L’“inefficacia giuridica” di norme “programmatiche”


1. – Nel pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di norme “programmatiche” di alcuni Statuti regionali ordinari, la Corte Costituzionale ha compiuto un’operazione davvero sconcertante, non soltanto per la conclusione dei casi di specie (che qui non interessa prendere in considerazione) , ma per le sue implicazioni sul piano teorico generale. Le ragioni di questo giudizio negativo derivano non tanto dal fatto che la Corte – considerandole espressione del ruolo politico generale delle Regioni – abbia fornito simili norme di un crisma di generale legittimità anche se estranee all’ambito di competenza, quanto dal fatto che, ad un tempo, le abbia inopinatamente qualificate come radicalmente prive di efficacia giuridica.
Per comprendere i motivi del disappunto che si prova a leggere simile soluzione ed apprezzare meglio la sostanza e il rilievo del problema per cui è stata escogitata, occorre ricordare che altre disposizioni “programmatiche” (disposizioni cioè che indicano obiettivi, finalità, programmi, o proclamano principi generali) , quelle della Costituzione, sono state al centro di una storica controversia proprio per via della loro dibattuta efficacia giuridica, e che la questione fu definitivamente chiusa dalle magistrali riflessioni di Vezio Crisafulli e dalla sentenza n.1 del 1956 della Corte Costituzionale, che dimostrarono oltre ogni dubbio la piena e diretta efficacia precettiva di queste disposizioni. Ciò contribuì in modo decisivo alla affermazione del valore della Costituzione quale atto normativo immediatamente cogente in tutte le sue disposizioni, e quindi quale vera e propria legge superiore, e permise di opporsi vittoriosamente alle tendenze che a vario titolo tentavano di depotenziare la Carta e la sua capacità di incidenza sul diritto preesistente puntando sul valore solo politico – e perciò privo di valenza giuridicamente vincolante – di molte delle sue disposizioni tra le più innovative e caratterizzanti del nuovo ordine costituzionale.
Oggi, a un cinquantennio dalla chiusura di quella controversia, la Corte costituzionale, riferendosi agli Statuti delle Regioni ordinarie, ci viene a dire che alle loro disposizioni di principio o “programmatiche” – di per sé, in ipotesi, legittime – “anche se materialmente inserite in un atto fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale…”; che, più precisamente, le stesse enunciazioni statutarie “non hanno carattere prescrittivo né vincolante” ma “esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa”.
Il contrasto con la tesi sopra ricordata non potrebbe apparire più stridente. E’ vero che perciò subito dopo la Corte si premura di precisare che le proclamazioni di obbiettivi e di impegni contenute negli Statuti “non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione..” perché “Qui non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque “essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione..” Simile precisazione però non pare utile a distinguere – sotto il profilo dell’efficacia giuridica – la sorte delle norme «programmatiche» statutarie da quella delle norme «programmatiche» della Costituzione. Infatti, mentre non spiega come sia possibile in astratto che atti-fonte dell’ordinamento dettino enunciati giuridicamente totalmente inefficaci , non chiarisce affatto neppure la ragione per la quale formule normative identiche per struttura , poste identicamente da un atto fonte del diritto positivo, possano cambiare natura ed efficacia a seconda che siano collocate nella Costituzione o in uno Statuto regionale, e dunque a seconda dell’atto normativo che li esprime. Non è per nulla comprensibile, per esempio, perché mai un enunciato come “la Regione promuove l’estensione del diritto di voto agli immigrati residenti” (art.3, c.6 St.Toscana) debba avere efficacia solo politica e culturale, mentre quello che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (art.9 Cost.) abbia invece efficacia precettiva.
L’unico modo di dare un senso a quella sibillina proposizione sembra quello di ipotizzare che l’assoluta inefficacia delle norme «programmatiche» degli Statuti dipenda dal fatto che esorbitano dai confini assegnati dalla Costituzione alle attribuzioni regionali. Si tratterebbe in definitiva di una “inefficacia giuridica” provocata automaticamente dal contrasto con norme costituzionali. Le norme «programmatiche» degli Statuti, insomma, sarebbero tutte pienamente legittime, come espressione di un ruolo politico generale dell’ente Regione, ma, ad un tempo, giuridicamente prive di efficacia perché prodotte da fonte incompetente. Una posizione del tutto inedita. Sorprendentemente, infatti qui il vizio di incompetenza non produce nei loro confronti la consueta invalidità, ma la semplice formale incapacità di produrre effetti giuridici. In tal modo la Corte individua una nuova categoria di norme, prima sconosciuta, che si sottraggono inspiegabilmente al regime comune perché, pur contrarie a Costituzione, restano legittime ma sono solo destinate ab origine a non avere alcuna efficacia giuridica.
Se così stanno le cose, sembra lecito chiedersi se anche altre leggi, o altre disposizioni legislative – diverse da quelle degli Statuti regionali ordinari – pur essendo contrarie a Costituzione, possano sfuggire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale ed essere invece qualificate solo come radicalmente prive di inefficacia. Poiché la Corte in realtà non spiega le ragioni di questo inedito regime così limitandolo all’unica ipotesi delle norme «programmatiche» degli Statuti, perché mai questo non dovrebbe diventare un paradigma generalizzato?

