La certezza del diritto al crocevia tra dinamiche della normazione ed esperienze di giustizia costituzionale*


SOMMARIO: 1. La certezza del diritto e il diritto come certezza.- 2. La ratio della scrittura costituzionale, in funzione della certezza, e i suoi possibili eccessi, conseguenti ad un uso “congiunturale” o “occasionalistico” degli strumenti di normazione costituzionale, come causa di diffuse e gravi incertezze.- 3. La produzione a ritmi incalzanti di norme, la sua complessiva connotazione irragionevole, il bisogno di mantenere il giusto mezzo tra diritto scritto e diritto non scritto, al servizio della certezza.- 4. I due piani su cui le vicende della normazione si prestano ad essere compiutamente osservate, quello della teoria delle fonti e l’altro della teoria della giustizia costituzionale.- 4.1. Il “metadiritto” alla certezza dei diritti (e, in genere, delle situazioni soggettive) e la sua incisione in conseguenza del carattere instabile della normazione, soggetta ad incessante rinnovamento.- 4.2. Lo ius superveniens e l’ostacolo da esso frapposto alla formazione del c.d. “diritto vivente”.- 4.3. Interpretazione conforme a Costituzione e manipolazione dei testi, nelle esperienze di giustizia costituzionale, e i loro riflessi sulla certezza (con specifico riguardo alle additive di principio).- 4.4. La certezza e il “gioco” assiologico da essa intrattenuto, in relazione ad alcuni meccanismi della giustizia costituzionale (ancora in tema di natura ed effetti delle sentenze di rigetto).- 4.5. La certezza in rapporto della struttura nomologica degli atti portati al giudizio della Corte e della struttura degli interventi da quest’ultima operati. L’avocazione all’alto della certezza, in ambito sovranazionale, e i complessi, problematici rapporti tra Costituzione nazionale e Costituzione europea (e tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia).

1. La certezza del diritto e il diritto come certezza È stato più volte, non a torto, fatto notare che non v’è, forse, concetto più… oscuro di quello della certezza del diritto. In realtà, più che oscuro il nostro “bene” – ché di questo, a conti fatti, si tratta – è impalpabile: un po’ come l’aria, che non la vediamo ma di cui abbiamo un disperato bisogno per sopravvivere. Non è agevole (anzi, diciamo pure che è estremamente scivoloso) stabilire su quali basi far poggiare l’ennesima riflessione sulla certezza, dopo che pensatori sommi sin dall’antichità ne hanno fatto oggetto di studio da prospettive e per esigenze di analisi le più varie. Il rischio di cadere nella banalizzazione è dietro l’angolo, pervenendo, a seconda dei casi, ad esiti ricostruttivi palesemente parziali e riduttivi (e, perciò, a conti fatti, distorsivi), ovvero a forme ugualmente indebite di enfatizzazione, risultanti dal sovraccarico di significati, che, di tutta evidenza, non possono essere sopportati dalla formula in esame. Il rischio, insomma, è ora quello di un complessivo impoverimento dell’idea, ora all’inverso dell’imputazione ad essa di aspettative o attese che non possono essere, se non in una ridotta misura, appagate. Fortemente problematico è, in partenza, separare o, come che sia, tenere in qualche modo distinti gli elementi di cui la formula si compone. La certezza non è, infatti, del diritto, al pari di altri attributi che ne danno la complessiva caratterizzazione. Piuttosto, la certezza è diritto, così come, circolarmente, il diritto è certezza, se è vero che il diritto, nella sua accezione normativa (non la sola, come si sa, ma di certo una delle sue più immediatamente qualificanti espressioni), inteso cioè come regola (o insieme di regole), si costituisce allo specifico fine di dare certezza, anzi: certezze1. Ricordiamo tutti il celeberrimo passo di Aristotele2, nel quale si afferma esser “preferibile, senza dubbio, che governi la legge, più che un qualunque cittadino”, dal momento che, “anche se è meglio che governino alcuni, costoro bisogna costituirli guardiani delle leggi e subordinati alle leggi”. Sta proprio qui, infatti, la radice, tuttora vitale ed insostituibile, dello Stato di diritto, dall’avvento delle Carte costituzionali liberali perfezionato in “Stato di diritto costituzionale”, ma non sostanzialmente alterato nella sua originaria, genuina essenza. E il governo dei nomoi ha come sua ratio immanente la prevedibilità (e, dunque, la certezza3) dei comportamenti e, per ciò pure, della loro qualificazione. Una prevedibilità a riguardo della quale è stato fatto magistralmente notare4 che essa costituisce “il motivo per il quale la legge non ragiona di cose particolari e presenti ma di cose future e generali, secondo la geniale intuizione di Aristotile. In questo la legge rende possibile la continuità, che lega l’azione presente all’azione futura, che lega gli uomini gli uni con gli altri e addirittura che lega – lo ha osservato con vera profondità Bentham – la generazione presente alla generazione futura”. Una prevedibilità che, prima ancora di affermarsi sul piano della normazione di ordine sostanziale e di poi, discendendo, ai piani dell’applicazione5, ha bisogno di affermarsi in modo pieno sul piano della normazione di ordine strumentale, avuto cioè riguardo alla disciplina dei processi di produzione giuridica. Non a caso, si è ancora da ultimo fatto giustamente osservare6 esser inconcepibile la retroattività delle norme sulla normazione: una retroattività, invece, usualmente consentita sul piano sostantivo (con la sola nota eccezione per la materia penale), ancorché idonea a porre appunto in stato di evidente sofferenza la certezza, oltre che a dar vita ad altri inconvenienti ancora7, alla condizione che trovi giustificazione in altri valori costituzionali, preminenti in sede di “bilanciamento” con la certezza stessa. Un “bilanciamento” i cui esiti non possono, per la più rigorosa e persuasiva ricostruzione, considerarsi mai aprioristicamente scontati o appaganti ma piuttosto richiedono di essere sottoposti a scrupolosa e rigorosa verifica, quale può specificamente aversi in sede di giudizio sulla validità delle norme. S’inverte, al riguardo, a mia opinione, la presunzione di validità che usualmente assiste gli atti di normazione (ma: gli atti giuridici in genere), proprio a motivo della ferita inferta dagli atti ad efficacia retroattiva alla certezza, quale canone ordinatore (misura e fine ad un tempo) dei processi nomogenetici, e si impone piuttosto il bisogno di dimostrare, malgrado la ferita stessa, la complessiva validità, in prospettiva assiologicamente orientata, degli atti prodotti, in rapporto a fini-valori che ne diano in concreto la giustificazione (di qui, inoltre, la necessità che gli atti in parola si dotino di un congruo apparato motivatorio a proprio sostegno). Non è ora consentito di intrattenersi con la necessaria diffusione sul rapporto che dinamicamente s’instaura e svolge tra norme sostantive e metanorme, rivisto dalla peculiare prospettiva della certezza del diritto. Di sicuro, si danno molteplici e rilevanti implicazioni, a doppio senso di marcia. Per un verso, infatti, il modo complessivo con cui sono fatte le norme della seconda specie (si potrebbe dire, in una parola, pure caricata di sensi non sempre univocamente intesi, la loro “qualità”) si riflette immediatamente sulle norme del primo tipo, avviando e determinando l’impianto di processi produttivi ora virtuosi ora – il più delle volte – viziosi8. Per un altro verso, però, anche il modo con cui si fa e senza sosta rinnova la normazione sostanziale ha un suo evidente “ritorno” sui modelli nomogenetici, riflettendosi sulla loro capacità di tenuta e, perciò, a conti fatti, sulla loro stessa esistenza. Non è un caso se, a fronte di un certo modo complessivo di essere della normazione, universalmente deprecato e considerato non più tollerabile, s’invocano in primo luogo rimedi di ordine radicale, specificamente riguardanti le tecniche della normazione ed aventi il loro costante punto di riferimento proprio nella certezza. Rimandando su tutto ciò, per gli opportuni svolgimenti, ad altre sedi, nonché per taluni aspetti a quanto se ne dirà anche più avanti, una prima, generalissima conclusione, alla luce delle notazioni introduttive appena fatte, è da tener ferma. Ed è che un diritto non “certo” non è, unicamente, un diritto privo di uno dei suoi attributi, così come può essere un corpo mutilo di un organo che, pur ridotto nella propria funzionalità, non per ciò smarrisca la propria identità; piuttosto, non è più (se mai è stato…) diritto, in sé e per sé, non è insomma verum ius9. Semmai la questione non sta nell’alternativa tra un diritto certo ed un diritto incerto – la qual cosa è, appunto, metodicamente e teoricamente impensabile – bensì nella determinazione del “tasso”, se così vogliamo dire, di certezza di cui il diritto ha bisogno per costituirsi e trasmettersi. Pure così posta, la questione rischia di essere mal posta: vuoi per il fatto che la mera quantità, non accompagnata e sorretta dalla qualità, serve a ben poco, specie per ciò che concerne la soddisfazione di bisogni che sono, ad un tempo, valori (o, meglio, che si prestano ad essere giuridicamente qualificati in prospettiva assiologicamente orientata) e vuoi per il fatto che quantità e qualità non si ripetono in modo piattamente uniforme, rimanendo dunque sempre identiche a sé, ma piuttosto variano in ragione dei casi della vita, delle esigenze complessive da essi espresse, dei campi di esperienza giuridica in cui se ne ha riscontro, dei fini o ancora degli effetti di volta in volta in rilievo. Un dato sembra tuttavia innegabile; ed è che della certezza risulta ormai ampiamente provata la naturale, irresistibile vocazione alla massima, alle condizioni storicamente date, espansione possibile. E, così come dei valori costituzionali in genere si predica la loro natura tendenziale, che li porta a crescenti pretese di appagamento, ugualmente della certezza non può dirsi essere un “dato”, che si ha ovvero non si ha, ma piuttosto un fine, che pur laddove sia in apprezzabile misura conseguito, manifesta l’incessante bisogno di ulteriori realizzazioni. In questo la certezza è – come dire? – una sorta di meta mobile, al pari dell’orizzonte, che non può dirsi mai pienamente raggiunta ma che si sposta di continuo in avanti, richiedendo prestazioni al suo servizio sempre crescenti, più intense, adeguate. 2. La ratio della scrittura costituzionale, in funzione della certezza, e i suoi possibili eccessi, conseguenti ad un uso “congiunturale” o “occasionalistico” degli strumenti di normazione costituzionale, come causa di diffuse e gravi incertezze La storia è, una volta di più, maestra. Lo Stato di diritto costituzionale deve la sua fortuna proprio alla certezza10. È nato per dare, ad un tempo, certezza del diritto costituzionale e certezza dei diritti costituzionali. La lotta per la Costituzione, che ha infiammato l’Europa ai primi decenni del secolo XIX, ha proprio qui, come si sa, la sua giustificazione: nello sforzo poderoso, al tempo compiuto, per dare nuove regole, essenzialmente di diritto scritto, idonee a prendere il posto di quelle non scritte, su cui poggiava il dominio incontrollabile del sovrano, e per connotare le regole stesse all’insegna della salvaguardia di uno status civitatis (e non più meramente subiectionis) della persona umana precedentemente insussistente, siccome privo degli elementi essenziali alla salvaguardia della dignità della persona stessa11. Si noti, al riguardo, subito un fenomeno, a tutta prima, paradossale, su cui gioverebbe, a mia opinione, avviare una riflessione scevra di ogni preorientamento ideologico o di dottrina12. La scrittura costituzionale (e mi riferisco ora specificamente alle Costituzioni nella loro accezione liberale, lungi da ogni pretesa di generalizzazione teorica, decontestualizzata e, perciò, storicamente inattendibile) si è prepotentemente affermata – come si è appena rammentato – per reazione all’assolutismo regio dei secoli immediatamente precedenti la rivoluzione francese, alimentatosi da regole di diritto “costituzionale” non scritto. La certezza dei diritti fondamentali, conseguita grazie alle Carte strappate al sovrano dai moti rivoluzionari di primo Ottocento, ha fatto, dunque, tutt’uno con una certezza del diritto costituzionale, obiettivamente inteso e considerato appunto bisognoso di “razionalizzazione” per il tramite della scrittura al fine di potersi pienamente affermare. Le vicende successivamente maturate hanno quindi portato, per ragioni a tutti note e che non occorre dunque qui esplicitare, ad un’ulteriore crescita della scrittura costituzionale ed al suo complessivo arricchimento, come pure, parallelamente, all’allestimento di procedure e sedi istituzionali adeguate a preservarla (cioè, a preservarne la rigidità). Si spiega, infatti, in questa luce l’avvento, a partire dal secondo dopoguerra, di Costituzioni usualmente definite come “lunghe” e rigide. Il punto è che, specie negli anni a noi più vicini (e per ragioni legate al quadro politico ed ai modi della sua affannosa evoluzione in corso, segnata da una esasperata contrapposizione tra le forze politiche dei due “poli”, nonché da una ugualmente elevata competizione interna a ciascuno di essi), ha sempre di più preso piede la tendenza alla elaborazione di progetti volti a riformare, in maggiore o minore (ma pur sempre consistente) ampiezza, il dettato costituzionale. Una progettazione che, pur laddove ex professo circoscritta alla sola parte organizzativa della Carta, si riflette, in realtà, inevitabilmente anche sulla prima parte (e, perciò, sui diritti)13. In tal modo, la certezza del diritto costituzionale viene a trovarsi doppiamente esposta. Una prima volta, per la ragione appena indicata, che vede i vecchi diritti astrattamente non rimessi in discussione ma in realtà sottoposti ad uno stress particolarmente accentuato, senza che peraltro risulti affatto chiaro (e… certo) quale potrà esserne la sorte (è, però, da temere che possa aversene un grave, forse irreparabile, pregiudizio). Una seconda volta, poi, per la ragione che l’uso “congiunturale” o “occasionalistico” – come ho ritenuto di doverlo altrove chiamare – che viene disinvoltamente ed irresponsabilmente a farsi degli strumenti di normazione costituzionale (e, di riflesso, della Carta dagli stessi assunta ad oggetto di revisione) mina alla radice l’edificio costituzionale, col fatto stesso di renderlo instabile (incerto, appunto), siccome soggetto a continuo rifacimento. L’inopinata conversione del bipolarismo politico, in via di affannoso radicamento nel nostro sistema, in una sorta di bipolarismo costituzionale, che vede le forze politiche di questo o quel colore irresistibilmente portate a riscrivere (o, come che sia, a minacciare di riscrivere) a propria immagine e somiglianza la