La dilatazione delle immunità politiche e la fuga dalla responsabilità: una tendenza non solo italiana


1. Le accese critiche di ordine politico e costituzionale che hanno accompagnato la scorsa estate l’approvazione del c.d. “Lodo Schifani” sull’improcedibilità nei confronti delle cinque “alte cariche” dello Stato, si sono concentrate soprattutto sulle specificità del contesto in cui tale discutibile decisione politica è maturata, sulla c.d. “anomalia italiana”, sull’improvvida e inammissibile scelta di introdurre con legge ordinaria nuove sfere di immunità costituzionali, al solo scopo di incidere su procedimenti penali in corso, laddove il procedimento di revisione costituzionale avrebbe richiesto tempi inevitabilmente più lunghi, incompatibili con le reali e neanche tanto nascoste motivazioni contingenti di quel provvedimento. Tutte critiche sacrosante, alle quali si è opportunamente affiancata la richiesta, da parte del Tribunale di Milano, di un intervento della Corte costituzionale, chiamata a decidere se una tale alterazione della disciplina delle prerogative riguardanti cariche o funzioni costituzionali possa essere introdotta con legge ordinaria, anziché attraverso il procedimento di revisione. Critiche che, tuttavia, finiscono per far passare in secondo piano un problema centrale – e a mio avviso addirittura più importante della disputa circa la “fonte più adatta” ad introdurre deroghe ai principi generali in materia di procedibilità – che coinvolge le radici stesse del costituzionalismo, e che dunque merita di essere dibattuto con più attenzione.
Che lo strumento adottato sia la legge ordinaria o quella costituzionale, si nota in effetti una tendenza crescente, nei sistemi politici contemporanei, a rivendicare una dilatazione delle sfere di immunità politica, a pretendere “zone franche” dalla giurisdizione, a limitare e circoscrivere i confini della responsabilità giuridica dei governanti. Tutti concentrati nella giusta stigmatizzazione delle specifiche anomalie del caso italiano, rischiamo di lasciare in secondo piano l’analisi di una tendenza assai più generale, che sembra coinvolgere anche altri ordinamenti improntati al principio democratico-rappresentativo, anche laddove in altri paesi le tecniche attraverso cui tale obiettivo viene perseguito risultino assai più raffinate, o almeno maggiormente rispettose del sistema delle fonti.
Particolarmente significativo, a tale proposito, è il dibattito che sta attualmente accompagnando, in Francia, la proposta di riforma costituzionale della responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica. Si tratta di un vero e proprio “caso costituzionale”, sviluppatosi a partire dalla fine degli anni ’90, che ha coinvolto la giurisprudenza costituzionale e comune e che ha provocato ben due successive proposte di revisione costituzionale dell’art. 68 della Costituzione della V° Repubblica.
Si tratta di una vicenda assai istruttiva, in quanto, al di là delle macroscopiche differenze di stile e di correttezza costituzionale che la distinguono da quella italiana, essa sembra testimoniare di un comune approccio culturale. La tendenza è quella di introdurre meccanismi che subordinino sempre di più l’azionabilità della responsabilità giuridica degli organi di vertice delle istituzioni – e in particolare dei massimi organi espressivi dell’indirizzo politico del Paese – a valutazioni di ordine politico e, in ultima analisi, al giudizio “purificatore” del popolo sovrano.
In tale ottica – come si vedrà – la figura del Presidente della Repubblica francese è da assimilare piuttosto a quella del Presidente del consiglio italiano che a quella del nostro Capo dello Stato, cioè di un soggetto immediatamente e direttamente titolare di poteri di indirizzo politico. L’azione della magistratura nei suoi confronti, ancorché connessa a fatti che nulla hanno a che fare con la sua funzione rappresentativa, è concepita, da parte di coloro che in Francia auspicano una radicale revisione delle attuali disposizioni costituzionali in materia, come un attentato alla souveraineté nazionale e come una minaccia al suffragio universale.
Da questo punto di vista, si può dire che il dibattito che ha portato in Italia all’approvazione delle disposizioni sulla improcedibilità nei confronti delle cinque più alte cariche dello Stato non si discosta, nel suo significato sostanziale e al di là della forma dell’atto, da quello che si sta parallelamente sviluppando Oltralpe.

