Legge Gasparri e Corte costituzionale (*)


Sommario: 1. Cronaca di una legge annunciata. Dalla presentazione del d.d.l. all’emendamento Giulietti. – 2. Segue. La prima approvazione delle Camere e il rinvio presidenziale. – 3. Segue. Il d.l. n. 352/2003, le osservazioni dell’AGCom e dell’Antitrust e l’approvazione definitiva della legge. – 4. La «definitività e ineludibilità» del termine del 31 dicembre 2003, secondo la sentenza n. 466/2002. – 5. Le due letture del messaggio presidenziale e la scelta del Governo in violazione della sentenza n. 466/2002. – 6. L’illegittimità del prolungamento della fase transitoria dell’analogico terrestre. Il cd. «giudicato costituzionale». – 7. Segue. Le sentenze d’incostituzionalità «prive di rilevanza» nel giudizio a quo. – 8. Ulteriori profili d’illegittimità costituzionale della fase d’avvio delle trasmissioni in digitale terrestre come espediente per l’ulteriore prolungamento della fase transitoria dell’analogico terrestre.

1. Cronaca di una «legge annunciata». Dalla presentazione del d.d.l. all’emendamento Giulietti

«Cronaca di una morte annunciata» è, come tutti sanno, il titolo di un racconto di Gabriel García Márquez. Questo titolo è già stato utilizzato, in dottrina, proprio in materia televisiva, per esprimere, icasticamente, il senso della sentenza n. 826/1988 della Corte costituzionale, la quale, pur evidenziando a chiare lettere i vizi di legittimità costituzionale che inficiavano il d.l. n. 807/1984 – meglio conosciuto come il II decreto Berlusconi -, non ne pronunciò l’incostituzionalità, poiché la Corte ritenne che tale decreto avesse «natura chiaramente provvisoria». Ebbene, in quell’occasione si parlò appunto di «una incostituzionalità annunciata (ma non …dichiarata)»(1).
Il titolo del bel racconto di García Márquez mi è tornato alla mente ordinando le idee per questo mio contributo. Mi è parso, infatti, che anche a proposito della legge Gasparri (l. 3 maggio 2004, n. 112) si possa ripetere che la sua approvazione – nella misura in cui essa perseguiva il mantenimento dello status quo televisivo (e quindi anche la prosecuzione dell’operatività di Retequattro in tecnica analogica) (2) – appariva già ineluttabile, e pertanto poteva dirsi «annunciata» come tale, sin dalla presentazione del relativo d.d.l. alla Camera dei deputati, avvenuta il 25 settembre 2002.
Già nella stesura iniziale, il Governo aveva infatti mostrato, col d.d.l. n. 3184, di non voler tener in alcun conto né i numerosi richiami informali del Capo dello Stato, dei primi mesi del 2002, in favore del pluralismo nei mass media(3), né il successivo messaggio rivolto alle Camere in data 23 luglio 2002 in materia di pluralismo e di imparzialità dell’informazione(4).
La determinazione del Governo non era stata poi minimamente scalfita dalla pubblicazione della sentenza 20 novembre 2002, n. 466, nella quale la Corte costituzionale aveva esplicitamente ritenuto non rilevante (n. 5, cons. in dir.) il d.l. 23 gennaio 2001, n. 5, conv. nella l. 20 marzo 2001, n. 66 per la soluzione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, l. 31 luglio 1997, n. 349, con ciò volendo affermare che l’introduzione del sistema trasmissivo in digitale terrestre non esplicava di per sé alcun effetto significativo sull’assetto duopolistico delle trasmissioni in analogico terrestre. Una commistione, quella dell’«attuale» analogico col «futuro» digitale, sulla quale, come è noto, si basava il d.d.l. n. 3184 Atti Cam. (e si basa la l. n. 112/2004) al dichiarato scopo di prorogare nel tempo lo status quo.
Tanto meno, poi, il Governo aveva ritenuto di prendere in considerazione le perplessità sollevate dal Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (o AGCom), nell’audizione del 12 dicembre 2002 davanti alle Commissioni riunite VII e IX della Camera dei deputati(5), e quelle, ancor più radicali, espresse dal Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (o Antitrust), il 19 dicembre 2002 in un’apposita segnalazione ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio e al Ministro delle Comunicazioni ai sensi dell’art. 22 l. n. 287/1990 (6).
Né le cose cambiarono dopo l’inaspettata approvazione, alla Camera, dell’emendamento Giulietti al cruciale art. 15 del d.d.l.(7). La determinazione della maggioranza di ribaltare in Senato l’esito della votazione della Camera del 3 aprile 2003 fu subito esplicitata da parlamentari del centrodestra. Pur dopo il voto contrario della Camera, era perciò facile prevedere che la soluzione finale sarebbe stata quella «annunciata», nonostante il motivato avviso contrario convergentemente espresso dal Capo dello Stato, dalla Corte costituzionale, dall’AGCom e dall’Antitrust. E ciò, alla luce di tre ragioni esposte in un articolo sul quotidiano Europa del 29 giugno 2003(8), che qui mi permetto di ricordare.
In primo luogo, la maggioranza di governo – con la legge sulle rogatorie internazionali, con la legge sul falso in bilancio, con quella sul legittimo sospetto (cd. legge Cirami) e con quella sull’immunità processuale del Presidente del Consiglio dei Ministri e delle altre quattro alte cariche (cd. lodo Schifani) – aveva già ampiamente dimostrato di avere una scarsissima sensibilità costituzionale, e quindi mi sembrava inutile sperare che essa avrebbe rispettato la sentenza n. 466/2002.
In secondo luogo, il pregiudizio economico derivante al gruppo mediatico del Presidente del Consiglio dall’eventuale trasferimento di Retequattro sul satellite, in adempimento del disposto della sentenza n. 466 della Corte, era troppo ingente (il fatturato Retequattro, nel 2002, era ammontato a 353 milioni di euro), per non ipotizzare che in Senato la maggioranza avrebbe fatto di tutto per approvare i limiti di cumulo dei programmi radiotelevisivi nella loro formulazione originaria, consentendo così a Mediaset di continuare ad operare in tecnica analogica con tutte e tre le sue reti televisive nazionali.
Infine c’era una ragione squisitamente politica. Secondo i dati del 36° Rapporto Censis, relativi al 2002, diffusi pochi mesi prima, almeno otto milioni di cittadini italiani (e cioè circa il 20 per cento di potenziali elettori) dovevano ritenersi «completamente dipendenti dalla televisione dal punto di vista comunicativo». Di qui la seguente ovvia conseguenza: se nel 1995 due tecnici di valore, quali Livolsi e Volli, avevano valutato in una misura oscillante tra il 5 e il 10 per cento il condizionamento del voto popolare da parte dei media televisivi(9), e se con l’introduzione dell’attuale sistema elettorale tendenzialmente maggioritario, la capacità di condizionamento anche del solo 5 per cento rappresenta un fattore decisivo per il successo elettorale, era (ed è) evidente l’importanza politica ed elettorale di avere tre, anzichè due, reti televisive nazionali per poter tentare di condizionare il voto di quel 20 per cento di elettori integralmente teledipendenti(10).