Carta costituzionale, conduce fatalmente a far smarrire di quest’ultima proprio l’essenza, di “luogo” espressivo di valori omnicondivisi14. Si faccia caso. Pur laddove la progettata riforma della riforma non dovesse poi, per ragioni varie che non occorre qui indagare, giungere in porto, ugualmente il fatto stesso della sua prospettazione mette in circolo nel corpo sociale un virus micidiale, dal quale è difficilissimo (per non dire impossibile) difendersi, dal momento che subdolamente si alimenta l’erroneo convincimento dell’inservibilità della Carta, sì appunto da rendersi comunque necessario il suo mutamento, quali che ne siano poi i contenuti proposti per realizzarlo. Si diffonde, in tal modo, consuetudinariamente l’idea di una irreversibile delegittimazione della Carta; e – si badi – della Carta nel suo insieme, al di là dei distinguo, per ragioni di comodo o di facciata, da questa o quella parte fatti: dunque, della Carta anche (e soprattutto) nei suoi valori fondamentali. Ora, il paradosso, al quale si faceva cenno, sta proprio qui: che l’affermazione, agli esordi dell’esperienza liberale, nell’Europa continentale della scrittura costituzionale e il suo ulteriore prolungamento ed arricchimento con le Carte del secondo dopoguerra si sono fatti portatori di certezza del diritto costituzionale; solo che gli eccessi nella produzione o anche solo nella progettazione di innovazioni costituzionali, quali si hanno nel tempo presente, rischiano di ridondare automaticamente in fonti di gravi e diffuse incertezze. 3. La produzione a ritmi incalzanti di norme, la sua complessiva connotazione irragionevole, il bisogno di mantenere il giusto mezzo tra diritto scritto e diritto non scritto, al servizio della certezza Non v’è, poi, solo un fatto di ritmi nella produzione di norme costituzionali; v’è anche un fatto di contenuti o, meglio, di struttura degli enunciati e della loro complessiva caratterizzazione (della loro quantità e qualità assieme)15. La circostanza per cui norme materialmente costituzionali siano alle volte ospitate in atti non costituzionali per forma, come pure, all’inverso, che atti costituzionali esprimano norme in sé non costituzionali, non tanto per la materia regolata quanto per il modo della regolazione, siccome appunto caratterizzate da eccessiva minuzia di disposto, porta ad un innaturale mescolamento delle discipline, che è di per sé foriero di non poca confusione e di forte disorientamento per cittadini ed operatori. Il fenomeno ha una generale portata: la confusione dei “tipi” non si ha solo tra le leggi approvate con la procedura dell’art. 138 e le leggi comuni ma anche tra atti disposti al piano ordinario della normazione e, ancora, tra atti dei piani sottostanti. Si pensi solo all’uso indistinto di decreti delegati e regolamenti o alla irresistibile tendenza manifestata da questi ultimi a debordare dallo schema per essi stabilito nella legge 400 dell’88 (o in altre leggi ancora)16. Ciò che – a tacer d’altro – si traduce in forti incertezze specialmente in ordine ai controlli, col conseguente affievolimento delle garanzie delle posizioni soggettive riguardate dagli atti in parola. Si assiste, insomma, ad una complessiva irragionevolezza della produzione giuridica che scivola e si converte in diffuse e ormai pressoché sistematiche o endemiche incertezze. Si aggiunga, poi, l’uso disinvolto o, diciamo così, “libero” della prosa che connota i prodotti della normazione, a partire proprio da quelli rivestiti di forma costituzionale, richiedendosi pertanto sforzi non comuni e, alle volte, delle vere e proprie acrobazie al fine di dare un senso a ciò che ne è oggettivamente, strutturalmente privo ovverosia al fine di riportare ad unità concettuale, di quadro, elementi pur presenti in uno stesso documento che tuttavia esibiscono forti dissonanze linguistiche e problematiche concordanze interne17. Anche ciò suona, da un certo punto di vista, francamente strano e, nuovamente, quodammodo paradossale. Ormai è da anni diffusa la consapevolezza della necessità di porre in essere pratiche di drafting rigorose; e non pochi passi si sono fatti anche in sedi istituzionali (in ambito sia internazionale o sovranazionale che interno) a questo fine, senza che tuttavia si siano avuti apprezzabili risultati. Di contro, sempre di più si diffonde uno “stile” a dir poco discutibile (talora non si è esitato a definirlo “sciatto”18) di redazione dei testi normativi, tanto più foriero di guasti difficilmente riparabili laddove – come si faceva poc’anzi notare – riscontrato al piano costituzionale. Quasi che più tempo passa dalla stagione della Costituente e sempre di più si fatica ad imitarne lo stile sobrio e scorrevole di espressione, nell’intento di preservare l’obiettivo, mirabilmente raggiunto al momento della confezione della Carta e sintetizzato da Meuccio Ruini nel suo discorso d’insediamento della Commissione dei settantacinque, di aver una Costituzione “piana, semplice, comprensibile anche alla gente del popolo” e, “per quanto possibile, italiana”. È superfluo qui rimarcare come il bisogno di mantenere una ragionevole, tendenziale stabilità del quadro costituzionale non faccia a pugni (ma, anzi, armonicamente si leghi) col rinnovamento interno al quale il quadro stesso è incessantemente soggetto, col fatto stesso della produzione di regole non costituzionali per forma e tuttavia ugualmente idonee a riflettersi sulle pratiche interpretative degli enunciati costituzionali, dell’affermazione di nuovi indirizzi giurisprudenziali e metodi di amministrazione e, in genere, del rinnovamento dell’esperienza in ciascuna delle sue più radicate ed espressive manifestazioni. Colgo l’opportunità che mi è ora offerta per segnalare il rilievo che regole e regolarità della politica posseggono quali fattori di rigenerazione semantica degli enunciati costituzionali. Soprattutto nella presente stagione, caratterizzata da quella frenetica quanto improvvisata elaborazione di nuovi progetti di revisione costituzionale, di cui si diceva poc’anzi, può tornare utile (anzi, davvero prezioso) il “ritorno” ad un moderato, per estensione, ma intensamente espressivo diritto consuetudinario (e, in genere, ad un diritto costituzionale non scritto), reso inoffensivo nei riguardi dei diritti dall’ormai consolidato impianto dello Stato di diritto costituzionale e, rispetto al diritto scritto così com’è, foriero di minori incertezze19. E ciò, in quanto le divergenze interpretative, particolarmente accentuate in presenza di enunciati portatori di espressioni linguistiche improprie e concettualmente ambigue, possono ridursi di fronte a regole consuetudinarie (in senso proprio), siccome connotate dalla diuturnitas, che comportano minori disagi e fatiche nell’opera di riconoscimento dei connotati dei comportamenti e, perciò, delle regole agli stessi sottese. Similmente, può dirsi a riguardo di canoni, convenzionali e di altra natura ancora, che, ancorché non consuetudinari, si mostrino ad ogni modo ugualmente stabilizzati e, perciò, dotati di forte radicamento nel sistema politico-istituzionale e nella società (canoni, insomma, ad un tempo idonei a caratterizzare la forma di governo e la forma di Stato, le dinamiche che s’intrattengono in seno all’apparato governante e quelle che prendono corpo tra quest’ultimo e la comunità governata). Ragiono di una possibile riduzione dei margini aperti alle pratiche interpretative, dal