2. L’art. 68 della Costituzione della V° Repubblica stabilisce che «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni che in caso di alto tradimento. Non può essere messo sotto accusa che dalle due camere con voto identico a scrutinio palese a maggioranza assoluta dei componenti; è giudicato dall’Alta corte di giustizia». Fino ad anni recenti (in particolare fino a quando nel 1998 affiorarono le prime notizie sul possibile coinvolgimento del Presidente Jacques Chirac in alcune inchieste giudiziarie promosse dalla Procura della Repubblica parigina) tale disposizione non era stata oggetto di alcuna attenzione, né da parte della dottrina, né tanto meno da parte degli organi politici. Sembrava chiaro che:
a) l’immunità fosse limitata agli atti funzionali del Presidente, e non si estendesse a quelli commessi al di fuori dell’esercizio della carica (sia fossero essi precedenti all’assunzione della stessa, sia fossero essi coevi); per tali atti il Presidente era da considerare «un justiciable ordinaire» che poteva essere chiamato a rispondere davanti al giudice civile, penale o amministrativo1);
b) la competenza dell’Alta corte di giustizia fosse limitata agli atti di alto tradimento, mentre qualsiasi altro atto compiuto dal Presidente dovesse essere ritenuto o non giudicabile, per l’operatività dell’immunità, ovvero giudicabile dai giudici comuni in quanto ritenuto extrafunzionale2);
c) non fosse prevista né costituzionalmente ammissibile alcuna forma di improcedibilità nei confronti del Presidente in carica: poiché il Presidente gode di immunità soltanto in relazione agli gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, poiché egli è giudicato dall’Alta corte solo nei casi di alto tradimento, di conseguenza per gli atti extrafunzionali si deve ritenere che egli possa essere giudicato hic et nunc da qualsiasi giudice comune3).
La dottrina era in ogni caso massicciamente concorde nel ritenere che l’ipotesi di un Presidente costretto alla sbarra da un giudice comune fosse meramente scolastica: nessun Presidente colpito da un’accusa penale in relazione a fatti privati – si sosteneva – si sarebbe mai sottratto al giudizio trincerandosi dietro la propria carica, ma si sarebbe al contrario immediatamente dimesso per consentire alla giustizia di fare il suo corso.
Spesso è assai utile ragionare su pretesi “casi di scuola”, perché si può imparare ad affrontare meglio la realtà. Intorno al 1998 una serie di inchieste penali, originariamente aperte nei confronti di esponenti di medio livello del partito gollista, finirono per coinvolgere, oltre al Primo ministro Alain Juppé e ad altri personaggi politici di primo livello, lo stesso Presidente della Repubblica Jacques Chirac, il quale peraltro, com’era prevedibile, si guardò bene dal dimettersi per consentire alla giustizia di «fare il suo corso».
I fatti denunciati riguardavano comportamenti penalmente rilevanti ipoteticamente tenuti da Chirac in anni precedenti all’assunzione delle funzioni presidenziali, quando egli occupava la carica di sindaco di Parigi, che costituivano dunque senza dubbio atti extrafunzionali, sia in quanto – ratione materiae – totalmente sganciati dalla funzione, sia in quanto comunque commessi (se commessi) prima dell’assunzione della carica4).
Fu in quell’occasione che la dottrina costituzionalistica, fino a quel momento pressoché silente, diede inizio a una accanita discussione sulla portata e sui limiti dell’art. 68 della Costituzione. La tesi che iniziò a farsi strada era che il Presidente, durante il mandato, non potesse essere oggetto di procedimenti penali (né civili) neanche per fatti estranei all’esercizio delle funzioni, in quanto – al di là dell’immunità penale prevista dall’art. 68 – opererebbe nei suoi confronti una condizione temporanea di improcedibilità idonea a coprire qualsiasi atto penalmente o civilmente rilevante, ancorché extrafunzionale5).
Assai interessanti sono le motivazioni con cui è stata sostenuta tale tesi “innovativa”. La figura del Presidente è espressamente descritta come quella di un organo politico da tutelare a prescindere dalla natura degli atti compiuti dalla persona fisica che occupa pro tempore quella carica. La questione della responsabilità presidenziale si sposta dunque esplicitamente dalla natura degli atti alla natura della funzione, che renderebbe necessaria una radicale limitazione delle prerogative del potere giudiziario: «La protezione rigorosa che la Costituzione ha previsto per il Presidente perderebbe ogni senso se la decisione individuale di un qualsiasi giudice potesse essere sufficiente ad annullarla. Chi può tracciare la frontiera, talvolta assai incerta, tra gli atti funzionali e quelli extrafunzionali? Certo, il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla giustizia ha valore costituzionale, ma il principio di separazione dei poteri anche. Ora, è difficilmente negabile che il Capo dello Stato, finché si trova all’Eliseo, non è precisamente un cittadino come gli altri»6). E ancora: «I titolari di cariche pubbliche7)non possono essere perseguiti se non con la garanzia che attraverso il procedimento riguardante quelle persone fisiche non sia recata offesa alle istituzioni che essi rappresentano … La protezione del Presidente da procedimenti penali è conforme al principio di separazione dei poteri, la cui applicazione nell’interesse generale rende indispensabile l’attenuazione o la limitazione provvisoria del principio di uguaglianza davanti alla giustizia»8).
