“Centri di permanenza temporanea e assistenza” (Cpta): Amnesty International denuncia le pratiche detentive dell’Italia (a cura e con un commento di G. Bucci e L. Patruno)

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OSSERVAZIONI PRELIMINARI ALLA LETTURA DEL RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL SUI CENTRI DI PERMANENZA TEMPORANEA ED ASSITENZA (CPTA)

Gaetano Bucci e Luciano Patruno

Il rapporto di Amnesty International, intitolato «Italia – Presenza temporanea, diritti permanenti. Il trattenimento dei cittadini stranieri detenuti nei “centri” di permanenza temporanea” (CPTA)», esprime rilevanti preoccupazioni sulla situazione degli immigrati irregolari ed anche dei richiedenti asilo colpiti dai decreti di espulsione o di respingimento e “trattenuti”, in attesa di essere allontanati dall’Italia, nei “Centri di permanenza temporanea e assistenza” (CPTA).
Migliaia di cittadini stranieri, a causa del tentato o dell’effettivo ingresso o soggiorno irregolari, sono privati, infatti, della libertà personale e detenuti, nei CPTA, per un periodo massimo di 60 giorni, finché non viene data attuazione al decreto di espulsione o finché non sia stato raggiunto il limite massimo di detenzione. Il trattenimento costituisce la modalità organizzativa, prescelta dal legislatore, per rendere possibile, nei casi previsti dall’art. 14, 1° Co., del Lgs. 25 Luglio 1998, n. 286, che lo straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, sia accompagnato alla frontiera ed allontanato dal territorio nazionale.
La Legge n. 189 del 2002 (c.d. Legge Bossi-Fini) ha reso, del resto, l’accompagnamento coattivo alla frontiera lo strumento ordinario di esecuzione dei provvedimenti di allontanamento (vedi: art. 13, 4° Co., D.Lgs. n. 286 del 1998: T.U. sull’immigrazione).
Le preoccupazioni espresse dall’Associazione, in relazione al trattamento ed alle condizioni di detenzione cui sono sottoposti gli immigrati irregolari, trovano fondamento nelle numerose e coerenti denunce effettuate dalle persone detenute, dagli avvocati, dai medici, dagli attivisti dei movimenti e delle organizzazioni non governative (ONG), dai religiosi, dai giornalisti, dai parlamentari specie dell’opposizione, e dai sindacati di polizia.
Le denunce evidenziano l’esistenza di trattamenti e di condizioni detentive contrastanti con le previsioni della normativa costituzionale ed internazionale in materia di diritti inviolabili della persona umana.
Il rapporto redatto da Amnesty International analizza, in generale, le varie tipologie di Centri istituiti ai fini della detenzione degli stranieri irregolari e le funzioni da essi svolte ed evidenzia, in particolare, la illegittima e degradante situazione in cui, molti di essi, versano. Sulla base di queste premesse si chiede, alle autorità italiane, una revisione radicale delle politiche, della legislazione, dei procedimenti amministrativi nella materia relativa alle condizioni ed al trattamento degli immigrati irregolari e dei richiedenti asilo.
Si sollecita, in particolare, sia il recepimento delle «Linee-guida su tutti gli stadi del procedimento di “rimpatrio forzato”» adottate, il 9 Maggio 2005, dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (il cui testo è riprodotto, integralmente, nell’Appendice 3 allegata al rapporto), sia l’adeguamento al diritto internazionale in materia di diritti fondamentali ed ai principali standard internazionali già applicabili alle persone detenute nei CPTA e nei Centri d’identificazione.
Il documento redatto da Amnesty International consente, quindi, di prendere coscienza della situazione di fatto esistente nei CPTA ove vengono reclusi, in condizioni precarie e degradanti, gli immigrati irregolari considerati “clandestini”. Appare, tuttavia, opportuno, al fine di agevolare la lettura del rapporto, premettere una sintetica ricognizione del contesto normativo e giurisprudenziale relativo alla materia del trattenimento nei CPTA.
