perseguitato” in particolare, a suo dire, da una “fazione” influente ed organizzata della Magistratura “di sinistra”, concentrata soprattutto negli Uffici Giudiziarî milanesi, che lo vorrebbe annientare per ragioni di “odio politico” sin da quando, nel 1994, egli ha inteso impegnarsi direttamente nel governo del Paese che, in verità, nessuno gli ha impedito di guidare per quattro volte, ed in tre diverse Legislature, negli ultimi venti anni. Oltretutto, pur dopo aver rassegnato le dimissioni da Presidente del Consiglio (nel novembre 2011) per far posto a Mario Monti, Berlusconi è restato e resta saldamente a capo di una forza politica componente decisiva della maggioranza di governo “di larghe intese” che ha sostenuto l’Esecutivo “tecnico” di Monti e, nella presente Legislatura, ha appoggiato il Governo di Enrico Letta. Deve essere pertanto riconosciuto che, qualsiasi fosse stato l’esito della sentenza della Cassazione, si sarebbero registrate reazioni contrastanti non solo sul piano politico; così nessuno può meravigliarsi che il diretto interessato ed il suo pool di difensori abbiano contestato il verdetto sfavorevole, presentando un ricorso alla Corte di Strasburgo per violazione delle garanzie difensive ed ipotizzando di poter richiedere in tempi rapidissimi la revisione della sentenza, istanza che peraltro non si è ancora concretizzata.

