La disobbedienza civile


La continua dialettica tra potere e cittadini porta a riscoprire, pur se lo esprime in maniera rinnovata e trasformata, il vecchio diritto di resistenza, mettendo in discussione il tema dell’obbligo politico che si trasforma, dalla accezione assolutizzata di obbedienza, in una accezione diversa, che in qualche modo si definisce come impegno politico, come esigenza ‘civile’ (morale?) di partecipazione. Si tratta di un impegno che si gioca tra l’accettazione del principio democratico, e quindi di quegli ordinamenti che tali siano fino in fondo, e la decisa convinzione che il principio democratico correttamente inteso esiga una attenzione costante all’operato governativo – oggi anche intergovernativo e internazionale – una partecipazione continua che si definisce non solo attraverso il consenso ma anche attraverso il dissenso. Quest’ultimo si esprime in maniera varia a seconda della disponibilità al dialogo che le forze politiche – che si considerano peraltro elette democraticamente dalla base – hanno con società sempre più caratterizzate dall’emergere di una varietà di soggetti che reclamano il riconoscimento della loro soggettività politica e lanciano l’idea di una democrazia radicale nella quale si possa realizzare una piena partecipazione e un ordine senza gerarchia.
Il nucleo dell’antico diritto di resistenza, il suo essere risposta all’illegittimità del potere politico resta, ma il suo punto focale si sposta perché vanno modificandosi sia i criteri costitutivi della legittimità sia i criteri identificativi dei soggetti politici. Emergono, infatti, nuovi soggetti politici che stravolgono il consolidato rapporto stato-cittadino e impongono la revisione delle tradizionali forme di mediazione, dando luogo ad una varietà di figure di resistenza che, più che mettere in discussione la legittimità del potere politico, sottolineano la incondizionatezza dell’obbligo politico (A. Jellamo) pervenendo, in tal modo, a indicare la necessità di modificare lo stesso concetto di potere che viene ad essere del tutto scisso dal concetto di dominio e che tende a definirsi, in maniera più consona col principio democratico, come risultato di una condivisione di forze e opinioni. Esito di una visione della vita che, sulla scia di Deleuze e Guattari, ma anche in sintonia con le più avanzate teorie scientifiche e con le nuove logiche, contrappone il non lineare al lineare, l’anarchia alla gerarchia, il nomadismo al sedentario, l’eterogeneità all’omogeneità, la molteplicità all’unità, la scienza secondaria alla scienza principale e che, ciò facendo, tende a sminuire l’importanza e il ruolo dell’istituzione e a rifiutare il ‘sistema’.
Pur senza voler entrare nel merito della opportunità di esaurire il politico in una dimensione che non tenga nel dovuto conto il peso e l’importanza del momento istituzionale, bisogna convenire sul fatto che è la marcia sulla via della democrazia a ridimensionare il principio rappresentativo per definire forme di partecipazione sempre più ampie ad una vita politica che si allarga al di fuori della tradizionale forma statale, data la caratteristica delle emergenze cui occorre trovare soluzione e che tende a realizzarsi in forme continuamente aperte. Da un lato, l’esistenza di società sempre più frammentate e variegate impone di allargare la partecipazione a soggetti nuovi che tendono ad esprimere i loro punti di vista e, dall’altro, l’emergere di una dimensione sovrastatale dei problemi richiede forme di comunicazione e dialogo tra soggetti politici che avvertono la limitazione di un rapporto esclusivo con una sovranità nazionale e la necessità di allargare la forma partecipativa –consenso e dissenso- ai luoghi di decisione che sembrano dislocarsi al di fuori o accanto allo stato nazionale. Ed è tenendo presenti questi aspetti che oggi si deve guardare a quella forma di resistenza che è la disobbedienza civile. Se il diritto di resistenza ha trovato una sua definizione ormai divenuta classica, la disobbedienza civile ha avuto una sua stagione fortunata negli Stati Uniti degli anni sessanta – sul piano dei diritti civili ma anche per la guerra del Vietnam – dove è stata teorizzata sulla base di uno studio attento dei movimenti dell’epoca e di una lunga discussione che ha permesso di individuarne i caratteri distintivi che ne impedissero l’assimilazione a tutti gli altri fenomeni di dissenso più o meno forte quali la violazione comune della legge, l’obiezione di coscienza, la ribellione, la rivolta, fino ad arrivare alla rivoluzione ( T. Serra). Ma oggi occorre guardare a queste forme di un dissenso variamente calibrato, che sempre più tendono a sovrapporsi, tenendo presente il mutato contesto culturale e politico entro il quale si presentano. E che non guarda più ad un modo di essere della politica che è basato sulla centralità del potere statale, ma percepisce l’anacronismo dell’antico rapporto cittadino stato anche a causa della dimensione trasversale dei problemi con i quali ci si deve confrontare. Se i centri decisionali della politica, oltre ad avere esautorato i centri istituzionali a livello interno, trovano i loro luoghi al di fuori di quelli tradizionalmente e istituzionalmente a ciò deputati, e per di più sono anch’essi delocalizzati, in quanto non risiedono più nei tradizionali palazzi, anche i fenomeni di resistenza e disobbedienza si trovano ad essere divisi tra la necessità di continuare a mantenere un rapporto critico nei confronti del potere statale e la necessità di esprimersi anche in una transnazionalità che consenta di realizzare l’impegno politico in tutti i luoghi del potere. Lo spostamento del centro decisionale è accompagnato anche dall’intervento di quel luogo di riunione e aggregazione che è il villaggio despazializzato della rete, che modifica finalità e senso delle forme di dissenso ampliandole a fenomeno globale e offrendo strumenti più potenti di ascolto, ma anche esponendole a rischi di strumentalizzazione potenzialmente non democratiche, dal momento che la transnazionalità è resa possibile da sistemi di comunicazione più raffinati, ma non sempre suscettibili di essere controllati per quanto riguarda la loro rispondenza alle caratteristiche che la disobbedienza civile dovrebbe avere o che tradizionalmente ha avuto, e ai rischi della riduzione a fenomeno di bavardage elettronico.