momento che non si dà invero una regola fissa ed immutabile al riguardo. In fondo, è lo stesso che si ha coi segnali o coi simboli: in astratto suscettibili di generare in modo pressoché incontenibile significati sempre nuovi20 e, però, ugualmente idonei a dar vita, nel loro nucleo essenziale, a delle vere e proprie consuetudini interpretative convergenti per orientamento e nel fine (chi dubita, per fare solo il primo esempio che viene a mente, del significato posseduto dai colori di un semaforo?)21. Il punto cruciale della questione qui succintamente dibattuta è che sia il diritto scritto che il diritto non scritto debbono, ad ogni buon conto, uniformarsi ad un canone, metodico prima ancora che positivo, di normazione ispirato a ragionevolezza22. V’è, in breve, il bisogno di mantenere il giusto mezzo tra l’eccesso e il difetto della produzione di questa o quella specie di norme, così come nel modo della loro reciproca composizione e riduzione ad unità. Un diritto consuetudinario (e non scritto in genere) contenuto per ampiezza di campo e assiologicamente orientato nelle sue manifestazioni può, dunque, per la sua parte, offrire prestazioni di certezza (o, diciamo meglio, di maggiore certezza) ad un diritto scritto che, per ragioni varie (legate alla timidezza espressiva degli enunciati, di cui si compone, o ad altro), ne sia invece strutturalmente privo, stabilizzandone alcuni dei suoi possibili significati. In realtà, come si viene dicendo, il rapporto tra il diritto scritto e il diritto non scritto è di mutuo sostegno. Se non si ha questa consapevolezza, si rischia di non dare il giusto peso a ciascuna delle due componenti, in sé inautonome, di cui si compone l’esperienza giuridica ed, anzi, di snaturarle col fatto stesso di enfatizzare oltre misura le capacità espressive ora dell’una ed ora dell’altra. Il vero è che, per un verso, il diritto scritto segna il confine e, alle volte, anche il fine del diritto non scritto, avuto specifico riguardo alle norme di scopo e, ulteriormente specificando, alle norme di valore, che spingono vigorosamente l’esperienza a darvi la massima, alle condizioni storicamente date, attuazione. Ma, così come il diritto scritto delimita negativamente e sollecita positivamente al suo ulteriore sviluppo, dal suo canto il diritto non scritto, col disporsi a siffatta opera di realizzazione, dà modo al diritto scritto di espandersi e di inverarsi, allo stesso tempo in cui si rigenera senza sosta nel suo potenziale espressivo caricandosi di sempre nuovi significati in forza dell’opera di “riconformazione” semantica degli enunciati cui fa incessantemente (e sia pure talora impercettibilmente) luogo l’esperienza. È così che l’uno diritto si pone quale fondamento dell’altro, nella ristretta e propria accezione, secondo cui ciascuno dei termini della relazione si dispone a sorreggere l’altro e tutti assieme, circolarmente appunto, danno un senso complessivo alle dinamiche di cui si compone l’ordinamento. Ora, quest’equilibrio, in tanto può costituirsi e mantenersi, in quanto si connoti per l’intrinseca armonia tra i materiali normativi in campo. Ciò che – come si è venuti dicendo – si ha alla condizione che ciascuno di essi non vanti l’insana pretesa di sopraffare e distruggere l’altro bensì si contenga nelle sue manifestazioni e richieste di appagamento: secondo ragionevolezza, insomma, una ragionevolezza che – come si vede – è, per la sua parte, condizione di certezza. 4. I due piani su cui le vicende della normazione si prestano ad essere compiutamente osservate, quello della teoria delle fonti e l’altro della teoria della giustizia costituzionale Il rinnovo a ritmi innaturalmente incalzanti della normazione, persino al piano costituzionale, è gravido di molteplici implicazioni, ancora solo in parte studiate, in generale così come (e ancora di più) dal peculiare angolo visuale e per le specifiche esigenze della certezza. Il fenomeno si presta ad essere riguardato da prospettive diverse e per fini ricostruttivi parimenti diversi. Prospettive che l’analisi può, per un fatto di chiarezza, tenere distinte ma che, una volta di più, solo nella loro congiunta considerazione (ed anzi nella loro stessa compenetrazione ed immedesimazione) possono portare ad inquadramenti non parziali ma complessivamente appaganti. Essenzialmente, le vicende della normazione, fatta specifica attenzione a quelle che prendono corpo al piano primario della scala gerarchica, possono essere riguardate sul piano della teoria delle fonti e su quello della teoria della giustizia costituzionale: i due piani dal cui incrocio, nel modo più nitido, si coglie ed apprezza una teoria della Costituzione assiologicamente orientata, nella quale, per ragioni che non mi è ora dato di esplicitare, da tempo mi riconosco. Quali conseguenze possano aversi per la certezza del diritto in ragione di un uso incontrollato dei meccanismi della produzione giuridica è presto detto. 4.1. Il “metadiritto” alla certezza dei diritti (e, in genere, delle situazioni soggettive) e la sua incisione in conseguenza del carattere instabile della normazione, soggetta ad incessante rinnovamento In primo luogo, viene ad essere inciso, nella sua stessa essenza, un diritto fondamentale, anzi un vero e proprio “metadiritto”, quello appunto alla certezza dei diritti, che – come si è poc’anzi rilevato – fa tutt’uno con la certezza del diritto23. E ciò, in quanto, nel momento stesso in cui le situazioni giuridiche soggettive, oggetto di normazione, sono tenute in uno stato di perenne instabilità, legato al mutare continuo delle discipline positive, è, a mia opinione24, pregiudicato un diritto fondamentale, direttamente protetto dall’art. 2 della Carta ovvero – se più piace dire così – dallo stesso presupposto, non riuscendosi ad immaginare la sopravvivenza di alcun diritto inviolabile in seno ad un quadro normativo caratterizzato da forte instabilità. Sappiamo tutti che le leggi, al pari di ogni altro atto o attività, sono soggette a divenire e, perciò, a mutamento: un mutamento che, con la sua stessa esistenza, comporta costi alle volte non lievi (ad es., una fisiologica diseguaglianza di tipo diacronico), seppur compensati (“bilanciati”) dal conseguimento di benefici presuntivamente maggiori. Prova troppo, dunque, legare in modo inscindibile la tutela dell’affidamento ad una stabilità dell’assetto normativo tale da innaturalmente tradursi nella sua pietrificazione25. L’affidamento, invece, legittimamente reclama, questo sì, la ragionevolezza delle dinamiche della normazione, già per ciò che attiene alla necessità della messa in moto dei processi produttivi (e, in genere, alla loro complessiva connotazione). Quel che, ad ogni buon conto, fa a pugni con l’affidamento ed irrimediabilmente lo pregiudica è la consapevolezza, non di rado alimentata e rafforzata dalle pratiche di normazione, delle strutturali carenze da esse esibite, una volta che ab initiodeliberatamente si privino della capacità di durare indefinitamente nel tempo, lasciando piuttosto chiaramente intendere di voler valere solo per un arco temporale ristretto. Si smarrisce, in tali casi, l’attributo stesso della “normatività”, per la sua ristretta e propria accezione, che non si risolve unicamente nei pur discussi connotati dell’impersonalità o dell’ipoteticità del comando26, laddove appunto disgiunti dalla tendenziale, necessaria attitudine degli stessi a durare nel tempo