Questi Centri sono stati istituiti, nel 1998, dalla c.d. Legge Turco-Napolitano (v. art. 12 Legge 6 Marzo 1998, n. 40). L’art. 14 del T.U. sull’immigrazione (D.Lgs. 25 Luglio 1998, n. 286) dispone che nei casi in cui sia stata disposta l’espulsione con accompagnamento alla frontiera, ma non si possa procedere con immediatezza all’allontanamento dello straniero, perché occorre procedere al soccorso dello stesso, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l’indisponibilità del vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, il questore può disporre che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea ed assistenza più vicino. Il questore del luogo in cui si trova il centro trasmette copia degli atti al giudice, senza ritardo e comunque entro le quarantotto ore dall’adozione del provvedimento (v. art. 14,3° co., D.Lgs n. 286/1998).
La Corte Costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi, sulla legittimità costituzionale dell’art. 14 del T.U. sull’immigrazione, con la sentenza 10 Aprile 2001 n. 105. La Corte, dopo aver ribadito che «il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione», ha confermato, tuttavia, la legittimità del disposto dell’art. 14 del T.U. perché rispettoso dell’art. 13, 3° co., Cost. e della relativa riserva di giurisdizione, in quanto la convalida del giudice (v. art. 14,4° co., D.Lgs. n. 286 del 1988) investe non solo il trattenimento, ma anche l’espulsione amministrativa nella sua specifica modalità di esecuzione consistente nell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica.
Occorre specificare, a questo proposito, che il giudice a quo aveva, invece, interpretato l’art. 14 del T.U. sull’immigrazione nel senso che permettesse al giudice l’esame del solo provvedimento di trattenimento.
La c.d. Legge Bossi-Fini (Legge 30 Luglio 2002, n. 189) ha, poi, allungato i termini. Il trattenimento può, infatti, essere adesso disposto fino a sessanta giorni (trenta più trenta: vedi, art. 14,5° co., D.Lgs. n. 286 del 1998). La convalida comporta, cioè, la permanenza nel centro per un periodo di complessivi trenta giorni, ma il giudice, su richiesta del questore, può prorogare il termine di ulteriori trenta giorni, qualora «l’accertamento dell’identità e della nazionalità, ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà». La normativa previgente prevedeva che la convalida comportasse la permanenza nel centro per un periodo di complessivi venti giorni. Il giudice, su richiesta del questore, poteva prorogare il termine sino ad un massimo di ulteriori dieci giorni, qualora fosse imminente l’eliminazione dell’impedimento all’espulsione o al respingimento. Il questore poteva, comunque, eseguire l’espulsione o il respingimento non appena fosse stato possibile, dandone comunicazione al giudice senza ritardo. La Corte costituzionale si era pronunciata, sempre con la sent. n. 105 del 2001, anche su questo specifico punto. Alcuni giudici avevano, infatti, sollevato il dubbio di legittimità costituzionale della norma (v. art. 14,5° co., del D.Lgs. n. 286 del 1998, non ancora modificato dalla Legge n. 189 del 2002) «nella parte in cui prevede che la convalida del provvedimento del questore comporta la permanenza nel centro per un periodo di complessivi venti giorni e non prevede che la permanenza nel centro consegua a provvedimento motivato dall’autorità giudiziaria per il periodo di tempo da questa indicato, nel rispetto del limite massimo di venti giorni».
La Corte ha osservato, a questo proposito, che: «il legislatore, con valutazione […]non affetta da irragionevolezza, ha ritenuto che, per rimuovere gli impedimenti all’esecuzione del provvedimento di espulsione, sia necessario un periodo di tempo che può giungere al massimo a venti giorni, prorogabili di ulteriori dieci giorni a richiesta del questore, limite varcato il quale è da ritenersi che il trattenimento perda efficacia».
Essa ha, comunque, specificato che «non si tratta di un tempo di restrizione della libertà personale che deve essere consumato interamente». L’art. 14, 1° co., del T.U. dispone, infatti, che lo straniero deve essere «trattenuto “per il tempo strettamente necessario” e, quindi, concorrendone le condizioni, la misura deve cessare prima dello spirare del termine ultimo». La Corte ha, inoltre, sostenuto che «il fatto che la convalida si riferisca all’operato dell’autorità di pubblica sicurezza e, insieme, costituisca titolo per l’ulteriore trattenimento fino al limite dei venti giorni, non comporta alcuna violazione della riserva di giurisdizione posta dall’art. 13 della Costituzione, giacché il trattenimento convalidato è riferibile, sia per la restrizione già subita, sia per il periodo residuo entro il quale può protrarsi, ad un atto motivato dell’autorità giudiziaria».