E’ per questo che occorre, nel mutato contesto culturale e politico e tenendo presenti quelle espressioni di dissenso che dichiarano apertamente di appellarsi ad un diritto alla disobbedienza civile, continuare a insistere sulla differenza che passa tra i vari fenomeni di dissenso e nel caso specifico tra quello che è stato chiamato il ‘potere negativo’ (P. Catalano), la disobbedienza civile, la ribellione, la manifestazione di protesta, la rivolta vera e propria per finire alla rivoluzione, anche se una qualunque discussione sul fenomeno della disobbedienza civile non può fare a meno di rispondere a un criterio di adeguatezza descrittiva, vale a dire deve tener conto del significato in cui il termine è generalmente usato nel linguaggio comune (G. Pontara) e della trasformazione che questo strumento ha subito e sta subendo proprio in virtù del significato che ad esso generalmente si dà. Trasformazioni che sembrano portare al superamento della linea di differenza che separa la disobbedienza civile da quelle altre forme di protesta che, pur accettando il principio democratico, rifiutano il sistema consolidato perché rifiutano ogni sistema.
Ripetuti comportamenti che si autodefiniscono come atti di disobbedienza civile spingono ad un approfondimento di una teoria che sembrava ormai consolidata e che oggi potrebbe mostrare un certo anacronismo dettato sostanzialmente, come si è accennato, dalla internazionalizzazione del fenomeno, dalla trasformazione dei rapporti internazionali, che hanno condotto ad uno spostamento del potere decisionale non più riservato ai singoli stati sovrani e dall’avvento della rete. Sempre di più la disobbedienza civile si presenta come una forma di protesta che assume aspetti diversi contro un potere che, pur definendosi democratico, come tale non viene percepito, e acquista l’aspetto di un bisogno di appropriarsi della decisione politica dal momento che questa non tocca solo aspetti di natura amministrativa e convenzionale ma decisioni fondamentali sul futuro del mondo. Se sugli aspetti di natura amministrativa può ancora valere il principio della delega e della rappresentanza e può essere ancora accettato il sistema istituzionale, e quindi l’obbligo di accettazione delle regole volute dalla maggioranza, per gli aspetti decisivi della politica si avverte la impossibilità di parlare di delega e la necessità di intervenire attivamente a far sentire le proprie opinioni. Non a caso negli anni ottanta la tattica della disobbedienza civile è stata utilizzata soprattutto dai movimenti antinucleari e dagli ambientalisti. E non a caso, da Seattle in poi, la ondata di disobbedienza civile, che si esprime come esigenza di partecipazione, scatta ogni qualvolta è in ballo una decisione sul destino dell’uomo o della terra, decisione che non può essere delegata una volta per tutte al sistema, ma che va costruita attraverso forme partecipative di cui la disobbedienza civile diventa uno strumento fondamentale. Strumento al quale si affianca una nuova forma di disobbedienza, vale a dire la disobbedienza sociale, che vede irrompere la questione sociale su un piano che finora era stato riservato ad un ambito strettamente politico e fa scivolare la disobbedienza verso una vera e propria nuova espressione del conflitto tra classi da giocare a livello planetario, affermando la necessità di una rinnovata e irriducibile opposizione al sistema imperialista-capitalista. E a cui si affianca anche una nuova formulazione che è quella di disobbedienza costituente, che mette in evidenza come la disobbedienza produca decisione politica sul comune come potenza costitutiva dell’ordine civile. Formulazione che denuncia, già nella sua aggettivazione, il ricorso al mito della fondazione continua e quindi una stretta parentela con la rivoluzione permanente di R. Luxembourg, ma che non tende a far leva sulla rivoluzione, logicamente incoerente in ambito democratico, bensì sulla costituzione, riconosciuta nella sua funzione di garante dei diritti fondamentali, ma alla quale si richiede una continua disponibilità ad adeguare le strutture istituzionali ai cambiamenti sociali. Quasi fosse possibile combinare la persistente fiducia nella costituzione con il dinamismo dei tempi attraverso una continua costituzione dell’ordine civile. Quasi fosse possibile combinare la persistente fiducia nella costituzione con il preteso rifiuto del ‘sistema’ coerente con le posizioni filosofiche più recenti.
Se ci si attiene alla definizione consolidata della disobbedienza civile si deve ricordare che essa, connaturata alla democrazia, e precisamente insorgente quando le istituzioni democratiche stanno per ‘far naufragio’ (H. Arendt), è espressione di una esigenza di partecipazione, del bisogno di riportare la democrazia nel suo alveo impedendo la dittatura della maggioranza e lo scollamento tra governo e governati. In questo senso rappresenta, per la democrazia, una valvola di sicurezza, è uno dei meccanismi di stabilizzazione del sistema costituzionale in quanto opporsi all’ingiustizia nei limiti della fedeltà al diritto serve a frenare l’allontanamento dalla giustizia e a correggerlo quando è avvenuto (J. Rawls ), una difesa del diritto oltre che l’espressione di un impegno politico e civile (H. Arendt ), che definisce in modo nuovo il cittadino democratico, colui che vuole far sentire la propria opinione e che, se non ascoltato, è costretto, per dar forza alla sua voce, a ricorrere ad atti di disobbedienza civile o di resistenza vera e propria.