Non c’è dubbio che, in chiave istituzionale, la definitività della condanna subita da Berlusconi abbia immediatamente posto al centro dell’attenzione generale, in termini non più astratti ma davvero stringenti, il tema di come garantire “agibilità politica” al leader del centro-destra italiano – assolutamente indisponibile, almeno sino ad adesso, a fare un “passo indietro” – il quale è considerato, va da sé, insostituibile “federatore” delle variegate componenti di quella parte politica. A parte l’ineliminabile afflittività ontologica conseguente alla condanna, se si guarda con freddezza e disincanto a come fare per consentire comunque l’esercizio della leadership berlusconiana, il problema non è rappresentato dalla espiazione della pena detentiva. L’ordinamento contempla, infatti, misure alternative al carcere e comunque, in questo caso, le inevitabili restrizioni della libertà personale da sopportare, al netto dei tre anni condonati per effetto dell’indulto del 2006, sono ridotte ad un solo anno. E infatti, l’“agibilità politica” di Berlusconi, minata dal sopraggiungere della condanna definitiva, è stata evocata dalla sua parte politica guardando alle immediate difficoltà che da lui sarebbero state incontrate per continuare a ricoprire, sulla base delle norme legislative vigenti, la carica parlamentare nella Legislatura in corso. A partire dal giorno successivo – il 2 agosto – alla decisione della Cassazione, e cioè da quando la Procura Generale della Corte d’Appello di Milano ha trasmesso al Senato estratto della sentenza definitiva di condanna del Senatore Berlusconi, di fatti, spetta, e ciò nessuno contesta, a quel ramo del Parlamento verificare, ai sensi dell’art.66 Cost., se sussistono le condizioni per consentire al leader del centro-destra di continuare a rivestire lo status di Senatore della Repubblica oppure per rimuoverlo dalla carica. Questo accertamento deve essere compiuto, sulla base degli articoli 1 e 3 del Decreto Legislativo 31 dicembre 2012 n.235, in materia di incandidabilità ed incandidabilità sopravvenuta, ed è indipendente da ciò che avverrà nell’ordinamento una volta che sarà stata stabilita la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai Pubblici Uffici che consegue automaticamente alla condanna riportata da Berlusconi. A questo riguardo, come è noto, la Suprema Corte, previo parziale annullamento della sentenza di secondo grado, ha ritenuto di dover rinviare ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano il calcolo degli anni di interdizione che accompagneranno la pena principale. Tale calcolo dovrà effettuarsi in base ad una disposizione speciale che si applica ai reati fiscali (art. 12, secondo comma, D.Lgs. 10 marzo 2000 n.74), disattesa dal giudice di merito – il quale aveva previsto cinque anni di interdizione – e dovrà oscillare da un minimo di uno sino a tre anni. Pur non essendo troppo lontana nel tempo la pronuncia di merito che dovrà tenere conto del principio di diritto fissato dalla Cassazione, la perdita della capacità elettorale di Berlusconi (che peraltro inciderà anche sull’elettorato attivo) non si è ancora del tutto concretizzata nell’ordinamento giuridico. Questo incontestabile dato non consente tuttavia di procrastinare sino alla determinazione del periodo interdittivo, la risoluzione dell’attuale problema rappresentato dalla decadenza di Berlusconi secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 235/2012 – c.d. legge Severino – che non presuppone necessariamente, come si dirà anche più oltre, l’esistenza di una misura interdittiva. Tale normativa comporta una radicale compressione dell’elettorato passivo, da intendersi, non solo come iniziale inidoneità ad essere candidato alle elezioni politiche (cioè non si può neppure aspirare ad ottenere lo status di parlamentare), ma anche come indegnità a proseguire nell’espletamento del mandato rappresentativo. Le norme riguardano soggetti riconosciuti colpevoli per aver commesso gravi reati e tra questi sono inclusi anche coloro che abbiano riportato una condanna definitiva “a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni” (art. 1, D.Lgs. 235/2012). Poiché il reato di frode fiscale prevede quale pena edittale massima la reclusione sino a sei anni e poiché il sen. Berlusconi è stato condannato a quattro anni di reclusione, può ben dirsi che dal 2 agosto nell’ordinamento Italiano sussiste il problema di dare applicazione alla c.d. legge Severino nei riguardi del senatore leader del centrodestra. È superfluo rammentare come l’incandidabilità nella sua duplice compressione dell’elettorato passivo sia stata prevista nel nostro ordinamento con riguardo alla carica di consigliere comunale, provinciale, regionale, sin dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16, poi trasfusa nel T.U. Enti Locali di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ed è stata “incrociata”, senza che venissero riscontrati vizi, dal giudice costituzionale sin dalla sentenza n. 118/94. Essa è stata dunque estesa alla carica di membro del Parlamento, in attuazione della legge 6 novembre 2012 n. 190 dal richiamato D.Lgs. n. 135/2012, provvedimento varato nella passata Legislatura ad opera del Governo Monti a quel tempo sostenuto anche dal partito di Berlusconi. Quell’estensione venne considerata da chi allora l’aveva introdotta senza alcuna particolare difficoltà come uno strumento per dare “un segnale al Paese”, favorendo perciò l’innalzamento della qualità morale del ceto parlamentare, sottratto al controllo del corpo elettorale per quanto riguarda i singoli candidati, per via del sistema elettorale – il c.d. porcellum – ancora purtroppo vigente. Questo ovviamente non vuol dire che non possano sorgere questioni di vario genere connesse all’applicazione delle norme da poco approvate con riguardo ai parlamentari, come dimostrato dal fatto che la prescritta decadenza dovrebbe da subito dispiegare i suoi effetti proprio nei confronti di un senatore che controlla agevolmente (almeno così appare) una forza politica e parlamentare decisiva più che mai in questa Legislatura ai fini dell’individuazione di una maggioranza, stante l’incerto e difficilmente “armonizzabile” voto politico del febbraio 2013. A questo proposito merita di essere segnalata la stessa dichiarazione del Presidente della Repubblica intervenuta il 13 agosto 2013, a distanza di qualche giorno dalla definitiva condanna subita da Berlusconi. In questa nota il Presidente Napolitano reclama l’esigenza di affrontare (senza peraltro risolverla e forse anche complicandola ulteriormente) la questione della concordia nazionale – le larghe intese tra forze politiche decisamente contrapposte ma unite nella comune responsabilità di governare insieme per fronteggiare uno stato di necessità – senza nascondere, “naturalmente, i rischi che possono nascere dalle tensioni politiche insorte a seguito della sentenza definitiva di condanna pronunciata dalla Corte di Cassazione” e perciò confidando, forse con fideistica rassegnazione, in Silvio Berlusconi e nel suo partito proprio per “decidere circa l’ulteriore svolgimento – nei modi che risulteranno legittimamente possibili – della funzione di guida fino ad ora a lui attribuita”.

2.       Strumentalità ed inconsistenza giuridica delle tesi contrarie al voto immediato del Senato sulla decadenza di Berlusconi.