I pronunciamenti della Corte non hanno, tuttavia, sopito i dubbi, della dottrina e della giurisprudenza, sulla legittimità in sé e sulla corretta individuazione dei parametri di legittimità e di ragionevolezza del trattenimento nei centri di permanenza. Questi nodi sono destinati a ritornare al pettine, come, del resto, è dimostrato dal susseguirsi di numerose ordinanze di remissione.
Il trattenimento nei centri di permanenza è, invero, un istituto che segna un arretramento rispetto alle conquiste della civiltà giuridica. Si tratta, infatti, di una vera e propria detenzione amministrativa che incide, pesantemente, sul diritto inviolabile alla libertà personale. Un diritto riconosciuto, pacificamente, anche agli stranieri.
Si è rilevata l’abissale distanza fra l’istituto del trattenimento dello straniero, che si colloca in una dimensione esclusivamente amministrativistica, ed il paradigma della coercizione personale che, nel nostro ordinamento, è rappresentato dalle misure cautelari previste dal codice di procedura penale, misure la cui applicazione è circondata da rigorose garanzie relative sia ai presupposti applicativi (la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine alla commissione di gravi reati), sia alla funzione (le esigenze cautelari previste dal codice).
Nel caso del trattenimento dello straniero (art. 14, D.Lgs, n. 286 del 1998) la dimensione amministrativistica emerge, invece, sia con riferimento alla fattispecie-base (l’ingresso illegale in Italia costituisce un mero illecito amministrativo), sia con riferimento alla funzione svolta nel sistema dal D.Lgs. n. 286 del 1998 (assicurare effettività ai provvedimenti di espulsione).
La latitudine dei presupposti applicativi, alcuni dei quali del tutto svincolati dalla condotta dello straniero da espellere (ad esempio, la indisponibilità di un vettore), conferisce, del resto, alla detenzione amministrativa un ruolo di assoluto rilievo nel governo dell’immigrazione irregolare.
Il migrante irregolare viene, insomma, assoggettato ad un vero e proprio diritto speciale che fa leva sulla dimensione non penalistica allo scopo di neutralizzare le garanzie sostanziali e procedurali proprie dell’ordinamento penale.
La detenzione amministrativa si fonda, infatti, su misure coercitive della libertà personale che, nel sistema penale, rivestono carattere di eccezionalità. Essa assume, pertanto, un significato univoco, ossia quello di essere uno strumento di segregazione legato ad una condizione individuale: la condizione di immigrato (Cfr., A.Caputo, L’immigrazione, ovvero la cittadinanza negata, in AA.VV., Attacco ai diritti, a cura di L. Pepino, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 44,45).
L’art. 13 della Costituzione sancisce un principio di civiltà irrinunciabile, ossia «il diritto alla libertà personale di chiunque sia nato da donna» e, quindi, «di chiunque appartenga alla specie umana». La legislazione vigente in Italia, a distanza di circa tre secoli dall’affermazione, nella civiltà giuridica, della garanzia dell’habeas corpus, sembra abbandonare, invece, la persona trattenuta dall’autorità di polizia nella disponibilità fisica del potere esecutivo.
Si osserva, infatti, che la libertà personale viene limitata senza un procedimento e senza un atto dell’autorità giudiziaria, ma solo con un semplice atto amministrativo. Un atto, certamente, impugnabile ma dinanzi al giudice di pace (vedi, art. 1, Legge 12 Novembre 2004, n. 271), ossia dinanzi ad un giudice che, non essendo un giudice ordinario, offre meno garanzie. In «attesa della definizione del procedimento di convalida lo straniero espulso è trattenuto in uno dei centri di permanenza temporanea» (vedi, art. 1, co. 5-bis, della Legge 12 Novembre 2004, n. 271), ossia in uno di quei centri «dove, indiscriminatamente, vengono rinchiusi rifugiati, richiedenti asilo e cittadini stranieri entrati in modo irregolare». Contro il decreto di convalida è proponibile ricorso per Cassazione, anche se tale ricorso «non sospende l’esecuzione dell’allontanamento dal territorio nazionale» (vedi, art. 1, co. 5-bis, Legge n. 271 del 2004), sicché esso «può dare esito quando l’espulsione è già stata eseguita».