Fenomeno relativamente recente, la disobbedienza civile sembra situarsi, quindi, in una gamma che la vede come forza partecipativa più forte dell’opinione pubblica ma meno forte dell’opposizione politica, meno forte perché non istituzionalizzata e, forse, non suscettibile di esserlo; ma meno estesa dell’opinione pubblica, anche se su di essa influente, e più estesa dell’opposizione con la quale, però, deve forse creare alleanze, meno drastica e dirompente della rivolta e della rivoluzione, che forme partecipative non sono in quanto escludono totalmente dal loro fine un qualunque mantenimento dell’ordine sociale e delle istituzioni esistenti. Se rettamente intesa, è espressione di un impegno politico che tende a ristabilire il corretto rapporto tra cittadini e rappresentanti in uno stato democratico quando questo corretto rapporto sia stato violato, il corretto rapporto tra governo e costituzione quando questo corretto rapporto sembra essere venuto meno. E’, quindi, anche uno strumento per riportare il potere politico al mondo comune e al rispetto delle regole costituzionali e soprattutto per non fargli perdere di vista la concretezza della società e per costringerlo, prima che il rapporto potere cittadini degeneri in modo da richiedere forme violente di protesta, a recuperare sia il principio di legalità che la consapevolezza dei principi che dettano la forma e i contenuti delle sue decisioni e la ragione della sua stessa esistenza. In tal senso è una risposta ad una patologia e assume anche il significato di una lotta per il diritto quando si avvertano tutte le conseguenze negative dell’avvenuta scissione tra diritto e giustizia. E’ per queste sue caratteristiche che, perché si possa parlare di disobbedienza civile, è necessario che vi sia una violazione intenzionale, disinteressata, pubblica e pubblicizzata di una legge valida, emanata da una autorità legittima, sulla base della convinzione del necessario raccordo tra validità e legittimità. Essa non può essere violenta, deve esprimere una opinione condivisa e, soprattutto, anche se su questo punto non sempre si pone l’accento, deve essere occasionale e non dar luogo ad una formazione organizzata di disobbedienti. Essa, oltre ad essere l’ultima risorsa da porre in atto quando le altre vie siano state esperite senza successo, è sottoposta ad almeno due test di credibilità in quanto il dilemma obbedienza-disobbedienza deve far riferimento a principi più alti, che oggi sono generalmente quelli recepiti costituzionalmente, e il costo sociale dell’atto di disobbedienza civile deve essere inferiore a quello che verrebbe provocato dal rispetto della regola ritenuta ingiusta (C. Donolo). Vale a dire, l’atto di disobbedienza civile, per realizzarsi e non confondersi con altri tipi di resistenza e dissenso, deve essere espressione di una piena accettazione dell’ordinamento nel suo complesso in quanto non solo lo si considera legittimo ma anche lo si prende a parametro per giudicare della legittimità e coerenza di una norma o di una politica specifiche. Essa si rivolge o contro una legge formalmente valida e ritenuta ingiusta e illegittima al fine di farla modificare, o disattende una legge valida e ritenuta legittima al fine di rafforzare una opinione contro una determinata scelta politica che non si considera opportuna o rispondente ai principi. La disobbedienza civile può essere perciò innovativa, se tende a modificare uno status quo, o conservativa se tende ad impedire innovazioni non coerenti con i fini o i valori che sottendono l’ordinamento. E’ un atto politico per eccellenza in quanto è un atto guidato da principi politici (J. Rawls) ed è per questo che deve essere fondamentalmente non violenta in quanto, se vuole essere coerente con i principi che la sostengono, non può essere lesiva dei diritti degli altri e dei principi su cui si fonda la stessa istituzione. Più controverso invece il problema della sanzionabilità degli atti di disobbedienza civile. Per molti colui che viola una legge valida con l’intento di mettere in atto la disobbedienza civile non deve rifiutare la eventuale sanzione inerente alla violazione (A. Passerin d’Entrèves), proprio a causa della sua accettazione dell’ordinamento nel suo insieme. Si tratta per alcuni di un dovere morale (J. Murphy), mentre per altri la disponibilità alla sanzione non può essere una condizione necessaria per essere un disobbediente civile (P. Woozley ) ma, piuttosto, è necessaria per la stessa riconoscibilità della disobbedienza civile in quanto, essendo per sua natura rispettosa dell’ordinamento, non può eludere le sanzioni che conseguono ad un atto volutamente illegittimo. Questa la ormai classica teoria della disobbedienza civile che è costretta a fare i conti, oggi, con le trasformazioni avvenute nell’ultimo ventennio e quindi anche con quel criterio di adeguatezza descrittiva di cui si è detto.
Come la sua storia testimonia, il diritto di resistenza ha sempre rivendicato il suo essere diritto, giuridicamente fondato, sostenuto dalla giuridicità naturale, implicito nei vincoli contrattuali o nella struttura convenzionale della giuridicità positiva. L’idea di fondo comune alle diverse teorie è che il diritto di resistenza si imponga quando la legge viola la ragione dell’obbligo politico (A. Jellamo). E questo aspetto decisamente definisce anche quella forma contemporanea della resistenza che è la disobbedienza civile.