Dal 7 agosto presso la competente Giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato si è così avviata la discussione, subito sospesa e rinviata al 9 settembre, per verificare gli effetti della c.d. legge Severino sulla permanenza in carica di Berlusconi. A tutt’oggi (siamo alla fine del settembre 2013) non ci sono ancora delibere parlamentari definitive. È comunque significativo ricordare come, nella seduta del 18 settembre, la Giunta abbia respinto con una maggioranza estemporanea non coincidente con quella governativa (essendosi sommati i voti degli esponenti del PD a quelli del Movimento 5 Stelle) la relazione del sen. Augello (PDL) diretta a non considerare decaduto Berlusconi dalla carica ricoperta pur dopo il sopraggiungere della condanna definitiva del 1 agosto. Tale bocciatura è intervenuta dopo che il relatore, in uno scoppiettante festival delle innovazioni procedurali, aveva prospettato e visto non accolte dalla suddetta maggioranza della Giunta, questioni pregiudiziali (in seguito regredite a questioni preliminari) dirette a ritardare la presentazione al plenum della proposta della Giunta in vista della deliberazione conclusiva. Per ottenere questo rallentamento si sono utilizzati, a mio modo di vedere, paradossali espedienti tecnici quali la richiesta di attivazione in via incidentale della Corte costituzionale o, previo rinvio pregiudiziale, della stessa Corte di Giustizia. Attivazione, dell’una piuttosto che dell’altra Corte, suggerita dal relatore Augello al fine di assicurare piena tutela costituzionale e di derivazione comunitaria al sen. Berlusconi. Il relatore aggiungeva che una simile garanzia avrebbe dovuto essere accordata a qualsiasi altro senatore si fosse trovato nelle condizioni di dover subire gli effetti della normativa sull’incandidabilità, ancorché questo assunto sia destinato a rimanere indimostrabile.

Qualche breve considerazione sugli ingegnosi dubbi avanzati dal sen. Augello.

La prima, di carattere preliminare. C’è da chiedersi, infatti, come mai, per la prima volta nella storia del Senato, si è teorizzato in modo diretto e formale (l’orientamento della Camera è totalmente negativo su questo fronte) l’elevazione al rango di giudice a quo della stessa Giunta e non, come era logico aspettarsi, almeno dell’Assemblea? Quale che sia la risposta, è difficile negare che, una volta affermata la natura giurisdizionale dell’attività svolta dalle Camere ai sensi dell’art. 66 Cost., come in effetti si può evincere dalla sentenza della Corte costituzionale n.259/2009, il “giudice domestico”, eventualmente abilitato a sollevare questioni di costituzionalità e ad attivare la Corte di Lussemburgo, non possa che essere sempre e solo l’Assemblea (che decide) e non la Giunta (che si limita a proporre). È, tra l’altro, evidente che se si propende per riconoscere natura giurisdizionale all’organo parlamentare in occasione delle procedure di verifica dei poteri (quando cioè la Camera competente è chiamata a dare applicazione a norme legislative che si riflettono strutturalmente sulla propria composizione), non dovrebbe esserci spazio per determinazioni camerali orientate da discrezionalità politica ed altre simili convenienze. Ciò che nella prassi accade con frequenza senza menar troppo scandalo.

E veniamo alla evocata illegittima compressione dell’elettorato passivo, “rafforzata” rispetto all’ineleggibilità (che può essere rimossa per volontà del diretto interessato da manifestarsi entro un lasso di tempo definito) e determinata dalla incandidabilità (che non consente tra l’altro una eventuale provvisoria proclamazione dell’ineleggibile) nonché dalla rimozione dell’eletto a seguito della sopravvenuta sentenza di condanna definitiva per gravi delitti.

Si tratta, in realtà dello schema già sperimentato nell’ordinamento Italiano dal 1992, e da qualche mese esteso ai membri delle Camere ed ai Parlamentari Europei eletti nel nostro Stato.