A fronte di queste osservazioni sorge legittima una domanda: «La libertà personale può essere assicurata in un campo di costrizione? […] Perché esseri umani che non emigrano per turismo, ma perché privati della libertà e del diritto alla vita devono essere costretti in campi di reclusione?».
A questa domanda la legislazione italiana «non risponde, o meglio risponde male, negando i diritti alla libertà personale» e ponendosi in contrasto «con il significato dell’art. 13, con la nostra civiltà giuridica» ed, in particolare, con «l’alta concezione della persona umana» espressa dalla nostra Costituzione. Essa rispecchia «una visione del mondo che fu comune ai grandi filoni del pensiero e dell’azione del movimento democratico europeo di ispirazione marxista, cristiano democratica e liberale: un documento normativo che segna un impegnativo passo avanti del pensiero politico europeo nato nell’illuminismo».
La legislazione vigente, in materia di immigrazione, sembra, invece, alludere ad una visione dei rapporti umani, e della stessa persona, non compatibile con le conquiste della civiltà giuridica» (Cfr., l’intervista rilasciata da G. Ferrara a Il Manifesto del 2 Luglio 2005 e contenuta nell’articolo, a cura di A. Massari, La Bossi-Fini mina la civiltà giuridica, p. 9 ).
Si assiste, infatti, al dispiegarsi di un generale processo di amministrativizzazione dei diritti inviolabili di tutti (cittadini comunitari e non) ed allo strutturarsi «di un mondo nascosto che coinvolge le forme del governo politico e del controllo sociale nelle società occidentali e che vede una drastica compressione degli spazi di libertà, frequenti violazioni delle garanzie giuridiche, modifiche striscianti delle Costituzioni: un mondo […] fatto di leggi incostituzionali, di circolari e regolamenti riservati, […] di violazione delle tutele, dei diritti e delle libertà fondamentali, di nuove pratiche di controllo e di discriminazione» (Cfr., A. Burgio, Guerra, scenari della nuova grande trasformazione, Derive Approdi, Roma, 2004, p. 142; I. Gjergji, L’ospitalità dei campi, in AA.VV., CPT: né qui né altrove, a cura di R. De Luca, M.R. Panareo, Manni, Lecce, 2004, pp. 81 ss.).
Di fronte a questi gravi «segnali di arretramento […] è dovere di ogni costituzionalista battersi perché i principi della Costituzione si realizzino». Questi principi sono, in primo luogo, quelli «della libertà e dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani» (Cfr., G. Ferrara, intervista, cit.).

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Il rapporto di Amnesty International, che si propone all’attenzione dei lettori, riflette la forte preoccupazione in merito alla compatibilità dei centri di permanenza temporanea – attualmente funzionanti in Italia, in cui, a vario titolo, sono detenuti cittadini stranieri (migranti irregolari e richiedenti asilo) – con alcuni elementari principi di civiltà giuridica.
Il rapporto sottolinea specifici e circostanziati dati di fatto, idonei a integrare la violazione delle leggi e degli standard internazionali posti a tutela dei diritti umani fondamentali dei richiedenti asilo e dei migranti.
In particolare, il rapporto segnala: a) l’incremento esponenziale delle denunce relative ai maltrattamenti fisici e alle precarie condizioni di vita cui i detenuti sono costretti, in uno stato permanente di mancata (o meramente occasionale) assistenza sanitaria e legale; b) la crescente restrizione dell’accesso ai centri, accesso ripetutamente negato all’Ufficio dell’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite, agli stessi rappresentanti di Amnesty International, agli esponenti delle principali Organizzazioni non governative operanti nel campo dell’asilo e dell’immigrazione, a parlamentari italiani, giornalisti e attivisti religiosi; c) il disconoscimento dello status dei richiedenti asilo, illegalmente trattenuti nei centri di permanenza temporanea per poi essere rimpatriati; d) l’ormai cronica confusione e scarsa distinzione delle funzioni dei vari tipi di centri ultimamente denominati “centri polifunzionali”; e) l’assenza di un organismo nazionale indipendente di controllo e di ispezione, munito del mandato di effettuare visite “a sorpresa”, così come stabilito dagli standard internazionali.