Non credo sia cambiato molto oggi in relazione al diritto di resistenza rispetto alla tematizzazione del pensiero liberale che individua nella difesa dei diritti individuali la stessa ragione dell’obbligo politico. Venendo meno questa difesa è evidente che si legittima il diritto di resistenza in tutte le sue forme. Direi che piuttosto si ha una specificazione ulteriore dei diritti, che restano la dimensione prioritaria se non unica della giuridicità e che, così considerati, riportano in auge il tema della legittimità del potere e delle sue decisioni, superando in maniera decisiva la equivalenza del giuridico con la legalità. Solo che sembra che la dicotomia da superare non sia più quella tra diritti morali e diritti legali, a ragione di una sorta di rifiuto dell’assolutezza del diritto morale, quanto piuttosto quella tra diritto politico e diritto legale dove al primo si dà il significato correlato a quell’impegno politico di cui si è detto e che trova le sue specificazioni nelle costituzioni. Si tratta di una sorta di recupero di una morale civica che pretende di non avere niente a che vedere con la morale ma che, in realtà, da una qualche visione morale non può essere sganciata. La tensione non è più tra morale e diritto o morale e politica ma si crea una tensione inedita tra modi diversi di intendere la politica e quindi si affaccia all’orizzonte un bisogno di fondare il politico in termini nuovi che superino la dicotomia tra governanti e governati e indirizzino verso un approfondimento del principio democratico. Direi che i fenomeni contemporanei della resistenza e della disobbedienza civile imporrebbero, ma non è questa la sede, proprio una riflessione sul morale e sul politico e sulla possibilità che questi momenti hanno di esser distinti l’uno dall’altro senza che peraltro si perda di vista la necessità di una sorta di internormatività. La disobbedienza civile riapre la necessità di una comunicazione tra morale diritto e politica (C. Donolo) e impone di riflettere sulla dicotomia disobbedienza obbedienza come due aspetti di una medesima realtà in quanto la prima alla fine, se aggettivata come civile e come tale giocata, altro non è che obbedienza ai principi e agli universi morali o politici che fondano la società. Le contemporanee teorie costituzionalistiche da questo punto di vista sono illuminanti.
Il darsi dell’istanza partecipativa è espressione del dinamismo della società dei nostri tempi e della necessità che le trasformazioni non siano lasciate alla scelta di pochi ma si realizzino attraverso una partecipazione più ampia. L’unità non è più dello stato, il quale non possiede la capacità di padroneggiare e controllare tutto, né della sua organizzazione, ma è del fine e questo fine non può essere definito da pochi che possono esprimere interessi particolari, bensì deve sorgere attraverso un confronto continuo facilitato dal linguaggio comune. Nella situazione contemporanea questo linguaggio comune da un lato è difficilmente proponibile, dall’altro, anche quando venga in qualche modo ricostituito attraverso lo scambio di opinioni, non ha visibilità per cui si rende necessario che il soggetto lo rafforzi attraverso atti di partecipazione negativa che rendono chiara la partecipazione attiva. Se bene intesa, la disobbedienza civile può riflettere l’esigenza di recuperare una comunicazione sia in senso orizzontale che verticale. Se sorgente non solo sulla base del rispetto democratico delle opinioni, ma anche della pretesa di far rispettare le proprie opinioni, può essere in grado di superare il contrasto tra la razionalità strumentale e la razionalità teleologicamente orientata. Se bene intesa, ove non si lasci irretire dalla particolarità di fini contro i quali invece deve combattere, può essere non solo lo strumento per far prendere in considerazione opinioni condivise, ma anche uno strumento di educazione della società che è spinta ad assumersi le proprie responsabilità. Solo così, nata dalla logica dell’unione e del dialogo, del coordinamento, dell’orizzontalità e della responsabilità, può far sviluppare la logica del dialogo, del coordinamento, dell’orizzontalità e della responsabilità.
Di fronte alla crisi della democrazia non sembra più fondamentale la domanda ‘perché disobbedire?’ quanto soprattutto quella ‘perché obbedire se le istituzioni non reggono il peso della loro funzione?’. E si tratta di una domanda che investe il senso stesso delle istituzioni. E la disobbedienza civile più che essere ‘disobbedienza’, in quanto risposta negativa al ‘perché obbedire?’ (caratteristica piuttosto di atteggiamenti ribelli o rivoluzionari o anarchici), è in realtà un momento della risposta positiva al perché obbedire. Una risposta positiva in quanto espressione di una accettazione di fondo della vita associata e delle sue regole, accettazione di fondo che pretende tuttavia un riconoscimento della partecipazione di tutti a questa vita associata e alla formazione delle sue regole e dei suoi obiettivi, pretende, soprattutto, che la vita politica risponda alle regole fondanti della società.
Quali i punti su cui soffermarsi?
1.-L’intervento della rete e lo spostamento del decision making, che trova i suoi luoghi al di fuori di quelli tradizionalmente a ciò deputati, richiede o consente alla disobbedienza civile una transnazionalità che le fa assumere aspetti nuovi. L’intervento della globalizzazione, in qualche modo, così come modifica i contorni della politica, modifica anche i contorni della disobbedienza, dimostrando, se pure ve ne fosse stato bisogno, che essa resta un fenomeno fondamentale della lotta per il diritto, da far valere proprio contro la prevaricazione dei poteri reali, ovunque essi si concentrino. E’ il processo di democratizzazione a richiedere e pretendere la democratizzazione delle scelte politiche –vale a dire una rappresentatività del volere della collettività o quanto meno una capacità di ascolto dei punti di vista di larghe parti di essa – che avvengono al di fuori e al di sopra dello stato e, quindi, anche la disobbedienza civile si trasforma correlativamente alla trasformazione, o crescita, dell’istanza partecipativa. Essa risponde alla necessità di un concerto di opinioni che realizza un accordo comune che conferisce valore alle opinioni di coloro che si uniscono e tende a dimostrare, al di là del caso specifico per cui si lotta, che, nell’universo democratico invocato ormai in maniera generalizzata, la funzione costitutiva della comunità risiede nell’esperienza dell’uomo e non nella potenza delle istituzioni, le quali devono trarre la loro forza dal consenso e dalla continua partecipazione dei primi.