e, perciò, a radicarsi nell’ordinamento27. Visto dalla parte dei soggetti e delle loro aspettative di tutela, è indisponibile il bisogno, il vero e proprio diritto fondamentale – come si è venuti dicendo – di ciascuno di noi ad aver certezza dei propri diritti e doveri. Laddove questa condizione più non dovesse darsi, verrebbero meno le condizioni minime indispensabili per la stessa affermazione della personalità dell’uomo. Sulle sabbie mobili nessun edificio può essere eretto né possono mettere radici le piante da cui si alimentano le situazioni soggettive. Quando, poi, è la stessa normazione che promette (o minaccia…) il suo stesso, imminente superamento28, risultano naturalmente incoraggiate pratiche diffuse di disaffezione verso le leggi – per riprender qui pure un termine caro ad una sensibile ed autorevole dottrina29 –, quindi non di rado portate a convertirsi nella trasgressione delle leggi stesse o, come che sia, in atteggiamenti “ostruzionistici”, di vera e propria resistenza all’osservanza o all’applicazione del diritto. Ciò che è peggio è che, alle volte, tutto questo si ha dietro imitazione di sollecitazioni che vengono dagli stessi operatori istituzionali, persino dagli organi di vertice (e, tra questi, gli stessi organi supremi di garanzia!). Nessuno ormai più si meraviglia del fatto che giudici ed amministratori facciano di tutto per ritardare l’applicazione dei decreti-legge fino alla scadenza del termine costituzionalmente stabilito per la loro conversione, allo scopo di non dar vita a pratiche giuridiche diseconomiche, siccome suscettibili di essere sin dall’inizio rimosse in conseguenza della mancata conferma dei decreti da parte delle Camere; e lo stesso può, naturalmente, valere per atti, pure diversi dai decreti in parola ma a questi accomunati dalla natura di provvedimenti di emergenza (in senso lato) e, in genere, di provvedimenti dal loro stesso autore qualificati come precari e suscettibili di essere sollecitamente rimossi o, come che sia, innovati. Ugualmente, non è infrequente l’inosservanza di decreti legislativi di cui la stessa delega anticipa la imminente “correzione” o “integrazione” da parte di altri decreti30; ciò che – come è stato più volte fatto notare31 – finisce, in buona sostanza, con l’assimilare questi ultimi agli stessi decreti-legge. Più norme, insomma, non è affatto detto che equivalgano a più applicazioni o a maggiore e più sentita osservanza; tutt’all’inverso, possono portare ad un’innaturale condizione di stallo, così come ritardi e complessive carenze talvolta si accompagnano all’adozione di atti che, pur non accavallandosi l’uno all’altro, si combinino in modo tale da dar vita ad un groviglio confuso di norme, fonte di non lieve disorientamento persino tra gli operatori culturalmente più attrezzati. Per l’uno o per l’altro verso, ne soffre comunque la certezza, sottoposta a tensioni alle volte davvero insopportabili. La frequenza dello ius superveniens ha poi immediato riscontro sul piano delle esperienze della giustizia costituzionale, determinando non di rado l’effetto di una vera e propria denegata giustizia costituzionale32, la Corte costituzionale considerandosi obbligata a rimandare indietro gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza (un indirizzo giurisprudenziale, questo, sul quale sono state formulate meditate riserve, delle quali nondimeno non è ora possibile dar conto)33. È un fatto, comunque, che la vicenda finisce assai spesso con l’avvolgersi diabolicamente in se stessa. Quando, infatti, l’autorità remittente torna a pronunziarsi sulla questione originariamente sollevata – il che, coi tempi lunghi della giustizia comune, ha molte volte luogo a distanza ragguardevole – nel frattempo il quadro è nuovamente cambiato ovvero viene a cambiare pur dopo l’eventuale riproposizione della questione e la conseguente riapertura del processo costituzionale. Giudici comuni e Corte, così, sono innaturalmente chiamati ad uno snervante ping pong da cui, quale che ne sia la conclusione, può in non pochi casi aversi una perdita secca per i diritti del cittadino, le cui attese di giustizia costituzionale possono trovarsi almeno in parte inappagate, col fatto stesso di esser tardivamente appagate. Ora, una denegata giustizia costituzionale equivale allo smarrimento della rigidità della Costituzione. Non dico – sia chiaro – che il legislatore rinnovi a bella posta i propri prodotti allo scopo di frodare la Costituzione, aggirando o spostando il più possibile in avanti il giudizio di costituzionalità. Sta di fatto, però, che l’effetto obiettivamente discendente da siffatte pratiche diffuse di normazione è proprio quello di un complessivo impoverimento delle garanzie della legalità costituzionale; e di quest’ultima è elemento costitutivo appunto la certezza: un bene-valore che sta, ad un tempo, prima e fuori ma anche dentro la Carta, dal momento che, senza la certezza, nessun altro valore è neppure pensabile, pur ponendosi la certezza stessa quale uno dei valori su cui si regge l’intero ordinamento. 4.2. Lo ius superveniens e l’ostacolo da esso frapposto alla formazione del c.d. “diritto vivente” E ancora. Il rinnovo continuo della normazione fa obiettivamente da ostacolo alla formazione del c.d. “diritto vivente”34, se si conviene che la stabilizzazione di pratiche interpretativo-applicative degli enunciati richiede naturalmente di esser fatta poggiare sulla previa stabilità dei materiali normativi su cui le pratiche stesse insistono ed ai quali fanno complessivamente capo. La rarefazione del diritto vivente sollecita la produzione di una serie di effetti, invero suscettibili di esser diversamente valutati dal punto di vista della certezza (non tutti, dunque, negativamente). Prescindendo ora dalla considerazione per cui il diritto vivente è, comunque, in ultima istanza “riconosciuto” dalla Corte – ciò che le riserva, in non pochi casi, un margine non ristretto di manovra –, proprio grazie alla maggiore libertà di azione di cui dispone per il fatto di essere sempre più di frequente chiamata a pronunziarsi su leggi di fresca approvazione35, la Corte ha modo di orientare pratiche interpretative incipienti e, quindi, di dare certezze. Per altro verso, però, la mobilità incessante del quadro normativo, facendo da ostacolo alla stabilizzazione delle pratiche interpretative, si traduce in fonte di non lievi incertezze. Insomma, ogni medaglia ha il suo rovescio; e, se, da un canto, la prontezza nella proposizione delle questioni dà modo alla Corte di muoversi con maggiore libertà (e, perciò, di collocarsi con centralità di posto nelle dinamiche interpretativo-applicative), da un altro canto, però, l’eccessivo dinamismo della normazione fa da ostacolo alla stessa stabilizzazione delle proposte ricostruttive di sensi avanzate dalla Corte. Sta di fatto che, per l’uno o per l’altro verso, in seno alle esperienze di giustizia costituzionale la componente interpretativa prende il sopravvento su quella, pure da essa naturalmente discendente, di giudizio. Tant’è che, non a caso, si è fatto ripetutamente notare che, per l’aspetto ora considerato, l’attività della Corte somiglia più a quella di un organo di nomofilachia (e, dunque, alla Cassazione) che a quella del “custode” ultimo (o primo…) della legalità costituzionale. 