Per la Corte costituzionale – sentenza n. 118/1994 – si tratta di una misura, anche nel caso di incandidabilità sopravvenuta, posta a salvaguardia dell’organo rappresentativo che il Legislatore non intende “aprire” – almeno per un certo lasso di tempo dall’accertamento compiuto in modo definitivo – a soggetti che si siano macchiati di gravi delitti. Non si comprende proprio perché quel che è stato considerato legittimo dal giudice costituzionale per salvaguardare l’autorevolezza istituzionale dei Consigli regionali non possa valere, almeno allo stesso modo, per le Assemblee parlamentari. L’incandidabilità non è – come pure viene detto strumentalmente – una sanzione di tipo penale quanto piuttosto una misura calibrata per consentire di ottenere prestigio e mantenere decoro istituzionale agli organi politici di natura elettiva anche fuori dai confini nazionali, a partire dall’Europa. Si tratta pertanto di uno strumento selettivo e diretto ad impedire ad alcune limitate categorie di soggetti di rivestire, o continuare ad esercitare, per un arco temporale congruo, cariche di rilievo pubblico, essendo stato accertato nei modi più rispettosi possibile delle loro garanzie costituzionali che detti soggetti abbiano data prova certa ed inequivocabile della loro “indegnità morale” (art. 48 ultimo comma Cost.). Il che rende oltremodo speciosa tutta l’arrembante polemica incentrata sulla lesione dell’art. 25 secondo comma Cost., secondo la quale la decadenza non sarebbe applicabile con riferimento ai fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della c.d. legge Severino. La circostanza, inoltre, che l’incandidabilità abbia una durata doppia rispetto alla pena accessoria dell’interdizione temporanea comminata dal Giudice, e comunque non inferiore a sei anni (art.13 D.Lgs. n. 235/2012), chiarisce l’autonomia finalistica di tale misura afflittiva rispetto all’accertamento processuale del fatto di reato ed alle sue specifiche conseguenze ordinarie. In sostanza, incandidabilità ed interdizione temporanea, pur rispondendo ad esigenze analoghe, scorrono su piani vicini ma paralleli dell’ordinamento ed i loro effetti possono non incrociarsi affatto. Per concludere sulle obiezioni di incostituzionalità paventate con riguardo alla c.d. legge Severino può non essere del tutto superfluo rammentare che è dal dato costituzionale vigente che si evince una concezione certamente più restrittiva dell’elettorato passivo rispetto all’esercizio del diritto di voto e si ricava una chiara riserva (art. 65), affinché il Legislatore circoscriva l’elettorato passivo, proprio come accade con le cause di ineleggibilità ed incompatibilità, tradizionalmente predisposte al fine di preservare la genuinità della competizione elettorale e di richiedere adeguate garanzie di indipendenza a chi è chiamato a rappresentare la Nazione. Se questa è la premessa, si può davvero comprendere come nell’ordinamento, proprio a causa della posizione costituzionale degli organi parlamentari (tenuti a svolgere in tutte le loro componenti, anche individuali, preminenti funzioni di interesse generale), possa essere predisposta in via legislativa un’ulteriore contrazione dell’elettorato passivo. Ciò, anche per fronteggiare l’insorgere di nuove forme di malcostume pubblico, dovrebbe consentire agevolmente di giustificare il divieto di candidatura e la rimozione dell’eletto qualora costui abbia data prova di slealtà civica infrangendo deliberatamente la legge penale in casi non minimizzabili, naturalmente purché tale divieto si mantenga entro ragionevoli limiti anche di ordine temporale, che non mi pare siano stati superati dalle norme vigenti. Il che, a voler ben guardare, è prova evidente di scarsa considerazione verso la comunità che si vorrebbe rappresentare.