2. Segue. La prima approvazione delle Camere e il rinvio presidenziale.

Le vicende successive, e cioè le votazioni del Senato del 22 luglio 2003 e della Camera del 2 ottobre 2003, confermarono l’ineluttabilità della prosecuzione dell’operatività di Retequattro e del mantenimento dello status quo.
A nulla infatti servirono gli ulteriori, e ancor più dettagliati, interventi critici del Presidente dell’AGCom(11) e del Presidente dell’Antitrust(12) nelle audizioni del 10 settembre 2003. Unica novità di un certo rilievo, in tale ottica, fu la modifica dell’art. 15, comma 1, e il conseguente spostamento «all’atto della completa attuazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze radiofoniche e televisive in tecnica digitale» del termine iniziale di operatività dei nuovi limiti di concentrazione per le imprese fornitrici di contenuti (e cioè più del 20 per cento dei programmi televisivi o radiofonici su frequenze terrestri in ambito nazionale).
Il rinvio presidenziale della legge Gasparri alle Camere è del 15 dicembre 2003. In esso, com’è noto – ma come è qui opportuno ricordare – il Presidente Ciampi, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte (sentenze nn. 231/1985, 826/1988, 420/1994 e 466/2002) nonché al proprio messaggio del 23 luglio 2002, chiese alle Camere una nuova delibera di tale legge, esponendo i seguenti motivi:
1) l’art. 25 della Gasparri prevede un procedimento, da parte dell’AGCom, finalizzato ad accertare il grado di sviluppo del pluralismo che conseguirebbe dall’introduzione del digitale terrestre. Poiché tale procedimento dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre 2004 con riferimento alla situazione esistente al 31 dicembre 2003, ciò costituirebbe un’evidente violazione di quanto previsto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 466/2002, secondo la quale la proroga della situazione preesistente non avrebbe dovuto superare il 31 dicembre 2003 (termine già previsto dalla delibera AGCom del 7 agosto 2001, n. 346 – come data del «probabile» trasferimento sul satellite di Retequattro e di Prima TV (13) -, sulla quale la Corte era ortopedicamente intervenuta allo scopo di «costruire» il contenuto del dispositivo della decisione additiva di accoglimento);
2) nell’art. 25 non vengono altresì previste le conseguenze di un eventuale esito negativo di siffatto accertamento dell’AGCom;
3) l’art. 15, comma 2, potrebbe dar luogo alla formazione di posizioni dominanti, data la dimensione del Sistema integrato delle comunicazioni (SIC) e la mera previsione del 20 per cento come limite per le concentrazioni consentite ai soggetti tenuti all’iscrizione nel registro degli operatori di comunicazione, previsto dall’art. 1, comma 6, lett. a), n. 5, l. 31 luglio 1997, n. 249;
4) suscita, infine, perplessità la disciplina della raccolta pubblicitaria, potendo in pratica determinare l’inaridimento di «una tradizionale fonte di finanziamento della libera stampa».