2. E qui si innesta un’altra e più forte ragione di critica, quella che concerne la compatibilità di questa linea giurisprudenziale con i confini del sindacato sulle leggi.. E’ infatti senz’altro da escludere che la Corte Costituzionale possa non già pronunziarsi sulla legittimità costituzionale di norme, ma arrogarsi il potere di individuare essa il tipo di efficacia (giuridica oppure politico-culturale) delle formule normative, e ciò in evidente dissenso con il legislatore, il quale, proprio assumendo tali formule a contenuto di un proprio atto, ha precisamente e incontestabilmente inteso dotarle di efficacia normativa. E’ ovvio che le formule stesse hanno anche valenza politica e culturale, dato che la legge è tipico atto politico che proviene dal potere politico. Ma la volontà del legislatore di porre le stesse enunciazioni come produttive di norme del diritto oggettivo non può in alcun modo essere rovesciata dalla pronunzia della Corte. Con l’adozione dell’atto normativo il legislatore vuole produrre diritto, non semplici testi letterari, né manifesti, proclami e dichiarazioni anche “espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità”. Per far ciò esistono altri strumenti, diversi dalla legge. La scelta dell’atto normativo esprime in modo inequivoco la decisione – che solo al legislatore spetta – di porre sul tema vere e proprie norme giuridiche, così che tutti gli enunciati da esso posti debbono presumersi – salvo eventuale e precisa prova contraria – dotati di efficacia precettiva.
Su quale base allora la Corte ritiene di poter sostituire la propria alla scelta del legislatore statutario, distinguendo – senza espressa dichiarazione di illegittimità costituzionale – disposizioni efficaci e disposizioni inefficaci? Il potere di interpretare le disposizioni censurate al fine di risolvere le questioni di costituzionalità non implica anche il potere di scegliere il tipo di efficacia da attribuire alle norme impugnate e in particolare la scelta tra efficacia giuridica ed efficacia solo politica. Il Giudice delle leggi non può pronunziarsi sulla mera efficacia delle leggi stesse, ma deve esclusivamente verificarne la conformità a Costituzione, mentre l’ inefficacia di queste è solo una conseguenza automatica di una eventuale – non implicita, né sottintesa – dichiarazione di illegittimità costituzionale ex art.136 Cost.
Fuori di questa ipotesi solo al legislatore o al popolo mediante referendum spetta di privare di efficacia disposizioni di legge .
E’ vero che nel caso odierno la Corte non ha adottato una pronunzia esplicita di “inefficacia”, ma ciò non basta a superare l’obiezione fatta or ora, poiché il ricorso alla dichiarazione di inammissibilità delle questioni appare come un mero espediente formalistico, dal momento che proprio l’affermata loro “inefficacia giuridica” costituisce la sola ratio della inidoneità lesiva delle norme censurate che motiva l’inammissibilità.
In conclusione, il giudizio su questa “condanna” delle norme «programmatiche» degli Statuti all’inefficacia giuridica non può che essere , per quanto s’è detto, fermamente contrario. Inoltre, pur riconoscendo il ben diverso rilievo del problema attuale rispetto a quello che allora investì le norme “programmatiche” della Costituzione, non si può non stigmatizzare la valenza negativa di questa “condanna” che, degradando gli Statuti regionali – sia pure limitatamente alle disposizioni “programmatiche” – da documenti normativi a meri proclami politici o a testi di valore solo culturale comunque giuridicamente inutili, non fa certo un buon servizio all’autonomia delle Regioni che pretende di proteggere, tanto più che queste ultime velleitariamente affidano proprio a tali norme di rappresentare la loro “carta di identità”; più in generale, poi, non giova né al chiarimento del disegno costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, né all’assetto del sistema delle fonti del diritto che governano tali rapporti.
Nel contempo, la stessa “condanna” dà al legislatore regionale e statale un segnale preoccupante per la sorte della loro produzione normativa, esponendo le rispettive leggi al rischio della sanzione dell’inutilità, sanzione per molti aspetti peggiore di quella dell’illegittimità costituzionale.

Continua su PDF