4.3. Interpretazione conforme a Costituzione e manipolazione dei testi, nelle esperienze di giustizia costituzionale, e i loro riflessi sulla certezza (con specifico riguardo alle additive di principio) Per altro verso ancora, è proprio grazie alla reinterpretazione dei testi, consentita dall’insussistenza del diritto vivente, che la Corte ha modo di “proporre” le sue interpretazioni conformi a Costituzione: interpretazioni che possono esse pure dare certezza, senza tuttavia conseguirla appieno, non essendo i giudici comuni e gli operatori in genere tenuti ad allinearsi all’interpretazione fatta propria (ma, appunto, solo consigliata) dalla Corte36. Maggiori certezze, invece, si hanno dalle operazioni dalla Corte direttamente compiute sui testi, non già esclusivamente sulla loro sostanza normativa (quali quelle di cui si è appena discorso, destinate a restare confinate sul mero piano della interpretazione). Ed è bensì vero che, quando la Corte trapassa la corazza del testo giungendo fino alle norme, alle volte pone in essere manipolazioni ancora più incisive, camuffando sotto le spoglie della reinterpretazione quella che, a conti fatti, si pone quale una vera e propria alterazione della sostanza normativa racchiusa nel testo. Solo che l’effetto rimane, nei due casi, diverso: la riscrittura del testo opera, infatti, erga omnes, siccome forma di legislazione positiva mascherata da attività giurisdizionale, mentre la riconformazione della sostanza del testo stesso effettuata per via d’interpretazione possiede una mera efficacia persuasiva (e non autenticamente prescrittiva). Quanto, poi, alle manipolazioni dei testi, bisogna ulteriormente distinguere: in primo luogo, perché il grado di certezza alle stesse riconoscibile varia a seconda dei casi, in ragione della connotazione strutturale di partenza posseduta dagli enunciati fatti oggetto dell’intervento “normativo” della Corte; secondariamente, va, poi, tenuta presente la maggiore o minore intensità dell’intervento stesso. Si pensi, ad es., alle additive di principio, a riguardo delle quali si assiste ad una sorta di formazione in progress dell’attività di giustizia costituzionale37. E ciò, in quanto tali pronunzie non richiedono un’attività ad esse “conseguenziale” di mera esecuzione o applicazione bensì una di attuazione, di specificazione concettuale e normativa, tanto se a svolgerla sia quindi il legislatore quanto i giudici o gli stessi amministratori. La verità è che le istituzioni chiamate a “cooperare” con la Corte nell’opera di bonifica costituzionale finiscono col rendersi partecipi di un’attività complessa di giustizia costituzionale, che s’impianta ma non si conclude presso la Consulta e che piuttosto si svolge, pur nella naturale tipicità dei ruoli, per gradi di generalità decrescente38. Il fenomeno può essere visto anche da altra prospettiva e su un piano parimenti diverso, quello della teoria delle fonti, accreditandosi anche per quest’aspetto la nota ricostruzione che vede fortemente accentuata, specie nel tempo presente, la tendenza ad una produzione normativa di stampo giurisprudenziale, in reazione ad un diritto “legicentrico” (e, ancora più largamente, “statocentrico”) ormai afflitto da gravi tensioni e contraddizioni ed in costante, vistoso declino39. Dal punto di vista della certezza, la cosa si presta a duplice valutazione. Per un verso, la concretizzazione graduale risponde ad un’esigenza di adeguatezza, di conformazione delle risposte alle domande di giustizia costituzionale; e, per questo verso, la duttilità strutturale dell’esperienza in parola si converte in un diversificato appagamento delle esigenze espresse da ciascun caso, quali vagliate nelle sedi di volta in volta competenti. Per un altro verso, però, l’accentuato tasso di “diffusione” esibito da siffatta pratica di giustizia costituzionale ridonda in un affievolimento della certezza, quanto meno nella sua forma particolarmente intensa che si ha in conseguenza del carattere (essenzialmente) accentrato del nostro sistema di giustizia costituzionale. Sia pure col costo di una certa approssimazione, può dirsi che, per la parte in cui si ha la valorizzazione dell’opera “conformativa” del giudicato costituzionale da parte dei giudici, vale a dire del suo peculiare adattamento alle esigenze dei singoli casi, è più la giustizia che la certezza a farsi largo ed affermarsi; di contro, per la parte in cui si pone in primo piano il significato “uniformante” posseduto dalle indicazioni di principio somministrate in modo eguale a tutti gli operatori dalla Corte si recupera, sia pure non in modo pieno, la certezza. L’esperienza in parola, insomma, con la flessibilità strutturale che le è propria e nella varietà delle forme concretamente assunte dagli elementi di cui si compone, tenta una pur disagevole e non di rado sofferta (e, tuttavia, di necessità equilibrata) composizione tra i valori di giustizia e di certezza, quale forse non è dato riscontrare (e, comunque, non nella stessa misura) in altre esperienze di giustizia costituzionale, che esibiscono tratti di accentuata radicalizzazione ora nel senso dell’accentramento ed ora in quello della “diffusione”, senza dunque riuscire a contemperare in modo complessivamente appagante il bisogno della giustizia di coniugarsi con la certezza, al pari di quello della certezza di risolversi in giustizia, al tempo stesso in cui massimamente tende alla propria realizzazione. 4.4. La certezza e il “gioco” assiologico da essa intrattenuto, in relazione ad alcuni meccanismi della giustizia costituzionale (ancora in tema di natura ed effetti delle sentenze di rigetto) L’osservazione appena fatta si apre ad ancora più ampie riflessioni a riguardo del sistema di giustizia costituzionale e dei suoi complessivi connotati. Senza ora riprendere cose appena dette, peraltro meritevoli di ben altro approfondimento di quello che è qui consentito di dare, anche l’interpretazione conforme porta ad oscillazioni vistose della certezza, in merito alle quali tuttavia nulla può dirsi in astratto ed ogni considerazione deve piuttosto essere rimandata ai singoli casi. Così, riuscendo la Corte ad avviare la formazione di processi interpretativi stabilmente orientati nel senso dalla stessa indicato, si potrà assistere ad un soddisfacente appagamento della certezza, in minore misura apprezzabile invece per il caso che l’intento perseguito dalla Corte non giunga a buon fine in conseguenza dell’affermarsi nelle sedi giudiziali comuni (e nella pratica giuridica in genere) di linee interpretative plurime, almeno in parte discoste da quella tracciata dalla Corte. Tant’è che, com’è assai noto, la Corte stessa si trova talora costretta a “convertire” una precedente pronunzia di rigetto, “condizionata” all’accoglimento della proposta interpretativa in essa racchiusa, in una successiva pronunzia di accoglimento, fondata su un “diritto vivente” nel frattempo venuto a formazione in senso divergente da quello indicato dalla Consulta. Generalizzando, alla formazione di consuetudini interpretative volte alla stabilizzazione del giudicato costituzionale consegue un soddisfacente (o, diciamo meglio, un più soddisfacente) appagamento della certezza. Ciò che potrebbe, per la sua parte, consigliare di tornare nuovamente a riflettere in modo critico, e senza alcun preconcetto, sulla communis opinio invalsa in ordine all’efficacia meramente inter partes delle pronunzie di rigetto: se non altro, appunto, per i riflessi che possono aversi a carico della certezza e conseguenti a continui