3. Segue. Il d.l. n. 352/2003, le osservazioni dell’AGCom e dell’Antitrust e l’approvazione definitiva della legge.

Con riferimento ai primi due punti del messaggio di rinvio, il Governo – per evitare che con il 1° gennaio 2004 Retequattro si trovasse ad operate in violazione dell’art. 195 cod. post. (e quindi in una situazione di illiceità penale) – adottava il d.l. 24 dicembre 2003, n. 352, intitolato «Disposizioni urgenti concernenti modalità di definitiva cessazione del regime transitorio della legge 31 luglio 1997, n. 249».
A tal fine, allo scopo – dichiarato nelle premesse – di dare asserita attuazione a quel passaggio della sentenza n. 466/2002, nel quale – a tutt’altri fini – la Corte aveva affermato che «la data del 31 dicembre 2003 offre margini temporali all’intervento del legislatore per determinare le modalità della definitiva cessazione del regime transitorio di cui al comma 7 dell’art. 3 della legge n. 249» (cons. in dir., n. 11, primo e terzo cpv.), il Governo disponeva l’anticipazione 30 aprile 2004 della data rilevante ai fini della verifica dell’eventuale «arricchimento del pluralismo» derivante dall’avvento del digitale terrestre, e l’anticipazione al 30 maggio 2004 del termine entro il quale l’AGCom avrebbe dovuto effettuare la relativa verifica.
La disciplina del decreto (lievemente modificata, in sede di conversione, dalla l. 24 febbraio 2004, n. 43) risulta ora inglobata nella versione definitiva dell’art. 25, commi 3 e 4, della legge Gasparri. In forza della disciplina della l. n. 43/2004, l’AGCom, entro il 30 aprile 2004, avrebbe dovuto svolgere «un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri allo scopo di accertare contestualmente, anche tenendo conto delle tendenze in atto nel mercato: a) la quota di popolazione coperta dalle nuove reti digitali terrestri che non deve comunque essere inferiore al 50 per cento; b) la presenza sul mercato nazionale di decoder a prezzi accessibili; c) l’effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche». (Le parole in corsivo sono state aggiunte in sede di conversione).
Nelle audizioni dell’8 gennaio 2004 dinanzi alle Commissioni riunite VII e IX della Camera dei deputati, relative sia al testo della legge (che verrà approvato in commissione in una versione leggermente modificata rispetto al testo rinviato, e che tale rimarrà, tranne minimi ritocchi prevalentemente formali apportati in sede di coordinamento finale), sia al d.d.l. di conversione del d.l. n. 352/2003, i Presidenti dell’AGCom e dell’Antitrust ribadivano le precedenti perplessità sulla legittimità costituzionale e comunitaria già prospettate con riferimento all’originario d.d.l. n. 3184 Atti Cam.
A dimostrazione della scarsa entità delle variazioni apportate, il Presidente dell’AGCom riconfermava, in linea preliminare, tutte i precedenti rilievi critici(14) concernenti la disciplina antitrust (capo II), le modalità di privatizzazione della concessionaria (capo IV) e il regime transitorio (capo V). Inoltre, con riferimento al SIC, ribadiva l’eccessiva disomogeneità dei mercati inclusi nel sistema integrato, la conseguente difficoltà di quantificare il complesso delle risorse riconducibili a tale sistema e la scarsa coerenza anche del d.d.l. Gasparri bis con le raccomandazioni comunitarie in tema di mercati rilevanti e con le direttive comunitarie del 2002, di cui, già nella precedente audizione del 10 settembre 2003, aveva sottolineato la natura di norme interposte, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., ai fini del sindacato di costituzionalità.
Con specifico riferimento alla disciplina contenuta nel d.l. n. 352/2003 il Presidente dell’AGCom, pur affermando che essa appariva «allineata» ai rilievi espressi nel messaggio presidenziale, ne evidenziava le difficoltà interpretative circa le condizioni da verificare e i provvedimenti da adottare. Relativamente alle prime il Presidente dell’AGCom poneva degli interrogativi su quale dovesse essere la quota di popolazione che le nuove reti digitali avrebbero dovuto raggiungere, e quale dovesse essere il livello di diffusione dei nuovi decoder sul mercato (e cioè se la relativa copertura dovesse riguardare almeno il 50 per cento della popolazione – come appunto nel d.d.l. in discussione, ma ancora privo di forza giuridica – oppure l’80 per cento, così come previsto per le reti nazionali dall’art. 3, comma 5, della legge Maccanico, ancora in vigore). Il prof. Cheli si chiedeva poi «quando l’offerta al pubblico su reti digitali di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche» potesse considerarsi effettiva.
I restanti dubbi del Presidente dell’AGCom riguardavano sia il contenuto dei provvedimenti da adottare dall’AGCom sia l’estensione del periodo transitorio, in caso di esito tanto positivo quanto negativo (15).
Dal canto suo, il Presidente dell’Antitrust ribadiva, ancora una volta(16), quanto al regime dell’assegnazione delle frequenze, l’illegittimità comunitaria dello stesso, in quanto implicante l’ulteriore cristallizzazione dell’assetto duopolistico (derivante dall’assenza di un meccanismo centralizzato di allocazione efficiente delle risorse e dal contestuale accaparramento dello sprettro dell radiofrequenze) e la conseguente costituzione di forti barriere all’ingresso di terzi operatori. Il Presidente dell’Antitrust criticava poi, con estrema decisione, sia il provvedimento di «generale assentimento» all’operatività di impianti esistenti in violazione della dir. 2002/21/CE, sia la gravità della scelta legislativa, connessa alla precedente, di consentire agli operatori – ancorché esercenti «a qualunque titolo» attività televisiva – di convertire le attuali reti analogiche in reti digitali (art. 23, commi 5 e 1, avente effetti sull’applicazione dell’art. 2, commi 1, lett. l] e m] che individua le reti operanti in ambito nazionale). Il che escluderebbe «un efficace meccanismo di riassegnazione delle risorse frequenziali» e determina «un ulteriore rafforzamento del potere di mercato dei maggiori operatori».
Quanto al SIC il Presidente Tesauro ribadiva l’eterogeneità dei mercati che lo compongono e la nessuna contiguità degli stessi già alla luce di «un’analisi economica elementare». Una siffatta aggregazione (estranea «ad ogni tipo di valutazione o obiettivo di tutela antitrust») era pertanto ritenuta, dal Presidente dell’Antitrust, «del tutto inadeguata rispetto al fine di contenere il potere di mercato delle imprese, atteso che questa è la ratio dichiarata della norma». Il Presidente dell’Antitrust rilevava inoltre come il concetto di posizione dominante venisse dal d.d.l. «utilizzato in modo improprio», posto che «la posizione dominante può aversi soltanto in relazione ad un “mercato”, la cui individuazione deve essere effettuata sulla base di preciso percorso analitico, che segue regole e principi giuridici ed economici applicati uniformemente in tutti i Paesi da tutte le Autorità antitrust». Conseguentemente il Presidente dell’Antitrust sottoponeva sia il SIC, così come strutturato nella legge, sia la soglia del 20%, ad un approfondito esame critico alla luce delle Linee direttrici della Commissione europea per l’analisi del mercato dell’11 luglio 2002, della giurisprudenza nazionale e comunitaria (sia le une che l’altra già inutilmente richiamate nell’audizione del 10 settembre 2003), nonchè delle considerazioni del Commissario europeo per la Concorrenza del 14 ottobre 2002 e del 10 dicembre 2003.
Il Presidente Tesauro concludeva formulando l’auspicio, «al fine di assicurare un corretto funzionamento del mercato televisivo, che sia riconsiderato il capo II, con particolare riguardo all’inalterata applicazione delle norme a tutela della concorrenza previste dalla legge n. 287/90 agli operatori televisivi e riconducendo il SIC almeno ad un insieme di mercati economicamente contigui sotto il profilo della domanda e dell’offerta; e che siano rivisti i criteri di assegnazione delle licenze e delle risorse frequenziali, per lo sviluppo della diffusione delle trasmissioni in tecnica digitale terrestre, prevedendo l’eventuale ri-assegnazione delle frequenze eccedenti attualmente utilizzate degli operatori radiotelevisivi, mediante il ricorso a meccanismi di selezione pubblica, ispirati ai principi di obiettività, trasparenza, proporzionalità e non discriminazione».
Con specifico riferimento al d.l. n. 352/2003, il Presidente dell’AGCom riteneva anch’egli tendenzialmente superate le preoccupazioni precedentemente espresse con riferimento alla fase d’avvio del digitale. Tale favorevole apprezzamento partiva però dal rilievo – che sarà smentito nella pratica attuazione dell’accertamento – secondo il quale l’AGCom avrebbe dovuto verificare, entro il 30 aprile 2004, «l’effettiva ricezione da parte degli utenti del segnale televisivo digitale, anziché la mera copertura».
Nonostante il messaggio presidenziale di rinvio della legge Gasparri alle Camere e le forti critiche rivolte al d.d.l. Gasparri bis dall’AGCom e dall’Antitrust, le modifiche apportate rispetto al testo fatto oggetto del rinvio presidenziale sono assai modeste. Tralasciando le modifiche relative al servizio pubblico radiotelevisivo (peraltro anch’esse poco rilevanti), risulta, in definitiva, che dal SIC risultano eliminati soltanto l’editoria libraria e le imprese fonografiche (art. 2, comma 1, lett. g) (ma l’ambito del SIC viene poi esteso anche ai prodotti librari e fonografici se commercializzati in allegato e alle opere cinematografiche nelle diverse forme di fruizione del pubblico: art. 15 comma 3)(17); la soglia massima antitrust è individuare nel 20% dei «ricavi» complessivi del SIC (anziché, come prima, nel 20% delle «risorse» complessive del SIC: art. 15, comma 2); l’acquisizione di giornali quotidiani e la costituzione di imprese editrici di giornali quotidiani, da parte di soggetti che esercitano l’attività televisiva in ambito nazionale attraverso più di una rete, è vietata fino al 31 dicembre 2010 (anziché fino il 31 dicembre 2008) (art. 15 comma 6).
Infine, per venire incontro al messaggio del Capo dello Stato, là dove il Presidente Ciampi paventava l’inaridimento di una tradizionale fonte di finanziamento della libera stampa, l’art. 25, comma 6 della legge, innovando al testo del dicembre 2003, dispone che nella fase di transizione al digitale…il 60 per cento delle somme destinate dalle amministrazioni pubbliche all’acquisto di spazi su mezzi di comunicazione di massa, per finalità di comunicazione istituzionale, deve essere impegnato in favore dei giornali quotidiani e periodici (sic!).
In definitiva, esclusa, ope constitutionis, la possibilità di un nuovo rinvio presidenziale, i rischi di non approvazione del d.d.l. Gasparri bis non potevano derivare – né sono derivati – dai rilievi critici dell’ACCom e dell’AGCM, né, tanto meno, dalle diffuse critiche apparse in dottrina e sulla stampa(18). Rischi di non approvazione sono stati, semmai, soltanto politici, avendo la Lega esplicitamente minacciato di non votare a favore del testo governativo se, prima del voto finale sulla Gasparri, non fosse stata approvata, in prima lettura, la devolution, e cioè, la modifica costituzionale del titolo V della Parte seconda. E così è stato.
Il nuovo testo del d.d.l. Gasparri veniva approvato dalla Camera il 24 marzo 2004. Prima di votare definitivamente la Gasparri (29 aprile 2004), il Senato approvava però (25 marzo 2004), in prima lettura, il d.d.l. n. 2544 di modifica costituzionale proposto dal Governo Berlusconi.
In un articolo, apparso su Repubblica il giorno successivo, Andrea Manzella lamentava – ed è difficile dargli torto – la «riduzione» della Costituzione «a oggetto di un baratto esclusivo al gruppo di governo. Un mercanteggiamento con poste che non erano idee e tesi sul costituzionalismo, ma assestamenti interni alla coalizione prevalente: con un fortissimo potere di ricatto da parte del piccolo partito di “governo e di secessione”»(19).
Devo confessare che nove mesi prima, quando scrissi l’articolo che poco sopra mi sono permesso di richiamare, non immaginavo, neppure lontanamente – pur essendo consapevole dell’ineluttabilità dell’approvazione del d.d.l. Gasparri nei suoi punti essenziali per il mantenimento dello status quo – che la stessa Costituzione sarebbe stata degradata a merce di scambio, per consentire a Retequattro di continuare a trasmettere in tecnica analogica, con tutto ciò che finanziariamente e politicamente ciò comporta.

