Quella fiducia che non si può dare

EMERGENZA COSTITUZIONALE

Il rifiuto dell’approvazione del rendiconto consuntivo dello stato, da parte della Camera dei deputati, l’11 ottobre scorso, invece di produrre i suoi effetti legittimi, ha dato la stura ad una serie di strappi istituzionali, tutti gravissimi. Ne sta causando altri ancora, come era prevedibile con i tempi che corrono. Che la vicenda implichi questioni tecniche è indubbio. Ma non c’è questione tecnica che non si possa dipanare e rendere comprensibile per il lettore comune. Ci provo.
È più che nota l’esistenza di un atto chiamato bilancio annuale dello stato. Ne prevede, come ogni bilancio, le entrate e le spese per l’anno cui si riferisce. Altrettanto noto è che al bilancio di previsione debba corrispondere quello consuntivo, cioè il rendiconto di chi lo ha gestito. La Costituzione stabilisce (art. 81) che le Camere approvano ogni anno il bilancio ed il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Devono approvarli con leggi che non contengono però norme (cioè regole di condotta per i sottoposti) ma atti giuridici di altro tipo. Sono denominate perciò “leggi formali”. La “forma” con cui vengono approvate, provvede a dotarle del valore e della forza spettanti ad ogni legge, valore e forza inferiori solo a quella delle leggi costituzionali.
Il contenuto della legge di bilancio è certo ed è noto. Si identifica nell’autorizzazione conferita dal Parlamento al Governo di riscuotere le entrate e pagare le spese in conformità degli stati di previsione compresi nella stessa legge di bilancio.
Altrettanto certo è il tipo di atto che contiene il rendiconto. Si sostanzia nel giudizio politico sulla gestione del bilancio. Perché giudizio e perché politico? È giudizio perché l’approvazione (è questa la qualificazione costituzionale dell’atto) suppone e comporta una valutazione. Non potrebbe altrimenti sussistere, le mancherebbe la base su cui poggiare. È politico perché il rendiconto sottoposto alle Camere del Parlamento deve essere già stato oggetto del giudizio di parificazione della corrispondenza tra spese ed entrate (ed eventuali contraddizioni) operato dalla Corte dei conti cui spetta il controllo di legittimità contabile. Non avrebbe fondamento, senso, ragion d’essere se non fosse giudizio e non fosse politico.
Approvare o rifiutare il rendiconto può quindi non attenere affatto agli eventuali rilievi rientranti nell’ambito delle competenze della Corte dei conti. Approvarlo dimostra fiducia, consonanza tra maggioranza parlamentare e Governo. Rifiutarlo equivale ad esprimere, manifestare, dichiarare la sfiducia nei confronti dell’organo che ha presentato il rendiconto, così come tale organo è composto, per le aspettative che da tale composizione dell’organo, una delle Camere del Parlamento ritiene di dover trarre in ordine alla gestione della cosa pubblica. Le può condividere ed approva il consuntivo. Può non più condividerle e respinge il consuntivo. Lo respinge per ottenere l’effetto che ne deve conseguire: le dimissioni del governo. Si tratta quindi di una sfiducia quanto mai motivata, derivante da un giudizio che scaturisce dalla gestione operata dal Governo in carica per l’esercizio finanziario dell’anno cui si riferisce. Ed è un giudizio definitivo su di un atto ricostruttivo dell’indirizzo di governo, indirizzo che ritiene non più prolungabile. Comporta un effetto univoco, giuridicamente prodotto al momento stesso della reiezione del rendiconto.
A dimostrarlo è la logica delle istituzioni. Che il rendiconto debba essere approvato è incontestabile. Ogni altra legge, la stessa dinamica dell’ordinamento risulterebbe altrimenti bloccata. Ma come rimediare se respinto? Quel che è certo è che a rimediare non può essere il Governo che ha subito il rifiuto del rendiconto. Nel caso capitato al Governo in carica l’11 scorso non basta la fiducia strappata alla Camera, dopo la reiezione. Il contenuto del rendiconto non è modificabile né dalla Corte dei conti, né da altri, non poteva e, infatti, non è stato modificato. Non può essere quindi riproposto alla Camera che lo ha bocciato. Ne fa divieto espresso ed univoco l’articolo 72, secondo comma, del suo Regolamento disponendo l’improcedibilità per 6 mesi di “progetti che riproducono sostanzialmente il contenuto di progetti precedentemente respinti”.
Per la verità, un tale disegno di legge, perché irricevibile ed irricevibile in quanto riproduttivo di un atto … già approvato, non avrebbe potuto essere neanche presentato al Senato. Come è invece accaduto determinando, con un’interpretazione del Regolamento sconcertante per la sua risibilità, un guasto che non ha precedenti. Non li ha perché è reiterazione (purtroppo compiuta) di una … approvazione, che in Italia (ma non solo) è prevista esclusivamente per le leggi costituzionali. Effettuarla per il rendiconto, sconvolge prassi, norme, principi. Tanto più che cospira alla revoca, da parte della Camera, della deliberazione già adottata, quella di rigetto del rendiconto, revoca che verrebbe commessa in esplicita violazione del suindicato articolo 72 del suo Regolamento.
Il rifiuto del Governo di obbedire ad un obbligo impostogli dal sistema parlamentare sta quindi per configurare un procedimento esemplare di violazione multipla di norme. Impedire che tali violazioni si compiano è possibile. Lo potrebbe e lo dovrebbe la Camera dei deputati, se riuscisse ad ergersi al di sopra degli interessi contingenti della maggioranza e si attestasse sul rigoroso rispetto del suo Regolamento. Salverebbe così l’inderogabilità della garanzia della propria autonomia, dei propri poteri e delle libertà parlamentari dall’arbitrio dell’esecutivo.