2.- La disobbedienza civile comporta sempre il riferimento e quindi l’obbedienza ad alcuni valori. Si può trattare sia dei valori propri di una comunità e di una tradizione culturale circoscritta, valori costituzionalizzati, che definiscono l’identità di appartenenza a quella comunità, sia di valori e principi fondamentali che vanno oltre questa comunità particolare e definiscono l’identità dell’uomo come uomo. Comporta in questo caso la consapevolezza di una identità di uomo che fonda e rispetta contemporaneamente l’identità particolare. L’impegno dell’uomo è anche quello di far valere l’identità particolare in un quadro di rispetto dell’identità generale e l’identità generale anche come parametro per misurare la validità delle singole realizzazioni all’interno dell’identità particolare. Di far appello alla sua identità di uomo contro ogni prevaricazione. Ed è proprio quest’ultimo punto che contribuisce a modificare ulteriormente la teoria e la pratica della disobbedienza civile. Il tema dei diritti umani acquista una centralità che lo svincola dal semplice riferimento individualistico, caratteristica di una dimensione che privilegia il rapporto individuo stato, per ampliarlo ai diritti dell’umanità nel suo complesso. I diritti umani, o meglio i diritti dell’umanità, acquistano una valenza chiaramente collegata ai principi di legittimazione non solo di una costituzione, ma anche delle politiche che si definiscono a livello internazionale. La disobbedienza civile si presenta sempre come una lotta per il diritto che viene esperita però non solo a favore dell’ordinamento stesso, ma a favore della realizzazione del principio democratico e di rispetto dei diritti che deve essere ampliato a livello internazionale. E in questa trasformazione del principio della disobbedienza civile è evidente che acquista centralità la disobbedienza effettuata contro linee politiche non rispondenti ai fini, non più solo della società in cui si vive, ma del mondo in cui si vive e in cui si dovrà vivere. La coscienza dalla doverosità della violazione in tal caso non nasce soltanto dalla connessione tra la legge ingiusta, che non si può osservare, e i superiori principi, ma soprattutto dal riferimento a progetti umani che sono contraddetti dalla società dei potenti, Acquista, così, una sua valenza la presenza massiccia di disobbedienti che esprimono il loro dissenso perché sentono il dovere di farlo per rispetto all’umanità di cui fanno parte.
Il braccio di ferro tra il ‘potere’ (nazionale, sovranazionale, transnazionale, economico ecc) e il ‘potere’ che nasce dall’unione di coloro che condividono opinioni dovrebbe rispondere alla dialettica democratica del dialogo e dell’ascolto, ma troppo spesso si risolve in un raffronto di forze non sempre pari. Dall’opinione condivisa nasce tuttavia un potere che non deve essere sottovalutato dai poteri istituzionalizzati. E’ interessante il continuo riferimento che i movimenti di disobbedienza civile fanno all’esempio di Gandhi e Martin Luther King e al loro invito a far sì che per il potere sia più costoso fare resistenza di fronte ai disobbedienti civili di quanto non sia accontentarli.
L’impegno politico del ‘buon cittadino’ si amplia a impegno dell’uomo ‘cittadino del mondo’ e si manifesta anche come esigenza di esprimere il dissenso tutte le volte che le istituzioni democratiche prendano decisioni sull’avvenire del mondo sulla base di logiche chiuse. Il disobbediente civile dei tempi nuovi sembra avvertire la necessità di porsi come forza trasversale che risponde a logiche di carattere generale con riferimento anche al principio della vita e della sopravvivenza della vita interpretato come diritto umano fondamentale, in contrapposizione alla trasversalità di un potere che risponde a logiche di tipo economico che col principio della vita nulla hanno a che fare. La comunicazione via internet, grazie alla formazione di un linguaggio nuovo e al luogo di incontro virtuale che supera i limiti spaziali e territoriali, riesce ad aggregare ciò che prima, soprattutto ma non solo dove mancava una tradizione associativa, era impossibile.
3.- Si può parlare di fondamento giuridico del diritto di resistenza e di un eventuale diritto di disobbedienza? Si può pensare che sia possibile trovare una legal basis alla disobbedienza civile, ossia che si possa definire un diritto in senso stretto alla disobbedienza civile? Il nostro costituente discusse a lungo della possibilità di introdurre in costituzione il diritto di resistenza senza poi pervenire ad una decisione positiva. Eppure non riterrei del tutto incongruente con uno stato di diritto il riconoscimento di un vero e proprio diritto di resistenza e di disobbedienza civile. Esso non comporterebbe una definizione innovativa del giuridico quanto piuttosto un suo recupero in un suo significato più ampio e complesso di quanto non consenta una definizione di carattere strettamente positivistico e formalistico. Logicamente coerente con la democrazia e ampiamente giustificabile sul piano dell’impegno politico del cittadino democratico, la disobbedienza civile esprime il bisogno di risalire, al di là della norma positiva e della specifica accettazione della decisione politica, a principi fondamentali legittimanti e questo ricorso legittima anche l’atto di disobbedienza civile che potrebbe essere assimilato, per la sua eccezionalità e per il suo stretto legame con i principi, al ricorso allo stato di necessità o al principio della legittima difesa. Entrambi, infatti, legittimano l’atto di disattenzione manifesta ad una legge nel momento in cui le istituzioni democratiche, venendo meno al loro compito o anche soltanto impedendo la partecipazione del cittadino, realizzano un illecito assalto ai suoi diritti, soprattutto se costituzionalmente garantiti.
4. Ma, al di là del problema di una definizione e della rilevazione degli aspetti positivi della disobbedienza civile, occorre anche tener presente il problema della responsabilità e opportunità di metterla in atto. Se è importante che il ‘potere’ sappia ascoltare le opinioni di quest’altro ‘potere’ che si realizza nell’opinione rafforzata e condivisa in modo da impedire che la protesta civile diventi vera e propria rivolta, è anche necessario che coloro che pongono in essere atti di disobbedienza civile sappiano non solo ascoltare le ragioni della maggioranza, siano cioè essi stessi disposti al dialogo, ma soprattutto siano consapevoli della loro responsabilità e delle conseguenze delle loro azioni in modo da non aggravare, con l’ attitudine contestativa, i problemi della comunità. Problema morale e problema di opportunità pratica si collegano quando si parla di disobbedienza civile.