4. La «definitività e ineludibilità» del termine del 31 dicembre 2003, secondo la sentenza n. 466/2002.

Nel lamentare che il procedimento dell’AGCom, finalizzato all’accertamento dell’effettivo ampliamento delle offerte tecnologiche disponibili (art. 25, comma 3), si sarebbe ineluttabilmente protratto oltre il 31 dicembre 2003, il Presidente Ciampi aveva sottolineato che, secondo la sentenza n. 466/2002, «il 1° gennaio 2004 può essere considerato come il dies a quo non di un nuovo regime transitorio, ma dell’attuazione delle predette modalità di cessazione del medesimo, che devono essere determinate dal Parlamento entro il 31 dicembre 2003. Si rende, inoltre, necessario indicare il dies ad quem e, cioè, il termine di tale fase di attuazione».
Sta di fatto che la Corte costituzionale, nel pronunciare l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 7, della l. n. 249/1997 «nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine certo, e non prorogabile, che comunque non oltrepassi il 31 dicembre 2003», pur ritenendo non illegittima né la previsione dei precedenti regimi transitori (come già avevano fatto le sentenze nn. 826/1988 e 420/1994) né l’ulteriore fase transitoria fino al 31 dicembre 2003, non aveva affatto previsto, con riferimento all’incostituzionalità dell’art. 3, comma 7, della l. n. 249/1997, la possibilità di ulteriori proroghe rispetto a detto termine del 31 dicembre 2003; e ciò per una semplice ragione.
Secondo la Corte «la data del 31 dicembre» costituiva il frutto di una valutazione «di congruità tecnica dei tempi di passaggio al regime definitivo», effettuata dall’AGCom; pertanto essa offriva sufficienti «margini temporali all’intervento del legislatore per determinare le modalità della definitiva cessazione del regime transitorio di cui al comma 7 dell’art. 3 della legge n. 249» (cons. in dir., n. 11, primo e terzo cpv.).
Il senso di quest’ultimo inciso, che sarà artatamente riportato nelle premesse del d.l. n. 352/2003, significava pertanto che dal 20 novembre 2002 (data della sentenza) al 31 dicembre 2003 (termine finale improrogabile) ci sarebbe stato tutto il tempo possibile per disciplinare – in via regolamentare o, addirittura, legislativa – l’abbandono dell’analogico terrestre per le trasmissioni televisive delle cd. due reti «eccedenti», Retequattro e Prima TV, le quali, proprio perché eccedenti dai limiti antitrust, non avevano ottenuto la concessione.
E’ quindi del tutto inesatto ritenere – come invece da taluni si opinò dopo il rinvio presidenziale – che il periodo di un anno, un mese e dieci giorni, fosse stato preso in considerazione dalla Corte costituzionale come termine entro il quale il quale il Governo avrebbe dovuto (esclusivamente) limitarsi ad adottare un provvedimento legislativo o regolamentare contenente le modalità di cessazione del precedente regime transitorio, rinviando l’attuazione di tali modalità … al di là del «termine finale assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile» del 31 dicembre 2003!
Né una siffatta conclusione può trovare conferma in quel passo della sentenza della Corte secondo il quale «(è) appena il caso di precisare che la presente decisione, concernendo le trasmissioni radiotelevisive in ambito nazionale su frequenze terrestri analogiche, non pregiudica il diverso futuro assetto che potrebbe derivare dallo sviluppo della tecnica di trasmissione digitale terrestre, con conseguente aumento delle risorse tecniche disponibili» (cons. in dir., n. 11, ult. cpv.).
Poiché la Corte, a meno di contraddirsi nello spazio di poche pagine, non poteva affermare nel n. 11 quanto aveva negato nel n. 4, ult. cpv. (vale a dire, che l’attuale livello di fruizione delle trasmissioni via cavo, via satellite e via digitale terrestre garantirebbe sufficientemente il pluralismo), quell’inciso del n. 11 significava – e poteva significare – una cosa sola, e cioè che il mantenimento dello status quo relativo alle trasmissioni televisive in analogico terrestre sarebbe stato possibile solo se lo sviluppo del digitale terrestre (o di una qualsiasi altra tecnica trasmissiva) avesse determinato, entro il 31 dicembre 2003, una sufficiente garanzia per il pluralismo.