ripensamenti delle “verità” di diritto costituzionale consegnateci dalle singole pronunzie della Corte40. Il punto non può essere ora, come si conviene, ripreso. E, tuttavia, si consideri solo come la certezza pervada ed informi di sé ogni esperienza di giustizia costituzionale, così come ogni esperienza di normazione. Se il diritto – s’è dietro rammentato – è, in nuce, certezza, certezza è parimenti la giustizia; ancora di più, laddove – come da noi – essa prenda corpo attraverso meccanismi di giudizio “accentrato”, per natura deputati ad assicurare una uniforme (o, ad esser più precisi, una tendenzialmente uniforme) applicazione del diritto costituzionale. Ogni istituto della giustizia costituzionale è pensato in funzione della certezza ovvero deve, ad ogni modo, fare i conti con essa. La limitata portata retrospettiva delle decisioni di accoglimento, la cui efficacia – com’è a tutti noto – si arresta davanti ai rapporti ormai definiti, si deve alla certezza del diritto; ancora prima, è in nome di quest’ultima che la natura delle decisioni suddette è usualmente ricostruita in termini di annullamento (e non già di dichiarazione di una originaria nullità) degli atti legislativi oggetto delle decisioni stesse (qualifica, questa seconda, che, seppur considerata da un’acuta dottrina come maggiormente idonea a servire la supremazia della Costituzione41, male tuttavia si accorda con quella circoscritta efficacia retroattiva delle decisioni, di cui si è appena detto). È, insomma, in nome della certezza che la rigidità è obbligata a pur parziali (ma, nondimeno, significativi) ripiegamenti, se è vero – com’è vero – che per il tempo passato (e i rapporti in esso costituitisi) non già si ha il primato del diritto costituzionale sul diritto subcostituzionale col primo contrastante bensì l’affermazione di quest’ultimo a discapito del primo; e – si badi – del primo in ogni suo principio o valore, pur se fondamentale, compreso dunque il valore della stessa… certezza, che – come si è dietro rammentato – sta prima e fuori ma anche dentro il quadro costituzionale. Si assiste, dunque, ad un “gioco” di valori42 che, in talune congiunture, può persino portare uno di essi (qui, la certezza) a dirigersi contro… se stesso, determinandosi uno stato di tensione o di sofferenza assiologica le cui implicazioni ed il cui costo solo in concreto possono essere stabiliti. Tant’è che, laddove entra invece in campo un valore giudicato – a ragione o a torto – ancora preminente o, come che sia, bisognoso di maggiore protezione, ecco che la certezza è costretta davanti a quest’ultimo a recedere. Si spiega in questa luce la circostanza per cui il giudicato ordinario, per norma non travolto dal giudicato costituzionale, viene invece superato da quest’ultimo laddove si versi nella materia penale (e con specifico riguardo al solo caso di decisioni di condanna), apparendo intollerabile l’ingiusta (nel senso di incostituzionale) privazione di libertà, dovuta appunto all’applicazione di norma incompatibile con la Carta, per quanto sorretta da una “verità” processuale definitivamente accertata43. Molti altri esempi ancora potrebbero essere richiamati e riguardati dalla prospettiva ora adottata, che consente di cogliere il mutevole “gioco” dalla certezza intrattenuto coi restanti valori di base dell’ordinamento: si pensi, solo, ai conflitti interorganici determinati da pronunzie giudiziali assistite dalla cosa giudicata che, se ammessi (e il punto meriterebbe di essere ridiscusso), nuovamente porterebbero ad una relativizzazione della certezza, quanto meno nella sua forma piena, più immediatamente e genuinamente espressiva44. Per chiudere ora sul punto con un’osservazione finale, è da chiedersi se la ricostruzione ormai (si potrebbe dire: consuetudinariamente) invalsa in merito all’efficacia delle decisioni di rigetto si inserisca armonicamente in un quadro complessivo segnato dal carattere istituzionalmente “accentrato” del giudizio di costituzionalità e, a questo strumentale, dal carattere irreversibile delle decisioni di costituzionalità, di tutte le decisioni di costituzionalità, non casualmente definite come non impugnabili (art. 137, u.c.). Altro è, infatti, ciò che si ha (che può e deve aversi) nei casi, sopra esemplificati (e in altri ancora), in cui la certezza è obbligata a misurarsi con altri valori fondamentali e, laddove necessario, tenuta a parziali, circoscritte sue forme di relativizzazione; altro ancora, invece, la radicale, assiomatica esclusione della certezza dalla partecipazione al “gioco” assiologico suddetto, quale si ha in forza della (supposta) inattitudine dalla comune opinione riconosciuta alle sentenze di rigetto a far luogo ad “accertamenti” in senso proprio in ordine alla costituzionalità delle leggi. E, invero, si fatica a comprendere (o, a dirla tutta, non si comprende affatto) in nome di quale misteriosa virtù le decisioni di accoglimento siano in grado di esprimere delle “verità” irrefutabili di diritto costituzionale, come tali idonee a commutarsi in certezze incrollabili, laddove le decisioni di rigetto possano essere in ogni tempo rimesse in discussione e, ad avviso insindacabile della stessa Corte, in tutto superate e rimosse. La nota teoria dell’errore riparabile, che pro bono Constitutionis accede all’idea della possibile “conversione” di un originario verdetto di rigetto in uno successivo di accoglimento, portata alle sue ultime e conseguenti applicazioni, dovrebbe considerarsi perfettamente ambiversa, spianando così la via all’eventuale (ma, come si sa, inconcepibile) “conversione” di un precedente giudizio di accoglimento in uno posteriore di rigetto. Il vero è che – come mi è stata data l’opportunità di rilevare in altri luoghi – l’idea che la natura e gli effetti delle decisioni di costituzionalità possano essere diversamente (anzi: in modo diametralmente opposto) ricostruiti secundum eventum litis non appare in alcun modo perspicua, né metodicamente né teoricamente, per quanto ormai – ne va dato atto – solidamente radicata nelle esperienze di giustizia costituzionale. Ed allora, la sorte della certezza, quanto alle pronunzie di rigetto, rimane affidata – come si faceva dianzi ad altro riguardo notare – alla capacità delle singole pronunzie di avviare processi interpretativi orientati lungo il verso tracciato dalla Corte. Le decisioni di accoglimento sono istituzionalmente dotate di una forza prescrittiva idonea ad affermarsi pur laddove risulti obiettivamente carente la capacità persuasiva espressa dalla parte motiva delle decisioni stesse45; le pronunzie di rigetto, invece, possono confidare unicamente in quest’ultima in ordine al “seguito” sperato da parte dei giudici, degli operatori in genere, dei cittadini. 