Nella definizione e nelle pratiche consolidate c’è ormai un punto fermo che riguarda i diritti minimi spettanti all’uomo, validi a prescindere dal sistema politico e contro qualsivoglia sistema. Questi diritti minimi sono generalmente riconosciuti costituzionalmente e diventano il parametro su cui giudicare politiche e norme. Molti di questi diritti minimi sono stati anche teorizzati e rinvenuti in alcuni di quelli che sono i postulati dello stato di diritto. L’uguaglianza giuridica di tutti gli uomini definirebbe innanzitutto il contenuto concreto di tutti i diritti. Ad essa si affiancherebbero la generalità e l’irretroattività della legge in quanto esse renderebbero possibile lo stesso rispetto della razionalità dell’uomo; infine il corollario del principio della generalità della legge è la separazione dei poteri (J. Rawls, F. Neumann ). Ora la violazione di qualunque di questi postulati, così come la violazione dei diritti fondamentali, renderebbe illegittimo l’esercizio del potere politico, dando quindi a ciascuno, che sia direttamente interessato o meno, il diritto di resistenza. Tuttavia, se pure il diritto di resistenza è legittimo, altro problema è quello di vedere se e quando esso debba farsi valere (F. Neumann). C’è, infatti, la necessità, per chi mette in essere atti di disobbedienza civile, di non tener conto solo dell’immediato ma anche delle conseguenze che sul piano generale possano avere atti di disattenzione manifesta e continua alla legge. E’ il problema del limite che la disobbedienza deve incontrare oltrepassando il quale essa perde il suo aspetto di risposta ad una incoerenza o ingiustizia che si realizza all’interno di un sistema e quindi perde il suo aspetto equilibratore tra innovazione e conservazione, tra politica e diritto. Perde la sua essenza di forma partecipativa della società, di forma di comunicazione tra gli uomini e tra gli uomini e le istituzioni e diventa vera e propria forma contestativa del sistema.
5.- Proprio perché viene invocata e messa in atto quando le istituzioni democratiche sono sul punto di ‘far naufragio’, se strumentalizzata la disobbedienza civile può diventare essa stessa espressione di logiche parziali e interessi settoriali. Può diventare espressione del gregarismo che caratterizza le società contemporanee e non di quell’associazionismo che si definisce per la sua trasversalità rispetto agli interessi, per l’occasionalità dell’accordo, coerente con l’accettazione di fondo di un consentire critico su determinati aspetti che non richiedono opposizione costante e quindi durata del gruppo di disobbedienza civile. Se si dovesse costituire un gruppo stabile di disobbedienti civili si produrrebbe un soggetto politico che tenderebbe a rispondere a tutte le logiche settarie proprie dei gruppi e a tutte le dinamiche dei gruppi stessi. Come tutti i fenomeni umani la disobbedienza civile può acquistare significato ambivalente, può essere strumento positivo, espressione di recuperare la referenza valoriale delle leggi, strumento per rivendicare un diritto di sindacato di quelle leggi e quelle scelte politiche che non siano collegate ai valori della società, per far giungere in maniera forte le opinioni condivise sulle decisioni politiche, strumento anche per recuperare la condivisione di opinioni e idee, quindi l’accordo su principi e fini, attraverso la comunicazione rinnovata e disinteressata. Anche espressione del bisogno di agire nella piena responsabilità del ‘buon cittadino’ in modo da partecipare al mondo comune attraverso la espressione delle proprie opinioni e delle proprie di idee. Risponde in tal modo all’esigenza di riappropriarsi della soggettività politica messa in crisi e di un bisogno di confrontarsi con gli altri sui problemi e sui principi. Ma dall’altro essa potrebbe essere anche espressione della volontà e della forza di minoranze che tendono a dettare la ‘loro’ volontà e a rifiutare la decisione della maggioranza.
Se è valido il principio che lo strumento tecnico della maggioranza non deve degenerare nella tirannia della maggioranza, è anche valido il principio che gli strumenti tecnici che le minoranze usano per far sentire le loro opinioni non degenerino nella tirannia della minoranza.
La libertà di parola esige l’impegno a dire le proprie ragioni e a pretenderne l’ascolto da parte dell’altro, ma esige anche la disponibilità ad ascoltare e comprendere le ragioni dell’altro. La disobbedienza civile resta legata a questa duplice capacità e se è conseguenza di un mancato ascolto deve essere considerata come pienamente legittima in quanto correlata, in positivo, al dovere del buon cittadino, che tende a rivendicare anche in maniera rafforzata la sua soggettività politica e a esigere la rispondenza delle politiche e delle norme ai principi costituzionali e, in negativo, ad un venir meno dell’obbligo e dell’impegno politico di colui che è stato chiamato a rappresentarlo. Il dovere di reciprocità democratica lo impone. Né maggioranza né minoranza possiedono e personificano la verità e la saggezza e quindi non possono pretendere di imporre valori e decisioni a scapito della pluralità delle esigenze qualitative e pratiche che emergono dalla dialettica sociale. Le maggioranze hanno un loro mondo di senso comune che deve restare anche il luogo in cui si pongono i dubbi. L’urto tra la verità e l’errore è una grande risorsa per l’umanità. Se tutta l’umanità meno uno fosse di una opinione e una sola persona fosse dell’opinione opposta sarebbe un furto per l’umanità mettere a tacere quell’unica persona, perché se l’opinione è giusta coloro che la avversano sono privati della possibilità di lasciare l’errore per la verità e se l’opinione è sbagliata essi perdono un vantaggio anche maggiore cioè la percezione più chiara e viva della verità proprio grazie all’urto con l’errore (J. S. Mill).