5. Le due letture del messaggio presidenziale e la scelta del Governo in violazione della sentenza n. 466/2002.

Ciò premesso, torniamo al messaggio del Presidente della Repubblica, in asserita applicazione del quale è stata adottata l’ennesima disciplina transitoria.
Ebbene, di tale messaggio, sono state date due letture, intorno alle quali si è svolto il dibattito sui quotidiani: una lettura «rigorosa», l’altra «possibilista». Fermo restando che, per entrambe le letture, il 1° gennaio 2004 non avrebbe potuto «essere considerato come il dies a quo di un nuovo regime transitorio» (come appunto sottolineato nel messaggio del Capo dello Stato), le due tesi si differenziavano per le conseguenze.
Da un lato la tesi «possibilista». Questa riteneva aprioristicamente necessaria una «fase amministrativa» per la dismissione, da parte di Retequattro, delle frequenze analogiche terrestri. Conseguentemente il Governo avrebbe dovuto darsi carico di indicare: a) il soggetto legittimato a procedere agli accertamenti relativi al grado di sviluppo del pluralismo derivante dall’introduzione del digitale terrestre; b) il termine entro il quale tale accertamento avrebbe dovuto essere compiuto; c) le sanzioni eventualmente irrogabili in caso di esito negativo(20).
Dall’altro la tesi «rigorosa». Secondo questa tesi (attenta a non aggirare il dispositivo di annullamento – ancorché…a scoppio ritardato – della sentenza n. 466/2002) non ci sarebbe stato bisogno d’alcunchè per far sì che Retequattro (già operativa via satellite su Sky) non trasmettesse più su frequenze analogiche terrestri. Per effetto del dispositivo d’accoglimento additivo della sentenza della Corte, le frequenze terrestri non avrebbero infatti potuto più essere lecitamente occupate da Retequattro a partire dal 1° gennaio 2004, a meno di non incorrere nelle sanzioni penali previste dall’art. 195 cod. post.
Le modalità attuative, a cui si richiamava il Presidente Ciampi – secondo questa seconda lettura del messaggio presidenziale – avrebbero dovuto concernere non già lo spegnimento delle frequenze terrestri di Retequattro, bensì la successiva riassegnazione, da parte del Governo, delle radiofrequenze terrestri conseguentemente liberate, a seguito dell’esclusiva operatività di Retequattro via satellite (21).
Il Governo – sensibile, come sempre, ad assecondare gli interessi del Premier – non poteva non far propria la lettura possibilista del messaggio presidenziale. Conseguentemente, come già ricordato, il d.l. n. 352/2003 incaricava l’AGCom di svolgere, entro il 30 aprile 2004, un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri, delle tendenze in atto nel mercato, della quota di popolazione coperta dalle nuove reti (in particolare: se questa fosse superiore o inferiore al 50 per cento); della presenza, o meno, sul mercato nazionale di decoder a prezzi accessibili (grazie agli incentivi statali)(22); e di quale fosse l’effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche.
Con il che Mediaset conseguiva comunque un notevole successo. Per vero, quand’anche l’AGCom avesse risposto negativamente, entro il 30 maggio 2004, ai quesiti posti dal d.l. n. 352/2003, Retequattro avrebbe comunque potuto operare in analogico terrestre per un altr’anno, essendo probabile che, in tale ipotesi, sarebbe stata sostenuta la tesi secondo la quale, ai sensi dell’art. 2, comma 7, ult. parte, l. n. 249/1997, i provvedimenti adottabili dall’AGCom avrebbero comunque richiesto un anno di tempo per la loro attuazione (23). Tuttavia, dato il contenuto dei quesiti ad essa sottoposti – aventi ad oggetto lo sviluppo solo potenziale del digitale terrestre(24) -, un esito negativo per Mediaset costituiva però un’ipotesi puramente teorica.
L’AGCom si trovò infatti a dover effettuare una «valutazione delle risultanze (…) di natura convenzionale» (n. 64), secondo i criteri imposti dalla legge di conversione (n. 65). La copertura delle reti digitali terrestri, oggetto dell’accertamento, avrebbe perciò dovuto essere quella «potenziale», secondo quanto precisato dal Ministero delle Comunicazioni, appositamente interpellato (nn. 14 e 16). L’Autorità non poteva quindi che rispondere favorevolmente a quesiti che miravano ad accertare non l’effettiva domanda, da parte degli utenti, di tale nuova tecnologia trasmissiva – come invece era stato richiesto dal Presidente della Repubblica e sottolineato dal Presidente dell’Antitrust – bensì la mera offerta della stessa. L’unico dato certo, ma non esaltante, era infatti quello dell’avvenuta vendita di poco più di 200.000 decoder (n. 86), su 290.000 immessi sul mercato a fine aprile 2004 (n. 44). L’AGCom non poteva perciò non ammettere che «il numero di trasmettitori in tecnica digitale è, allo stato, una percentuale ancora modesta…» e «la programmazione rimane ancora largamente al di sotto delle potenzialità del mezzo digitale, con il conseguente rischio che non vi sia sufficiente interesse da parte delle famiglie all’adozione della tecnologia digitale terrestre » (n. 88).
La consapevolezza di aver risposto a domande, tutto sommato, irrilevanti ai fini dell’accertamento dell’effettivo grado di sviluppo del digitale terrestre è manifesta nelle considerazioni finali della Relazione. Ad es., mentre nel n. 87, l’AGCom rileva che l’accelerazione delle trasmissioni in tecnica digitale consegue più «da una “emergenza” legata al contesto normativo che da un impulso derivante da una domanda di mercato», nel n. 92 l’Autorità afferma che il superamento della «strozzatura relativa all’utilizzo dei mezzi televisivi (…), superabile alla luce dei nuovi sviluppi nel campo della televisione digitale» non implicherà «automaticamente una più equilibrata distribuzione delle risorse nel settore dei mezzi di comunicazione di massa, ed in particolare per quanto riguarda la disponibilità dei mezzi tecnici e delle piattaforme e la raccolta delle risorse pubblicitarie»(25).
Conclusivamente, il «giudizio positivo» dell’AGCom «in ordine al superamento delle tradizionali strozzature tecniche ed economiche non può prescindere dalla rimozione delle criticità e dall’avverarsi delle condizioni, ivi compreso lo sviluppo significativo della domanda in grado di rendere effettiva la diffusione del digitale terrestre». Per tale motivo, l’AGCom segnalava «le azioni positive ancora necessarie affinchè l’avvio promettente della televisione digitale terrestre si tramuti in un reale cambiamento del grado di concorrenzialità del mercato televisivo ed in un effettivo ampliamento del pluralismo culturale, politico ed informativo» (sic!).
L’imbarazzo provato, in ambito AGCom, nel rispondere positivamente ai quesiti ad essa posti, dev’essere stato fortissimo, sol che si rifletta – come argutamente è stato fatto (26) – sull’incoerenza delle conclusioni della relazione del 27 maggio 2004 con le conclusioni della delibera n. 346/01/CONS del 7 agosto 2001 (e cioè quella richiamata nella sentenza n. 466/2002). Mentre nella delibera del maggio 2004 l’AGCom ha ritenuto sufficiente l’accertamento che solo 200.000 famiglie sarebbero servite dal digitale terrestre, nella delibera del 2001 l’AGCom aveva invece ritenuto insufficiente l’effettivo e congruo sviluppo dell’utenza televisiva via satellite ancorché avesse accertato, già nel dicembre 2000, la ricezione dei programmi satellitari da parte di 2,4 milioni di famiglie.
Concludendo sul punto, sembra allora di potersi tranquillamente affermare che la cessazione del regime transitorio previsto dalla l. n. 249/1997 e l’avvio della nuova fase transitoria della l. n. 43/2004 (rectius: il prolungamento della precedente) si è basato: a) su una distorta interpretazione dell’ultimo cpv. del n.11 della sentenza n. 466/2002; b) su una lettura, quanto meno discutibile, del messaggio presidenziale; e c) sulla risposta dell’AGCom, positiva ma contraddittoria, a quesiti ad essa posti con riferimento ad una realtà solo potenziale (27).