L’avvenuto rigetto della relazione Augello dovrebbe perciò comportare che la maggioranza della Giunta possa orientarsi in senso inverso e, dopo aver individuato un altro relatore, arrivare a proporre al Senato di deliberare la decadenza di Berlusconi dalla carica di senatore. Si vedrà… Tuttavia, anche a seguito di quanto verrà deciso dall’Autorità Giudiziaria a proposito dell’interdizione temporanea, sarà difficile che Berlusconi possa mantenere ancora a lungo il suo status di parlamentare a meno di non voler anteporre alle evidenti ragioni del diritto convenienze politiche in virtù delle quali disapplicare semplici precetti giuridici che, al contrario, erano stati introdotti per restituire un minimo di credibilità alla classe politica del nostro Paese, mai stata così lontana dal comune sentire popolare. Ritenere comunque improbabile da qui a qualche mese l’“agibilità politica”, all’interno della sede parlamentare (e governativa), di Berlusconi non credo sia il frutto di un pregiudizio più politico che giuridico o addirittura l’incosciente sottovalutazione degli effetti drammatici che seguirebbero a quella decadenza, appesantendo ulteriormente gli ingranaggi costituzionali di un Paese diviso e che fatica a ritrovarsi unito sugli stessi elementari principî che sovrintendono alla pacifica convivenza tra “opposti politici”. Nella realtà, al contrario, è la convenienza politica ad essere immessa nell’ordinamento costituzionale solo grazie a stupefacenti doti immaginifiche degli stessi interpreti, sollecitate in vario modo da quanti usufruiscono della loro inventiva. L’interesse politico, abilmente camuffato da intransigente rispetto della legalità e dei diritti fondamentali, è una frode costituzionale che deve essere se possibile smascherata e portata alla luce del sole così da farla sembrare esattamente quello che è, cioè convenienza per qualcuno e per qualcosa. Ecco perché, a proposito del “caso” apertosi in ordine all’incandidabilità sopravvenuta del sen. Berlusconi, occorre ribadire che la inevitabile decadenza di quest’ultimo non è frutto di un legislatore maldestro e superficiale che attenta ai diritti politici dei cittadini e che, a monte, la condanna definitiva del leader del centrodestra non sembra proprio essere stata confezionata ad arte da infedeli funzionari dello Stato che vestono la toga per sottrarre delittuosamente a Berlusconi il consenso popolare di cui gode. La possibilità che Berlusconi continui a rivestire cariche pubbliche anche di origine elettiva non dovrebbe passare più, al punto in cui siamo, dalla strada del rispetto del diritto e neppure, sino a prova contraria, da fantasiose prospettive istituzionali quale la concessione della grazia presidenziale che, ammesso e non concesso possa essere ricevuta a tamburo battente, certamente non potrebbe restituirgli la capacità elettorale indiscutibilmente compromessa per i prossimi sei anni. Se resteranno in vigore le attuali norme della c.d. legge Severino, l’“agibilità politica” di Berlusconi – comunque non più candidabile sino al 2019 – non potrà che dipendere esclusivamente dalla “politica” che ben potrebbe, magari a scrutinio segreto, mischiando retorica della “pacificazione” e primato del “consenso popolare”, decidere di confermarlo nella carica di senatore. Tale decisione potrebbe essere persino riconfermata dal Senato, se a Berlusconi fosse lasciato il seggio parlamentare disattendendo la norma sull’incandidabilità, quando, determinata dal Giudice la durata dell’interdizione temporanea dai Pubblici Uffici, la decadenza dovrà essere comunque formalmente deliberata da quel ramo del Parlamento Italiano. È ovvio che, specie in quest’ultimo caso, si aprirebbe un inquietante conflitto tra organi parlamentari ed autorità giudiziaria (che non si registra oggi a proposito dell’incandidabilità) dallo sbocco imprevedibile anche se a definirlo fosse chiamata la Corte costituzionale e che nessuna persona di buon senso dovrebbe augurarsi. Ma è altrettanto noto che da sempre, nella storia delle Comunità politiche non più governate dal sovrano legibus solutus, gli uomini di buon senso si relazionano e si mescolano inevitabilmente con altri uomini che di buon senso ne posseggono meno o non ne hanno proprio; la prevalenza di questi ultimi è sempre possibile e deve essere accettata, ma non è indifferente per il futuro di quella Comunità.

Postilla

Nel mentre chiudo questa nota (28 settembre 2013), apprendo dalle agenzie che Berlusconi ha invitato i Ministri esponenti del suo partito a rassegnare le dimissioni aprendo di fatto la crisi di Governo per ragioni chiaramente pretestuose. Già qualche giorno prima (25 settembre), in effetti, i gruppi parlamentari congiunti del partito berlusconiano (tornato nel frattempo a chiamarsi Forza Italia), avevano preannunciato dimissioni collettive – già da tempo paventate – dei loro aderenti in vista della ripresa dei lavori della competente Giunta del Senato (4 ottobre) che dovrebbe arrivare, previa contestazione dell’elezione, a proporre al Plenum la decadenza di Berlusconi. Tale eventualità è stata considerata dalla componente parlamentare berlusconiana senza mezzi termini una inevitabile reazione nei confronti della realizzazione di un vero e proprio “colpo di Stato” che si concretizzerebbe ove venisse disposto l’allontanamento del leader del centrodestra dal Senato della Repubblica. A tale proposito il Presidente Napolitano ha, il giorno seguente (26 settembre) diramato una breve ma finalmente chiara e ferma nota nella quale definisce “inquietante” l’annuncio di dimissioni in massa dal Parlamento, affermando, senza più titubanze, che “l’applicazione di una sentenza di condanna definitiva, inflitta secondo le norme del nostro ordinamento giuridico per fatti specifici di violazione della Legge, è dato costitutivo di qualsiasi Stato di diritto in Europa”. Semplici parole di buon senso.