6.- La contestazione del ‘sistema’, non di questo o quel sistema, può essere considerata una espressione di un bisogno di approfondimento del principio democratico? E’ questo, forse, il punto più delicato su cui invita a riflettere il criterio di adeguatezza descrittiva. Se le forme contestative tendono a sovrapporsi e nella prassi contemporanea si autodefiniscono come atti di disobbedienza civile forme di dissenso diverso che vanno dalla semplice manifestazione alla protesta di piazza, ad atti di rivolta veri e propri, lo si può imputare semplicemente a ragioni estrinseche dovute alle molte anime dei movimenti o è espressione di qualcosa che va al di là della contingenza e che tocca, invece, il modo di concepire il principio democratico stesso? Ci si può del resto domandare perché, pur essendo la disobbedienza civile espressione di una esigenza partecipativa e pur nel momento in cui le istituzioni democratiche sembrano ‘far naufragio’, in realtà essa non acquista una sua forza e un suo seguito e contemporaneamente soggiace a forme di promiscuità con altri tipi di dissenso. Le ragioni, sulle quali occorrerà continuare a interrogarsi a lungo, sono varie e qui se ne possono ipotizzare solo alcune di carattere culturale discendenti dal fatto che la disobbedienza civile richiede l’esistenza nel cittadino di un habitus democratico che nella realtà non sempre esiste. Richiede senso di responsabilità e impegno civile, capacità e volontà di vivere la condizione di soggetto politico investendo in essa impegno e tempo. E il cittadino comune delle moderne democrazie rappresentative non sembra disposto a impegnarsi nel suo dovere di costante attenzione all’operato governativo dal quale pretende peraltro la soluzione dei suoi problemi senza rendersi conto di consegnargli in tal modo la sua libertà. L’approfondimento della democrazia nella sua forma partecipativa richiede cittadini responsabili e disposti a sobbarcarsi il peso della partecipazione anche nel suo aspetto di disobbedienza civile. Alla mancanza di questo habitus democratico fa riscontro quello che possiamo definire il naufragio delle istituzioni democratiche connesso con la crisi dello stato moderno di cui tanto si parla.
7.- Se fino a qualche anno fa l’ordinamento che l’eventuale disobbediente civile accettava era quello specifico nel quale si compiva il suo gesto, oggi si realizza un passo ulteriore e la accettazione riguarda il principio democratico e non l’ordinamento stesso e ciò corre il rischio di far avvicinare sempre di più la disobbedienza a forme più forti di dissenso. E non per l’eventualità della degenerazione ma perché sembra che l’istanza partecipativa imponga un rispetto non tanto per gli ordinamenti in sé quanto per il principio democratico. Questo sembra scindersi dall’ordinamento stesso nel momento in cui il centro decisionale diventa una forza comune alla quale le singole potenze partecipano con un atteggiamento che riscopre simboli e atteggiamenti di un potere che con la base non ha più alcun rapporto e che ridimensiona le tradizionali forme di mediazione, chiamate solo a recepire decisioni, ridimensiona o tradisce il dettato costituzionale.
E’ indubbio che sul piano logico il principio democratico esige di essere approfondito a livello istituzionale interno e realizzato a livello di rapporti interstatuali. Esige un continuo adeguamento e approfondimento e si può dire che la democrazia sia sempre anacronistica nelle sue realizzazioni e sempre utopistica nel suo principio. I sistemi democratici contemporanei sono ormai arrivati al punto massimo di questo loro anacronismo nei confronti di un principio democratico che va approfondendosi. Questo spiega perché, intersecandosi le varie forme di dissenso, questo diventa lotta contro il ‘sistema’ da parte di quei soggetti che, nella linea di approfondimento del principio democratico, esigono che esso si realizzi sempre di più, anche attraverso il riconoscimento di una molteplicità di soggetti politici. La separazione tra sistema democratico e principio democratico fa sì che molta parte della disobbedienza civile dei tempi nuovi si muova nella consapevolezza dell’importanza del principio e della non rispondenza dei sistemi, che pure democratici si autoproclamano, al principio ed è per questo che essa è disobbedienza e nello stesso tempo rivolta. Ma se è lotta contro il sistema, diventa resistenza e ribellione e entra in contraddizione con lo stesso principio ormai consolidato nella definizione della disobbedienza civile che è l’accettazione dell’ordinamento. Si può dire che oggi la disobbedienza civile accetta il principio democratico e per giustificarsi fa riferimento ai principi costituzionali, tuttavia critica il funzionamento degli ordinamenti democratici e i sistemi rappresentativi, che questo principio non sembrano rispettare a pieno, ed è per questo anche che si fa disobbedienza sociale o disobbedienza costituente. Se la disobbedienza civile ormai classica resta una lotta per il diritto strettamente collegata al rispetto dell’ordinamento e che trova generalmente la sua giustificazione nella difesa dei principi costituzionali, queste nuove forme di disobbedienza sembrano rasentare sempre di più la lotta contro il sistema. Si tratta di una lotta che risponde a forme culturali che vanno sempre più estendendosi, e tende a riconoscere l’importanza dei principi costituzionali e della costituzione, ma mira a realizzarli in modo nuovo, attraverso una richiesta di trasformazione istituzionale che sappia meglio adeguarsi al principio democratico approfondito. Utilizza così forme di resistenza che vanno distinte dalla classica disobbedienza civile e realizzano piuttosto una via intermedia tra la disobbedienza civile e la rivolta vera e propria.