6. L’illegittimità del prolungamento della fase transitoria dell’analogico terrestre. Il cd. «giudicato costituzionale».

Prolungando – o concorrendo a prolungare – la fase transitoria dell’analogico terrestre, il Governo con il d.l. n. 352/2003, il Parlamento con la l. n. 43/2004 e con la legge Gasparri (art. 25 commi 3 e 4), e l’AGCom con la relazione del 27 maggio 2004, hanno, ciascuno per la sua parte, concorso a favorire, nei fatti, il mantenimento dello status quo; ma hanno altresì inciso – ulteriormente pregiudicandole – le situazioni giuridiche soggettive di quegli imprenditori i quali confidavano che, alla data del 31 dicembre 2003, non essendo nulla cambiato nel frattempo, sarebbero state loro riassegnate le frequenze – finalmente «liberate» – delle cd. emittenti «eccedenti» Retequattro e Prima TV… non diversamente, quindi, da ciò che otto anni prima era accaduto ad altri imprenditori, i quali, dopo aver ottenuto, con la sentenza n. 420/1994, la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 15, comma 4, l. 6 agosto 1990, n. 223 (anche questa munita di un dispositivo di annullamento «a scoppio ritardato»), avevano dovuto affrontare situazioni di grave dissesto economico causate, prima, dalle omissioni legislative durate due anni e mezzo, poi dalle proroghe disposte dai decreti legge del Governo Prodi(28), infine dall’ulteriore fase transitoria rimessa rimessa alla illimitata discrezionalità dell’AGCom ai senso dell’art. 3, comma 7, l. n. 249/1997(29).
Di qui il ricorrente problema se esista un giudicato costituzionale che vincoli anche il legislatore e, in caso di risposta positiva, se tale giudicato sia invocabile con riferimento alla violazione della sentenza n. 466/2002 da parte degli indicati atti legislativi.
Ebbene – volendo semplificare al massimo – sembra che alla prima domanda possa darsi senz’altro una risposta affermativa, quanto meno con riferimento all’ipotesi della disposizione di legge che riproduca retroattivamente un’altra già in precedenza dichiarata incostituzionale alla luce dello stesso parametro costituzionale(30). E poiché prorogare nel tempo una disciplina transitoria già dichiarata incostituzionale non è cosa diversa dal ripristinare una certa situazione normativa già dichiarata illegittima alla stregua del medesimo parametro, la Corte ha fatto giustamente rientrare in quell’ipotesi anche il caso della disposizione che, ancorché in via transitoria, «prolunghi» gli effetti di una disposizione già dichiarata incostituzionale(31): ipotesi, nella quale appunto ricade la vicenda dell’estenuante prolungamento dei vari regimi transitori televisivi in analogico terrestre(32).
Deve però rilevarsi che la Corte – evidentemente preoccupata più delle eventuali conseguenze economicamente negative a carico dello Stato e di Mediaset, che non dei danni nel frattempo subiti dei terzi (33) – non ha fatto applicazione, nella sentenza n. 466/2002, del principio del giudicato costituzionale nel significato sopra riportato.
La Corte ha anzi sottolineato, da un lato, che la fase transitoria precedente ed immediatamente successiva alla sentenza n. 420/1994 era stata da questa ritenuta legittima(34) e, dall’altro, non avrebbe dovuto essere considerata illegittima neanche «l’attuale prosecuzione, purché temporaneamente limitata» (fino al 31 dicembre 2003).
Una soluzione, quella prescelta dalla Corte nelle sentenze teste richiamate, che in primo luogo sembrerebbe smentire l’autorevole precisazione, secondo la quale, nell’ipotesi di legge riproduttiva di legge incostituzionale(35), il problema pratico sotteso alla problematica del cd. giudicato costituzionale «accenna a perdere di pratica importanza, nella misura in cui si concordi che, dovendo in ogni caso intervenire un nuovo giudizio di costituzionalità, in tanto sarà riscontrabile contrasto con l’art. 136, in quanto: a) la disposizione sia riconosciuta come “riproduttiva” della stessa norma che era stata dichiarata costituzionalmente illegittima; b) il vizio già accertato sia, a sua volta, riconosciuto tuttora sussistente anche nella disposizione “riproduttiva”, per essere restate altresì immutate nel loro significato le norme costituzionali parametro»(36).
Per contro, nella sentenza n. 466/2002 – pur riconoscendosi, in sostanza (v. cons. in dir., n. 7 sub B e C), l’identità della situazione normativa già precedentemente dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 420/1994 (e ancor prima accertata, ancorché non dichiarata, con la sentenza n. 826/1988) – la Corte non ha ritenuto illegittima né retroattivamente, né fino al 31 dicembre 2003, la fase transitoria a cui il dispositivo d’illegittimità costituzionale, ciò non di meno, si riferiva.
Tralasciando per il momento il problema della dissociazione degli effetti caducatori rispetto alla dichiarazione d’incostituzionalità (37), l’altro problema qui da affrontare è se la Corte possa, motu proprio, disporre degli effetti legali di una pronuncia d’accoglimento. Vale a dire, se possa affermare, nella stessa decisione, da un lato, che una data situazione normativa è «incostituzionale», e, dall’altro, che tale situazione deve, ciò non di meno, essere considerata «legittima» con riferimento non solo alla pregressa fase transitoria ma ancora per più di un altro anno(38).
In altre parole, se la struttura delle decisioni di accoglimento è costituita dall’accertamento dell’incostituzionalità di una norma di legge (o di un atto legislativo) e dal conseguente dispositivo d’annullamento avente immediati ed automatici effetti caducatori; e se alla ricorrenza di tale fattispecie si ricollegano ope legis gli effetti retroattivi previsti dal combinato disposto dell’art. 136, comma 1, Cost. con l’art. 24, commi 1 e 2, Cost. e con l’art. 1 l. cost. n. 1/1948 (39) (e non – come in genere si ritiene – dal combinato disposto dell’art. 136, comma 1, Cost. con l’art. 30 l. n. 87/1953), è doveroso chiedersi:
– se la Corte possa sottrarre al giudice a quo il potere di valutare, alla luce di norme «non invalide», la situazione di fatto già disciplinata dall’atto o dalla norma dichiarata incostituzionale(40);
– o se, tutt’al contrario, il giudice comune conservi il potere di valutare gli effetti legali della decisione d’incostituzionalità ai sensi dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 l. n. 87/1953(41), e possa quindi autonomamente qualificare come «ingiusti» (e quindi risarcibili ex art. 2043 c.c.) i danni arrecati da un soggetto privato o pubblico, nella vigenza di una legge poi dichiarata incostituzionale.
Per vero, nella sentenza n. 466/2002, la Corte ha ritenuto – in forza di un asserito (ma inesistente) «potere costitutivo discrezionale»(42) – di disporre non solo dell’automatico effetto ablativo, ma addirittura degli effetti legali derivanti dalla pronuncia d’incostituzionalità (e cioè la qualificazione, in termini di invalidità, della norma legislativa dichiarata incostituzionale), e lo ha fatto senza motivare sul punto, e quindi senza minimamente evidenziare il valore costituzionale che, nella specie, giustificherebbe una siffatta deroga ad elementari principi di logica(43).
Mi rendo ben conto che insistere criticamente sul punto potrebbe sembrare irrealistico o addirittura ingenuo, dati i ripetuti casi giurisprudenziali nei quali la Corte ha operato sia la dissociazione della dichiarazione d’incostituzionalità rispetto alla valutazione in termini di illegittimità della situazione legislativa (precedente o successiva), sia la dissociazione della pronuncia d’incostituzionalità rispetto agli immediati ed automatici effetti caducatori.
Ciò non di meno, la peculiarità dell’ipotesi qui esaminata – che si riassume in una situazione di conclamata illegittimità costituzionale che si prolunga da un ventennio, senza – lo ripeto – la giustificazione di alcun valore o principio costituzionale, ma anzi ripetutamente stigmatizzata, in via ufficiale, anche in sede internazionale (44) – induce a sostenere, con decisione, la tesi secondo la quale eventuali deroghe ai principi derivanti dagli artt. 24, commi 1 e 2, e 136, comma 1, Cost. e dall’art. 1 l. cost. n. 1/1948, se giustificabili in altre ipotesi (45), non erano e non sono giustificabili con riferimento alla sentenza n. 466/2002.
L’indirizzo fatto proprio dalla sentenza n. 466/2002 si pone infatti in stridente contrasto con il principio costituzionale di azione e di difesa, se è vero, com’è vero, che tali decisioni pervengono ad una soluzione che è paradossale sotto il profilo della rilevanza.