Secondo tale tesi, insomma, il Presidente della Repubblica francese non è (o non è più), soltanto il rappresentante dell’unità nazionale e il garante della continuità dello Stato, ma è prima di tutto il vero leader politico della Nazione, nei confronti del quale deve essere fatta valere la garanzia politica dell’immunità da qualsiasi intervento da parte del potere giudiziario, quale che sia la natura dei fatti a lui eventualmente imputati. Qualsiasi giudizio sugli atti del Presidente è un giudizio politico: tale giudizio non può dunque essere affidato a un giudice, ma esclusivamente a rappresentanti eletti9).
Nonostante il contrario avviso di settori (peraltro minoritari) della dottrina10), si accredita così l’idea che, in ragione del ruolo politico del Capo dello Stato, e della sua funzione di leader effettivo della maggioranza e del governo, debba operare nei suoi confronti un surplus di garanzia. Proprio in nome della separazione dei poteri si invoca dunque una protezione completa e assoluta, idonea a scongiurare il rischio che il potere giudiziario intralci o anche soltanto condizioni l’operato del Presidente, finché egli occupi quella funzione.

3. La tesi “estensiva” fu poi avvalorata da un’ambigua pronuncia del Conseil constitutionnel, il quale, occupandosi di una questione apparentemente lontana ma che comunque coinvolgeva direttamente l’interpretazione dell’art. 6811), affermò che «il Presidente della Repubblica, per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni e fuori dal caso di alto tradimento, beneficia di una immunità; che d’altronde, durante la durata delle sue funzioni, la sua responsabilità penale non può essere messa in discussione che davanti all’Alta Corte di Giustizia». Secondo il Conseil, dunque, il Presidente non potrebbe mai essere giudicato da un giudice comune durante il suo mandato, neppure per fatti estranei alle funzioni, né se commessi durante il mandato, né se commessi prima, in quanto opererebbe un generale e indiscriminato privilegio di giurisdizione esteso alla persona del Capo dello Stato, indipendentemente dalla natura degli atti a lui imputati12).
Il risultato immediato di tale decisione fu che una serie di giudici istruttori titolari di inchieste nei confronti di Jacques Chirac si dichiararono privi di giurisdizione. Intanto la maggioranza socialista presentò una proposta di riforma costituzionale (mai approvata) che ripristinasse l’interpretazione originaria dell’art. 68, ritenendo che il Conseil, con la sua lettura, avesse dato al Presidente una protezione eccessiva, non giustificata dall’esigenza di tutelare la sua funzione13).
Una successiva sentenza della Cassazione fornì una lettura ulteriormente differenziata della disposizione costituzionale, ritenendo che, per gli atti extrafunzionali, il Capo dello Stato risponderebbe sì alla magistratura ordinaria, tenuta tuttavia a sospendere l’azione per la durata del mandato. Ciò in quanto sarebbe indispensabile assicurare il regolare funzionamento dei poteri pubblici e la continuità dello Stato, in un sistema che prevede l’elezione a suffragio universale e diretto del Capo dello Stato14). Se agli effetti pratici il ragionamento della Cassazione non si discosta di molto da quello suggerito dal Conseil, profondamente diverse erano invece il significato e le implicazioni teoriche delle due conclusioni. Laddove l’interpretazione del Conseil sanciva una prevalenza indiscussa e generale del politico, in nome della sovranità popolare e della separazione dei poteri, la tesi della Cassazione sembrava ricondurre la questione della responsabilità presidenziale per fatti extrafunzionali sul piano della giurisdizione, seppure con l’attenuazione rappresentata dalla “invenzione” di una condizione temporanea di improcedibilità, non prevista esplicitamente dalla Costituzione e fino a pochi anni prima mai ipotizzata da nessuno.

4. Dopo la sua trionfale rielezione nel 2002, Jacques Chirac affidò (come aveva promesso in campagna elettorale) a una commissione di “saggi” presieduta da Pierre Avril lo studio di una riforma complessiva dell’immunità presidenziale. La commissione terminò i propri lavori nel dicembre 2002, proponendo una completa revisione costituzionale delle disposizioni concernenti la responsabilità presidenziale15). La proposta appare assai significativa della tendenza cui si faceva cenno all’inizio: quella di spostare sempre più e per quanto sia possibile dalla sfera giurisdizionale alla sfera politica qualsiasi giudizio sull’operato del Presidente, a difesa della natura essenzialmente politica della sua figura e delle sue funzioni.