8.- Un ulteriore cenno, proprio per tener conto del criterio di adeguatezza descrittiva, merita l’avvento della disobbedienza civile elettronica. L’avvento della rete arricchisce la discussione e richiede anche una distinzione tra l’uso della rete come strumento di comunicazione tra i gruppi dei disobbedienti e la vera e propria disobbedienza civile elettronica. Sotto il primo punto di vista la disobbedienza civile sembra aver trovato sia la possibilità di un linguaggio comune sia uno strumento di comunicazione fortemente utile ai fini della trasmissione e dello scambio di opinioni e ai fini dell’organizzazione del fenomeno stesso in termini di orizzontalità e non verticalità. Attraverso la rete l’organizzazione ne viene migliorata sia quanto ai collegamenti che quanto al sostegno per i disobbedienti i quali si chiariscono reciprocamente anche le idee sui caratteri specifici del fenomeno stesso. Ma più interessante, anche perché fa riflettere sui cambiamenti del nostro tempo, è la disobbedienza civile elettronica che vede vari fenomeni anch’essi suscettibili di essere inquadrati in una linea di crescente forza che va dall’attivismo computerizzato a forme di incitamento all’azione (esempio di Grassroots Infowar), da fenomeni di sit in virtuali che tendono ad intasare i siti, ad atti di controinformazione quali il defacement, vale a dire il deturnamento in rete, cioè la sostituzione del contenuto di un sito web con un altro contenuto, spesso di carattere antagonista, il digital Hijacking, vale a dire il dirottamento virtuale dell’utente per cui il motore di ricerca risponde ad una parola chiave dirottandolo su un sito che contiene contenuti differenti o il cybersquatting, cioè la clonazione dei siti o la creazione di un dominio virtuale simile a quello di un altro sito ma i cui contenuti sono molto diversi, infine fenomeni di vero e proprio politicized hacktivism. L’attivismo via internet, in qualunque forma esso si presenti, accresce e sostiene gli sforzi dei cittadini per far conoscere le loro opinioni e per rinforzarle facendo conoscere anche tutte le informazioni sui diritti e doveri dei disobbedienti civili, ma mette anche in circolazione una rete di controinformazione che acquista una visibilità e capillarità di penetrazione che la carta stampata non potrebbe consentire e, ciò facendo, mette in discussione il senso comune dominante, fornisce punti di vista diversi sullo stato delle cose e mette in crisi l’autorità e la legittimazione della informazione ufficiale, o comunque dominante, perché basata su una cultura data per acquisita. Si può prevedere che le istituzioni potranno diventare più vulnerabili nel ciberspazio di quanto non lo siano nel mondo fisico e che la disobbedienza civile elettronica possa diventare uno strumento potente da affiancare agli strumenti tradizionali. Anche se l’abitudine alla comunicazione via internet potrebbe sortire l’effetto opposto, di rendere cioè verbale e comunicazionale la disobbedienza rafforzandola quanto a numero ma indebolendola quanto a possibilità effettive di raggiungere risultati immediati. E’ certo che l’attivismo via internet è in crescita e che esso pone nuovi problemi, primo fra tutti quello della ulteriore difficoltà di trovarne una regolamentazione giuridica dal momento che esso si gioca tutto sull’extraterritorialità, non essendo legato ad alcuna regione geografica precisa. Ma soprattutto l’attivismo computerizzato, in certi suoi aspetti, si presenta come una forma forte di controinformazione che non può essere sottovalutata in quanto pubblicizza una sorta di etica hacker che, circolando liberamente, contribuisce a modificare mentalità e costumi, a istillare dubbi e scetticismo. “The Revolution will be digitized” affermano i fondatori dell’ Electronic Disturbance Theater ( S. Wray e R. Dominguez). Queste esperienze di disobbedienza civile elettronica invitano a non sottovalutare un fenomeno che, creando nuovi poteri, o contropoteri, può modificare il rapporto col potere e lo stesso concetto di potere. E invitano a riflettere soprattutto sulla rivoluzione culturale cui conduce il superamento, o completamento, della galassia Gutenberg: l’avvento della rete, che consente a chiunque abbia una minima conoscenza del suo funzionamento di salire sul palcoscenico del mondo, può modificare le stesse categorie su cui una cultura e un potere tradizionalmente riservati a cerchie ristrette si sono retti, soprattutto può rafforzare e far circolare a livello planetario le nuove logiche che contrappongono il decentramento all’accentramento ( forma particolare della contrapposizione tra anarchia e gerarchia), il nomadismo al sedentario, lo sviluppo di modelli di progettazione aperti e cooperativi che partono dalla condivisione dei poteri alla cultura ufficiale, vale a dire l’eterogeneità all’omogeneità, la molteplicità all’unità, e, ciò facendo, tende a sminuire l’importanza e il ruolo dell’istituzione e a rifiutare il ‘sistema’. Ma ogni rifiuto di una etica e di un sistema non significa riproposizione di un’altra etica e di un altro sistema se pur diversamente organizzato? L’antiautoritarismo che compare nelle pratiche di hackeraggio non è alla fine un tentativo di imporre nuove regole che trae la sua forza convincente proprio dal fatto di dichiarare il suo rifiuto della regola? La stessa denominazione di etica hacker è sintomatica. E che attrae per questo espresso rifiuto proprio come la disobbedienza civile attrae per il suo essere ‘disobbedienza’ e quindi realizzarsi ‘contro’, nascondendo così il suo aspetto di obbedienza ad un universo di valori?

Alla fine, anche nelle sue forme più ibride, la disobbedienza civile resta una obbedienza selettiva alla legge che, se attuata con la specifica intenzione di salvaguardare la vera essenza del diritto e del principio democratico, non comporta pericoli per il buon andamento della società, ma solo auspica una maggiore attenzione per le regole fondanti e per l’orizzontalità delle relazioni, sviluppa la logica del dialogo, del coordinamento, dell’orizzontalità e della responsabilità. Ripetuti e crescenti atti di disobbedienza civile, soprattutto ripetuti e crescenti sovrapposizioni di essa con forme più forti e violente di resistenza ne confermano la natura di valvola di sicurezza per i sistemi democratici e mostrano il suo essere un fenomeno di confine che può diventare il mezzo per la crescita del principio democratico e per la difesa della legalità costituzionale, ma anche il preludio per il rifiuto del sistema, anticamera della ribellione e della rivoluzione quando questa legalità costituzionale venga continuamente sfidata dal ‘potere’, ovunque esso si concentri.

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