4.5. La certezza in rapporto della struttura nomologica degli atti portati al giudizio della Corte e della struttura degli interventi da quest’ultima operati. L’avocazione all’alto della certezza, in ambito sovranazionale, e i complessi, problematici rapporti tra Costituzione nazionale e Costituzione europea (e tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia) Due osservazioni conclusive vanno al riguardo, nondimeno, fatte. La prima è che la forza prescrittiva delle stesse decisioni di accoglimento, pur se astrattamente uniforme, varia tuttavia in concreto in ragione della struttura nomologica dell’atto giudicato e, ad un tempo, della struttura degli enunciati contenuti nelle singole decisioni (nel dispositivo come pure – e soprattutto – nella motivazione). L’esempio, dietro fatto, delle additive di principio è assai istruttivo a riguardo dell’apertura consentita da alcuni “tipi” di decisione (e dalle singole decisioni di volta in volta considerate) a favore degli operatori restanti, chiamati a “cooperare” con la Corte nelle operazioni di giustizia costituzionale e nella loro implementazione. Ciò che – come s’è veduto – porta la certezza ad oscillare, in modo talora vistoso, alla ricerca di punti di equilibrio sui quali fissarsi e ricevere appagamento. La seconda osservazione ha, poi, una portata ancora più ampia, il cui complessivo significato si coglie sul piano delle relazioni interordinamentali. Rilevano, a tal proposito, i rapporti che la Corte costituzionale intrattiene, da un canto, con la Corte di Giustizia della Comunità/Unione europea e, da un altro canto, con la Corte europea dei diritti dell’uomo46. Limitando qui, per brevità, il discorso unicamente ai primi, molti sono i profili meritevoli di considerazione, dai quali nuovamente si coglie come la certezza sia naturalmente portata ora ad espandersi ed ora invece a contrarsi, a fisarmonica, assumendo forme assai varie di rilievo. Per un verso, la sempre più massiccia ed incisiva penetrazione della normativa comunitaria in seno all’ordine interno ha, ormai da tempo, portato all’affermazione di un anomalo sistema di giustizia costituzionale diffusa, accanto all’ordinario e collaudato sistema accentrato, pur se temperato dalla messe ingente di elementi di “diffusione” al suo interno riscontrabili. Non sto ora a ridiscutere della bontà della qualificazione sopra data delle tecniche di soluzione dei conflitti interordinamentali in parola, da molti – come si sa – negata. Sta di fatto che, allo stato attuale del processo d’integrazione, in cui si ha ancora bisogno del puntello apprestato dall’art. 11 cost. al primato del diritto sovranazionale, la disapplicazione (o, come ha sofisticamente precisato la Consulta, la “non applicazione”) del diritto interno, accompagnata dall’applicazione in sua vece del diritto comunitario, si giustifica, dal punto di vista del diritto costituzionale, unicamente in nome del principio fondamentale suddetto. La cosa può, dunque, essere chiamata – se così piace – in molti modi; è un fatto, però, che i giudici (e gli operatori in genere e, persino, i cittadini) sono chiamati ad un accertamento, con effetti circoscritti al caso, della costituzionalità della legge, in quanto interferente con la normativa comunitaria. Quali conseguenze possano, allora, aversi per la certezza del diritto costituzionale non occorre ulteriormente esplicitare, alla luce delle cose già dette. Per un altro verso, si danno taluni casi in cui permane la cognizione della Corte in merito ai conflitti tra le norme dei due ordinamenti47. Ciò che, ovviamente, non rimane indifferente per la certezza del diritto costituzionale, che in circostanze siffatte torna ad essere presa in cura dal suo “giudice naturale”, la Corte, e perciò in astratto recuperata in una più soddisfacente misura. Per un altro verso ancora, sempre più vistosa è la tendenza ad avocare all’alto la tutela della certezza, spostandone appunto il luogo e le forme di realizzazione. Si pensi, ad es., al significato assunto dal rinvio pregiudiziale, che dà modo al giudice comunitario non soltanto di pronunziarsi sulle norme dell’Unione ma, indirettamente (e, comunque, significativamente), di orientare le pratiche interpretative ed applicative dello stesso diritto interno (persino costituzionale!). Ed è singolare, francamente incomprensibile – è stato fatto ripetutamente notare48 – l’atteggiamento di chiusura tenuto dalla Corte costituzionale col fatto stesso di dichiararsi indisponibile a rivolgersi direttamente alla Corte di Lussemburgo e di rimandare piuttosto a quest’ultima i giudici comuni. Si aggiunga, poi, a ciò la circostanza secondo cui la pregiudizialità comunitaria è considerata… pregiudiziale rispetto alla pregiudizialità costituzionale, nel senso che ricorrendo astrattamente i presupposti per la proposizione di entrambe è alla prima che va appunto data la precedenza. Con il che, mentre si infittisce il dialogo tra i giudici comuni e il giudice comunitario, sempre di più la Corte costituzionale si tiene da se medesima al di fuori del circuito in cui il dialogo stesso prende corpo. Forse, è eccessivo (e, comunque, prematuro) affermare che sta per esaurirsi la fonte delle più stabili (e… certe) certezze di diritto costituzionale, che ha appunto sede presso la Consulta, mentre una nuova e sempre più vigorosa fonte se ne fa produttrice in ambito sovranazionale, con immediate ricadute anche in ambito interno. Di certo, però, il quadro si fa, ogni giorno che passa, sempre più composito; e, così come si assiste all’accavallamento confuso di norme ed esperienze applicative sulla loro base formatesi, che mettono a dura prova la certezza, allo stesso modo la complicazione del quadro sul versante degli operatori di garanzia porta, per un verso, alla moltiplicazione (e, per ciò pure, alla frantumazione) delle sedi in cui si ricercano forme nuove di appagamento della certezza e, per un altro, alla continua mobilità di quest’ultima da una sede all’altra, con forte attrazione – come s’è detto – verso l’alto. Il “gioco” degli operatori (e, tra questi, particolarmente dei giudici) sposta di continuo il punto di tensione e di equilibrio della certezza. La partita, per ciò che riguarda le relazioni interordinamentali, pur dopo tanti anni di travagliate vicende, è ancora ben lungi dalla sua conclusione; anzi, può dirsi che sia praticamente agli inizi e che il suo futuro sia, con ogni verosimiglianza, destinato ad essere segnato dal modo con cui si riuscirà a trovare un qualche equilibrio tra Costituzione nazionale e Costituzione europea (e, perciò, in buona sostanza, tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia, per un verso, e, per un altro verso, di ciascuna di esse coi giudici comuni). La certezza del diritto costituzionale si troverà allora naturalmente portata a sdoppiarsi e a convertirsi in certezze di un diritto non più solo costituzionale, come pure non più solo comunitario o europeo, distinto seppur “coordinato” rispetto al primo, bensì, ad un tempo, costituzional-europeo, conseguente ad un’integrazione ormai optimo iure compiuta, nel segno non della sopraffazione dell’uno sull’altro ordinamento ma della loro congiunta, armonica affermazione. Il tempo in cui potranno aversi queste nuove certezze non è, di sicuro, vicino, al di là della sorte riservata alla Costituzione europea che, pur dopo il suo varo formale, dovrà a fatica e con lo sforzo congiunto di tutti gli operatori, in ambito europeo come pure in ambito nazionale, ricercare le forme più adeguate al suo effettivo e stabile radicamento nell’esperienza. Il tempo presente, come tempo di transizione, non è tempo di certezze; ma la teoria costituzionale può e deve fare tutta quanta la propria parte per spianare il terreno sul quale le certezze stesse potranno crescere ed affermarsi, in dipendenza del modo complessivo di essere delle dinamiche della normazione e delle esperienze di giustizia costituzionale, pur in una congiuntura attraversata da forti tensioni, non rimosse contraddizioni, diffusa inquietudine.

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