7. Segue. Le sentenze d’incostituzionalità «prive di rilevanza».

Come è stato infatti acutamente rilevato proprio con riferimento alla sentenza n. 466/2002 (46), la valutazione della rilevanza ha funzionato, in essa, soltanto «”in ingresso” (ossia come ragionevole previsione del giudice a quo dell’influenza della questione sul processo principale), rimanendo però priva di un’effettiva rilevanza “in uscita”, dal momento che, non essendo stato caducato con effetto automatico il regime transitorio censurato, l’auspicata implementazione delle risorse radiotrasmissive disponibili non si è prodotta».
Ebbene ciò richiama alla mente quanto la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 232/1989, aveva avuto modo di sottolineare a proposito di una sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, resa ai sensi del vecchio art. 177 TCE (ora art. 234). Affermò allora la nostra Corte che «… il diritto di ognuno ad avere per qualsiasi controversia un giudice e un giudizio verrebbe a svuotarsi dei suoi contenuti sostanziali se il giudice, il quale dubiti della legittimità di una norma che dovrebbe applicare, si veda rispondere dalla autorità giurisdizionale cui è tenuto a rivolgersi, che effettivamente la norma non è valida, ma che tale invalidità non ha effetto nella controversia oggetto del giudizio principale, che dovrebbe quindi essere deciso con l’applicazione di una norma riconosciuta illegittima»(47).
Ma – dobbiamo allora chiederci – quello che la Corte costituzionale ha fatto con la sentenza n. 466/2002 non è forse proprio quello che in precedenza essa aveva rimproverato(48) alla Corte del Lussemburgo? E, si badi, il rilievo è tanto più stridente, in quanto, diversamente dalla Corte costituzionale, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha, senza alcun dubbio, il potere di precisare «gli effetti del regolamento annullato che devono essere considerati come definitivi» (art. 174, comma 2, TCE).
Un siffatto duplice paradosso (l’aver deciso una sentenza con esiti non rilevanti nel giudizio a quo e l’esser caduta nello stesso errore rimproverato alla Corte di giustizia) sembrerebbe confermare le perplessità che solleva la sentenza più volte citata, la quale, come altre decisioni politicamente importanti, si segnala per le «invenzioni» che caratterizzano la tipologia della decisione.
Per limitarci, in tale ottica, alle decisioni in materia televisiva varrà ricordare:
– la sentenza n. 225/1974, che dichiarò l’incostituzionalità degli artt. 1, 166, 168, n. 5, 178 e 251 cod. post. 1936 e degli artt. 1, 183 e 195 cod. post. 1973, per quel che tali articoli… non dicevano a proposito di ciò che la Corte intendeva dichiarare incostituzionale, e cioè la disciplina delle modalità d’esercizio del monopolio statale radiotelevisivo allora esistente (tale disciplina era infatti contenuta nella convenzione di concessione, che però la Corte non poteva annullare, esulando dalle sue competenze);
– la sentenza n. 866/1988, che, dopo una delle più estese motivazioni che siano state redatte in punto di incostituzionalità, …omise di dichiarare formalmente l’illegittimità costituzionale del d.l. n. 807/1984, in nome della «provvisorietà» di tale disciplina (49);
– la sentenza n. 420/1994, con la quale la Corte, pur dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 15, comma 4, della l. n. 223/1990, non dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 1, commi 1 e 3, d.l. n. 323/1993, che consentiva provvisoriamente l’operatività degli impianti radiotelevisivi «per un periodo non superiore a tre anni» (e cioè fino al 27 agosto 1996), anche se la proroga disposta dal d.l. n. 323/1993 non prescindeva affatto dall’applicabilità agli imprenditori televisivi dell’art. 15, comma 4, dichiarato incostituzionale.
E così è pure accaduto con la sentenza n. 466/2002, nella quale la Corte, non solo non ha collegato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale la valutazione negativa, in termini di invalidità, della norma legislativa, ma ha altresì scisso l’accertamento dell’incostituzionalità dai conseguenti effetti caducatori.
Munendo tale pronuncia di un dispositivo d’annullamento a «scoppio ritardato», la Corte ha conferito al legislatore (e cioè allo stesso autore della legge dichiarata incostituzionale) la disponibilità degli effetti caducatori, i quali, ai sensi dell’art. 136 comma 1, Cost., dovrebbero invece costituire un tutt’uno con la pronuncia d’incostituzionalità.
In altre parole, la Corte, consapevolmente o non, ha finito per consegnare «Cappuccetto rosso», e cioè la decisione sull’incostituzionalità dell’art. 3 comma 7 l. n. 249/1997, al «lupo», e cioè il legislatore incostituzionale; e il lupo, con il d.l. n. 352/2003, l’ha tranquillamente divorata.
Che ciò si ponga in stridente contrasto con il diritto costituzionale di azione e di difesa, è stato sottolineato – come abbiamo visto – dalla stessa Corte costituzionale. Ma il punto non è solo questo, bensì anche l’altro sopra evidenziato, e cioè se, in circostanze come queste, il giudice comune conservi il potere di valutare gli effetti legali della decisione d’incostituzionalità e possa quindi autonomamente qualificare come «ingiusti» (e quindi risarcibili ex art. 2043 c.c.) i danni arrecati da un soggetto privato o pubblico, nella vigenza di una legge poi dichiarata incostituzionale. E poiché l’accertamento dell’illegittimità di una data situazione costituisce appunto l’effetto legale della dichiarazione d’incostituzionalità, la risposta non può non essere positiva.
La Corte costituzionale può infatti accertare l’incostituzionalità e non dichiararla (come nell’ipotesi della sentenza n. 826/1988), e questa è appunto l’unica via che le si schiude quando la dichiarazione d’incostituzionalità provocherebbe conseguenze sotto altro profilo incostituzionali, perché ciò vuol dire che alla fattispecie concreta non si applica la norma costituzionale invocata, ma tutt’altra norma costituzionale(50). Ma se la Corte ritiene di dichiarare l’incostituzionalità, allora non può nè scindere gli immediati e automatici effetti caducatori dalla decisione d’incostituzionalità (perché ciò finisce per rendere inutile questa decisione proprio nel giudizio che l’aveva provocata), né può – a pena di contraddirsi manifestamente – statuire che una data situazione normativa è incostituzionale e, nel contempo, affermare che la relativa disciplina non è contraria a diritto.

8. Ulteriori profili d’illegittimità costituzionale della fase d’avvio delle trasmissioni in digitale terrestre come espediente per il prolungamento della fase transitoria dell’analogico terrestre.

