Può un Governo debole proporsi l’obiettivo di riformare la Costituzione?

EMERGENZA COSTITUZIONALE

Su impulso del Governo l’Assemblea di Montecitorio ha cominciato la discussione sulle riforme costituzionali. Per due giorni la discussione ha riguardato la modifica dell’articolo 41, per poi decidere di rinviare l’esame. Alle Commissioni di Camera o Senato sono inoltre stati assegnati, per l’esame in sede referente, disegni di legge d’iniziativa governativa relativi alla riduzione del numero dei parlamentari e all’istituzione del Senato federale, alla modifica del titolo IV, all’inserimento di principi di pareggio di bilancio. È stato inoltre approvato dal Consiglio dei Ministri dell’8 settembre 2011 un ulteriore disegno di legge costituzionale (che non risulta ancora pervenuto in Parlamento) per la soppressione della provincia. Un pacchetto eterogeneo di misure elaborato dall’attuale esecutivo.
Ma può un Governo debole e sull’orlo di una crisi parlamentare proporsi l’obiettivo alto e nobile di riformare la Costituzione? Se si guarda al fondo della questione, senza arrestarsi al piano ingannevole della legalità formale, ma spingendosi a osservare il piano essenziale della legittimazione reale dei comportamenti politici, la risposta alla domanda non può che essere secca e chiara: no. La legge suprema che fonda il “patto” politico fondamentale e definisce i principi della convivenza civile, non può essere mutata. Non avrebbe alcuna legittimazione, dunque, l’atto di forza di una minoranza sociale e politica che possiede una maggioranza parlamentare esclusivamente in virtù di un distorto (e incostituzionale) sistema elettorale e a seguito di disinvolte acquisizioni di singoli parlamentari attratti artificiosamente nell’area della maggioranza governativa.
Vero è che anche in passato si è assistito a esasperazioni parlamentari, sempre denunciate dalla più sensibile dottrina costituzionalistica, che hanno condotto a fare approvare riforme costituzionali con il solo appoggio della maggioranza parlamentare contingente. Ma – a parte l’argomento che perseverare è diabolico – ora la situazione appare completamente diversa. Se ieri s’è forzato lo spirito della legge (l’art. 138 Cost.), oggi si vuole usare la Costituzione e le sue norme per scopi anticostituzionali. Non si punta infatti solo o tanto a modificare l’assetto dei poteri e dei diritti costituzionali, quanto essenzialmente ad indebolire e delegittimare la Costituzione nel suo complesso al fine di conservare il potere (anche se solo ancora per qualche altro mese!).
Il Governo in carica, nel tentativo di sopravvivere, avanza allora un profluvio disarticolato e incoerente di proposte per modificare parti essenziali della Costituzione: cancellando ogni limite d’ordine “sociale” all’attività economica privata, per esaltare un’ideologia neoliberista che nessun liberale potrebbe condividere; colpendo la rappresentanza politica già in agonia (“vile, tu uccidi un uomo morto”, direbbe Francesco Ferruzzi), riducendo il numero dei parlamentari, senza però riaffermare, come sarebbe auspicabile, un ruolo centrale all’organo della rappresentanza popolare, bensì per proseguire nell’irresponsabile opera di marginalizzazione politica del Parlamento; ridefinendo i rapporti tra politica e magistratura, con lo scopo dichiarato di mettere fine alla presunta politicizzazione dei giudici tramite un più stringente controllo politico della magistratura da parte del sistema dei partiti, con buona pace del principio costituzionale dell’indipendenza; introducendo un nuovo vincolo alle politiche economiche (oltre a quello già previsto dall’u.c. dell’art.81, allegramente interpretato dalle diverse maggioranze degli ultimi anni), dettato dall’attuale grave contingenza finanziaria, senza invece riuscire a valutare le cause che hanno determinato tale situazione e assumendo le misure politiche ed economiche ordinarie conseguenti; eliminando dal testo costituzionale un livello di governo (le Provincie), senza però intervenire sulle loro competenze e funzioni, con l’effetto di ridurre le garanzie costituzionali dei servizi sociali sino ad ora assicurati.
Tutti disegni di legge costituzionale formulati direttamente dall’attuale Governo (delle altre proposte di riforma presentate dalla maggioranza è meglio, per carità di patria, non parlare), sui quali dunque l’esecutivo mette in gioco direttamente la propria responsabilità politica e spende al massimo grado la sua “autorevolezza”. Investendosi di un ruolo che fuoriesce dai suoi compiti ordinari, di titolare dell’indirizzo politico “di maggioranza”, per intervenire sui principi supremi dell’ordinamento. Quei principi cui anche il Governo è assoggettato: operazione ad alto rischio, dunque.
Si tratta di capire a questo punto quale sia stata l’urgenza che ha spinto il Governo a una così ardita operazione di riscrittura costituzionale. Nessuna. A ben vedere infatti queste proposte di riforma non solo sono prive di senso costituzionale, ma sono anche di natura puramente declamatoria.
Nessuno crede infatti che esse possano essere approvate nell’attuale legislatura. I più ottimisti auspicano – mentre i più realisti temono – che alcune di queste proposte possano fare solo qualche passo: siano approvate in prima lettura da un ramo del parlamento (per le riforme costituzionali, si ricorda, sono necessari quattro passaggi parlamentari), ma andrebbe bene anche solo un inizio di discussione in Aula. Neanche uno pensa si possa giungere all’approvazione definitiva del testo di riforma. D’altronde un Governo che non riesce a garantire l’ordinaria amministrazione come può impegnarsi sul fronte delle riforme costituzionali? Ma è proprio qui la spiegazione della forzatura del Governo. Una maggioranza che non sa come affrontare la grave crisi economica che sta colpendo il nostro paese in modo particolarmente virulento, che si lacera in lotte intestine sull’indicazione del Governatore della Banca d’Italia, che dunque non sa dirigere la politica nazionale, né è in grado di mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo (così come espressamente pretende la nostra Costituzione, all’articolo 95), ritiene di poter sublimare la propria paralisi usando delle riforme costituzionali come arma di distrazione di massa.
Che siano disegni di riforma che non giungeranno in questa legislatura al traguardo non riduce affatto la responsabilità politica di chi li ha presentati né può consolare chi li avversa. Anzitutto perché l’uso strumentale e improprio della revisione costituzionale rappresenta una vera e propria aberrazione che mostra sin dove ci si è spinti nel terreno dell’attacco alla Costituzione. La legge suprema è ormai considerata un terreno di esercitazione ideologica o di demagogia politica. Il senso profondo e il rispetto necessario della Costituzione ne viene minato, con il rischio che, alla fine, sia l’intera forza prescrittiva (di “norma superiore”) della Costituzione a essere messa in discussione, come in effetti ormai avviene di continuo.
È poi l’incredibile approssimazione e confusione culturale che esprimono le proposte di revisione che preoccupa. Dopo vent’anni (ma in verità ancor di più) di discussioni su cosa cambiare della nostra Costituzione abbiamo fatto mille passi indietro, risalire la china non sarà facile. Ma fermarci o distrarci sarebbe imperdonabile: ci ritroveremo tutti in fondo al pozzo.