Il Presidente – sostiene il Rapport Avril – è un organo politico, è anzi il principale titolare di funzioni politiche del Paese. Egli deve dunque essere tutelato dai rischi di un’esposizione indiscriminata all’azione giudiziaria: «A chi si inquieta di una deriva del sistema politico verso la irresponsabilità è facile rispondere che la soluzione di questo problema, se si pone, non passa di sicuro attraverso il ricorso sistematico all’autorità giudiziaria, che non ha né vocazione né ambizione a erigersi ad arbitro dei contrasti politici». Per questa ragione il Rapport raccomanda una revisione dell’art. 68, che preveda:
a) una completa irresponsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni;
b) la inviolabilità della persona del Presidente per tutta la durata del mandato, e dunque una forma di improcedibilità assoluta da parte di qualsiasi giudice (civile, penale, amministrativo, del lavoro, contabile) nonché da parte di qualsiasi autorità amministrativa indipendente dotata di funzioni giudiziarie o paragiudiziarie (come ad es. la Commissione per le operazioni di Borsa);
c) la possibilità, in casi estremi, della destituzione del Presidente in carica (pronunciata dal Parlamento riunito in Alta corte, a seguito di una messa in stato di accusa votata da entrambe le Assemblee a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna), qualora egli venga meno ai propri doveri in misura tale da renderlo manifestamente incompatibile con la prosecuzione del mandato.
La destituzione è immaginata come rimedio del tutto politico, azionabile in base a criteri politici e completamente sganciato da procedure giudiziarie o paragiudiziarie, così come non finalizzato all’irrogazione di sanzioni giudiziarie o paragiudiziarie. A parere della Commissione, infatti, «secondo i principi della rappresentanza politica, il titolare di un mandato rappresentativo non può esserne privato se non per decisione di suoi pari, cioè di altri titolari di un mandato rappresentativo».
Occorre prestare attenzione particolare a questo passaggio: il Presidente è tutelato non in quanto rappresentante dell’unità nazionale, bensì in quanto capo dell’esecutivo, organo titolare della funzione di indirizzo politico, rappresentante eletto della volontà popolare.
Il tono del Rapport Avril sembra qui riecheggiare con assonanze e corrispondenze impressionanti quello del dibattito che, negli stessi mesi, si stava sviluppando in Italia a proposito dell’immunità del Presidente del Consiglio. Proprio l’idea della “giustizia dei pari” sembra imporsi su qualsiasi ragionamento che tenda al contrario a valorizzare il principio di uguaglianza di fronte alla giustizia e il principio di legalità dei delitti e delle pene, o a esaltare lo stesso principio di separazione dei poteri (e dunque di indipendenza dei giudici), in contrasto con qualsiasi ipotesi di giustizia meramente “politica”.
Secondo la tesi che appare oggi dominante in Francia come in Italia, il capo dell’esecutivo, in quanto rappresentante del popolo sovrano, non può essere giudicato, durante il suo mandato, che da altri rappresentanti del popolo sovrano, i quali devono pronunciarsi alla stregua di ciò che sono: dei rappresentanti. E devono assumere le loro decisioni alla stregua di ciò che esse sono: decisioni politiche e non giurisdizionali.
Sulla base del giudizio politico dei “pari” il Presidente, secondo la proposta Avril, potrà essere destituito. Ma avrà in ogni caso la possibilità di ripresentarsi alle elezioni presidenziali, che dovranno essere convocate a seguito dell’impeachment. In tal modo, in caso di rielezione, egli «infliggerebbe ai suoi censori, una sconfessione che non potrebbe restare per loro senza conseguenze». Inoltre egli, con una eventuale rielezione, scongiurerebbe per altri cinque anni la possibilità di essere perseguito da un giudice. Nelle parole della Commissione, la responsabilità giuridica del Presidente sembra quasi annullarsi nella responsabilità politica, che affida in realtà la persona – e non la funzione – del Presidente al giudizio finale del popolo sovrano. Quest’ultimo viene così eretto ad arbitro del conflitto tutto politico insorto tra Capo dello Stato e Parlamento.