Come già si è avuto modo di rilevare, il d.l. n. 232/2003 non contiene «le modalità di definitiva cessazione del regime transitorio della legge 31 luglio 1997, n. 249», come enfaticamente proclamato nell’intitolazione del decreto, ma, unitamente alla l. n. 43/2004 e alla legge Gasparri, ha in effetti sovrapposto la disciplina della fase di avvio delle trasmissioni televisive in tecnica digitale al precedente regime transitorio dell’analogico terrestre. Conseguentemente l’operatività in analogico terrestre delle reti eccedenti Retequattro e Prima TV dovrebbe durare fino alla «completa attuazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze in tecnica digitale» (artt. 15, comma 1; 23, comma 1; 25, comma 8, l. n. 112/2004) e quindi addirittura ben oltre il termine del 31 dicembre 2006, ottimisticamente indicato dall’art. 2 bis, comma 5, l. n. 66/2001.
Anzi, per come risultano strutturate le modalità per l’avvio delle trasmissioni in digitale (la cui disciplina, ancorchè sottoposta alla condizione sospensiva dell’accertamento del grado di utenza potenziale delle trasmissioni in digitale terrestre[51], ne dava già per scontato l’esito positivo…), è del tutto evidente che l’avvio del digitale terrestre non fosse l’obiettivo diretto, ma un espediente per prolungare quella precedente fase transitoria che, a parole, si affermava di voler chiudere(52).
Per vero, se l’interesse primario del legislatore non fosse stato quello di prolungare ulteriormente lo status quo precedente (per di più rafforzando ulteriormente la posizione di Mediaset nel sistema delle comunicazioni), la logica e il rispetto delle istituzioni (Capo dello Stato e Corte costituzionale) avrebbero voluto:
a) che in tempi sufficientemente ristretti venissero «liberate» le frequenze in analogico terrestre illegittimamente occupate sia dalle reti eccedenti Retequattro e Prima TV, sia dalle altre emittenti che hanno un annoso contenzioso con il Ministero delle Comunicazioni per la disattivazione di impianti abusivamente operanti (senza che la p.a. si faccia parte diligente per giungere alla pronuncia giurisdizionale definitiva);
b) che tali frequenze in analogico terrestre, una volta tornate nella disponibilità del Ministero delle Comunicazioni, venissero riassegnate, con procedura obiettiva, trasparente, proporzionale e non discriminatoria, ai titolari di concessione televisiva nazionale e locale del tutto privi di radiofrequenze(53) o aventi una copertura ridotta;
c) che la RAI non fosse fatta oggetto del processo di radicale privatizzazione previsto dall’art. 21, l. n. 112/2004, il quale, da un lato, è in antitesi con le funzioni di un servizio pubblico e, dall’altro, è attuato con modalità tali che sembrebbero piuttosto volerla asservire, almeno nei primi anni, alla volontà della maggioranza di governo (art. 20, comma 7, l. n. 112/2004)(54);
d) che il canone del servizio pubblico radiotelevisivo venisse progressivamente aumentato con conseguente sottrazione della RAI dal «ricatto» dell’audience che rende ormai la programmazione del servizio pubblico sostanzialente omologa a quella delle reti commerciali (nel 2002 le entrate pubblicitarie della RAI hanno rappresentato il 37 per cento delle entrate complessive (55); il costante declino del canone è stato altresì sottolineato dal Presidente dell’AGCom nella presentazione della Relazione del 2004)(56), il che – si badi bene – consentirebbe, nel contempo, la «liberazione» di cospicue risorse pubblicitarie che affluirebbero sia alle altre emittenti private, sia alla stampa…
Solo con queste premesse il passaggio graduale al digitale terrestre, ancorché in simulcast (e cioè mediante l’utilizzo, da parte delle stesse emittenti, della tecnica trasmissiva in analogico terrestre), non avrebbe sollevato obiezioni circa la sua palese strumentalità al mantenimento dello status quo e, addirittura, al rafforzamento della posizione dominante di Mediaset.
La volontà di consentire, a tutti i costi, la permanenza di Retequattro (e, conseguentemente, di Prima TV) sull’analogico terrestre conduce invece, oltre che alla violazione del giudicato costituzionale di cui alla sentenza n. 466/2002, alla costituzione di una ancor più consistente barriera all’ingresso dei new entrants nel settore televisivo (come era stato ripetutamente, ma inutilmente, paventato dal Presidente dell’Antitrust).
Gli incumbents sono stati infatti favoriti,
a) quanto al limite massimo dei programmi, che, per ogni soggetto che abbia una copertura potenziale pari al 50 per cento della popolazione(57), è addirittura del 20 per cento del totale dei programmi irradiati indifferentemente in tecnica analogica o digitale (art. 25, comma 8, l. n. 112/2004)(58);
b) quanto alla generalizzata autorizzazione ex lege (e cioè il cd. «generale assentimento»: art. 23, commi 1 e 5, l. n. 112/2004), che spetta a tutti i soggetti che a qualunque titolo esercitino attività di radiodiffusione televisiva in ambito nazionale e locale (il che consente a tutte le emittenti, anche quelle che non avevano ottenuto la concessione nel 1999, come appunto le reti «eccedenti» Retequattro e Prima TV, di proseguire nelle trasmissioni);
c) quanto alla raccolta delle risorse pubblicitarie, posto che il SIC – fatto ripetutamente oggetto di critiche soprattutto da parte dell’Antitrust(59) – è immediatamente applicabile anche nella fase transitoria (art. 15, comma 2, l. n. 112/2004).
Gli artt. 2, comma 1, lett. i) e l); 15, commi 2 e 3; 23, commi 1 e 5; 25, commi 8 e 11 dovrebbero perciò ritenersi illegittimi non solo a causa della violazione del giudicato costituzionale (artt. 136, comma 1, e 137, comma 3, Cost.), ma, a fortiori, a causa della violazione dei principi del pluralismo e della libera concorrenza (artt. 3, 21 e 41 Cost.), così come già accertato e dalla sentenza n. 466/2002 e, già prima, dalla sentenza n. 420/1994.
A tali parametri costituzionali, per quanto detto, andrebbe inoltre aggiunta la violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della p.a. e dell’inviolabile diritto di azione e di difesa (artt. 97, comma 1, e 24, commi 1 e 2, e Cost.), per ciò che riguarda i soggetti che siano stati pregiudicati nei propri diritti e interessi dal d.l. n. 352/2003 e dalla legge Gasparri, nella pendenza dell’attuazione del procedimento di concessione(60) ovvero nel corso del conseguente procedimento giurisdizionale.
Rispetto alle precedenti sentenze del 1994 e del 2002, c’è però una novità. Il 25 luglio 2003 sono entrate in vigore le quattro direttive comunitarie(61), adottate dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione Europea il 7 marzo 2002, che costituiscono il nuovo quadro normativo comune per le reti e i servizi di comunicazione elettronica, ivi compresi i programmi radiotelevisivi(62), espressamente applicabile anche alle autorizzazioni (e alle concessioni) preesistenti(63).
Ebbene, tali direttive sono state più volte richiamate nel corso dei lavori parlamentari sia dall’AGCom, per sottolinearne la valenza (non solo come diritto comunitario immediatamente applicabile, ma anche) come «norme interposte» ai fini del giudizio di legittimità costituzionale (ai sensi del «nuovo» art. 117, comma 1, Cost.)(64), sia dall’Antitrust, in considerazione sia del vantaggio concorrenziale che la legge Gasparri attribuisce agli incumbents rispetto ai new entrants per quanto riguarda l’utilizzazione delle frequenze occupate di fatto, sia della violazione dei rigorosi criteri previsti per l’assegnazione e per l’uso delle frequenze (art. 9 dir. 2002/21/CE; artt. 5, comma 2, e 7, comma 3, dir. 2002/20/CE)(65).
Di qui la conseguenza che, fermi restando gli effetti diretti discendenti dalle direttive self-executing nei rapporti verticali (e cioè nei rapporti tra la p.a. concedente e i concessionari) – il che è assolutamente pacifico -, potrebbe, in aggiunta a ciò, sostenersi che, in virtù del «nuovo» art. 117, comma 1, Cost., tali direttive esplichino altresì, ope constitutionis, un effetto diretto anche nei rapporti orizzontali (e cioè nei rapporti tra privati)(66), non diversamente da quanto accade per l’inosservanza della Costituzione nei rapporti privatistici o pubblicistici basati su legge incostituzionale(67). Altrimenti, a voler sostenere il contrario, la modifica dell’art. 117, comma 1, Cost. non avrebbe aggiunto nulla a quanto già statuito in giurisprudenza alla stregua dell‘art. 11 Cost.

Continua su PDF