5. Dalla lettura del Rapport Avril, il quale è stato immediatamente seguito dalla presentazione di una proposta governativa di revisione costituzionale che ne recepisce in toto i contenuti, sembra trarre conferma una diffusa critica alla forma di governo della V° Repubblica: quella di manifestare «una inquietante tendenza allo sviluppo della irresponsabilità dei governanti»16). È una tendenza che sembra andare ben al di là del contesto francese e soprattutto – ciò che è più preoccupante – ben al di là del modello semi-presidenziale. In questo senso la questione della responsabilità giuridica dei capi di governo si salda strettamente con la questione della loro investitura diretta (o semi-diretta), e cioè con l’evoluzione in senso neo-parlamentare di molte forme di governo presenti sul continente europeo, in nome della c.d. “democrazia di investitura”.
Viene ovunque caparbiamente perseguito da settori maggioritari del sistema politico – e parallelamente teorizzato e auspicato da cospicue falangi del mondo intellettuale – l’obbiettivo di “restituire vigore” al circuito della rappresentanza politica, che si descrive come attualmente atrofizzato dalla crisi del sistema parlamentare. A tale scopo si pretende di affidare direttamente all’esecutivo, e segnatamente al suo “Capo”, il compito di farsi interprete di una sovranità popolare che si vuole “confiscata” dal circuito perverso della rappresentanza parlamentare. Parallelamente si pretende di trasformare in giudizio politico qualsiasi forma di esercizio della responsabilità giuridica dei governanti, anche e soprattutto per i fatti extrafunzionali. L’obbiettivo è sempre il medesimo: affidare il giudizio sulla persona (e non – si badi bene – sulla funzione) del leader politico ad un circuit de confiance diretto e immediato che quel leader sia in grado di instaurare con il corpo elettorale, con una evidente insofferenza verso qualsiasi possibile interposizione di altri soggetti tra la sfera del comando e i cittadini.
Tutto ciò – come è stato più volte notato – pone ovviamente interrogativi assai inquietanti sulla tenuta complessiva di quel «principio giuspolitico, storicamente determinato ma non superato perché coevo allo stato contemporaneo» di cui parla Gianni Ferrara nell’articolo di presentazione di questa Rivista, cioè sulla capacità del costituzionalismo – inteso come teoria della limitazione del potere – di continuare a imporsi nella pratica dell’organizzazione costituzionale, di fronte agli attacchi di cui è sempre più frequentemente oggetto.
Ma tutto ciò suscita anche notevoli perplessità in relazione alla effettiva capacità di funzionamento di quello stesso circuito della responsabilità politica verso un supposto “popolo sovrano”, che con tali trasformazioni dell’assetto istituzionale si vorrebbe esaltare. A quali conseguenze può condurre, in effetti, la decisione di affidare proprio alla politica il potere, che è stato sottratto ai giudici, di far valere la responsabilità (giuridica) dei governanti? La proposta che si sta facendo luce in Francia in merito alla possibile “destituzione” del Presidente finisce per caricare di significato il successivo probabile appello al popolo da parte del Presidente disarcionato. Tale soluzione, se da un lato appare coerente con un modo particolare di concepire il rapporto tra eletti ed elettori, erede legittimo del giacobinismo radicale, dall’altro lato confonde – coscientemente, secondo un’impostazione, appunto, giacobina – il piano della responsabilità politica e quello della responsabilità giuridica, pretendendo di affidare anche l’azionabilità di quest’ultima al circuito politico, al circuito della sovranità popolare, al volere della maggioranza, paradossalmente proprio a quel circuito il cui funzionamento, a detta degli osservatori più attenti, appare maggiormente deficitario.
L’idea che sembra trionfare è insomma quella del grande lavacro esercitato dal c.d. popolo sovrano, dell’investitura popolare capace di superare qualsiasi giudizio sull’operato dell’eletto, anche se penalmente rilevante. È un’idea che, come testimoniato dalle recenti vicende italiane, circola ben al di là del contesto transalpino, e che vorrebbe accreditare la tesi secondo cui, tra i modi per azionare e far valere la responsabilità giuridica dei politici, il migliore sarebbe sempre quello di affidare il giudizio, e la relativa sanzione, all’ordalia del rito elettorale, all’appello al principio democratico, piuttosto che al controllo giurisdizionale sulla legalità dei comportamenti. Un’ordalia che, a prescindere da ogni altra considerazione, si dimostra sempre più palesemente inefficiente. Se infatti, come scriveva Jeremy Bentham, «the eye of the public makes the statesman virtuous», il problema oggi sembra costituito proprio dagli occhi, molti dei quali appaiono offuscati dalla più completa inconsapevolezza, quando non siano addirittura tenuti intenzionalmente chiusi.

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