Partiti politici e Costituzione. Brevi riflessioni sul decennio*


1. Dopo il secolo dei partiti.

É indubbio che l’esperienza dei partiti politici abbia costituito nel corso del Novecento l’approdo politico più avanzato nell’organizzazione dei sistemi democratici. Sono stati i partiti – come ricorda Leibholz – ad aver reso possibile “l’integrazione politica del popolo” (nella sue diverse componenti politiche, culturali, sociali) nella vita dello Stato (1), ad aver disegnato le costituzioni contemporanee (operando quale insostituibile anello di congiunzione tra potere costituente e potere costituito), ad aver innovato l’organizzazione degli Stati, ponendo finalmente a contatto i cittadini con quelle istituzioni che lo stato liberale gli aveva per lungo tempo precluso. Attraverso il radicamento dei partiti nella vita sociale e politica è stato, altresì, storicamente possibile coniugare popolo e governo, rappresentanza e rappresentazione, partecipazione e decisione politica. Tutto ciò avveniva nel “secolo breve” (2) : il Novecento. Non a caso, da più parti, definito “il secolo dei partiti” (3).
Scriveva alla fine degli anni venti Hans Kelsen: “un’evoluzione irresistibile porta in tutte le democrazie ad un’organizzazione del popolo in partiti” (4). La frase di Kelsen merita di essere sottolineata proprio per la sua distanza dalla realtà politica odierna e per gli interrogativi che essa inevitabilmente pone. A fronte della crisi dei partiti come si organizza e si manifesta oggi la volontà popolare? Alle soglie del XXI secolo, il popolo è preda di altre “evoluzioni irresistibili”? E in che direzione? Con quali esiti? Qual è la natura politica di questi processi? E quali le implicazioni costituzionali? Questioni, come si vede, complesse, controverse nel loro stesso impianto e di non facile soluzione.
Da una rapida analisi dell’ultimo decennio, un dato sembrerebbe comunque emergere con forza: travolta la democrazia dei partiti, la c.d. transizione italiana si è progressivamente avvitata attorno alla spirale dell’antipolitica. Populismo e mercato sono i suoi caratteri portanti. Il berlusconismo uno dei suoi approdi(5).
Sarebbe tuttavia riduttivo e fuorviante schiacciare il caso Berlusconi sulla vicenda italiana (e/o viceversa), dal momento che – secondo quanto emerso da una recente indagine – l’emersione del fenomeno populista rischia oggi di “aggredire” gran parte delle democrazie costituzionali . Tale pervasiva alterazione delle dinamiche democratiche risulterebbe contrassegnata dalla congiunta presenza di tre fattori sintomatici: a) trasformazione del sistema politico; b) personalizzazione del potere; c) influenza dei media. Il berlusconismo costituisce – se così si può dire – la manifestazione patologica più estrema di questo fenomeno, perché rispettivamente: a) beneficia delle trasformazioni del sistema partitico opponendo al vecchio partito di massa un suo “partito personale” (6); b) la personalizzazione del potere, da parte del capo del governo, tende ad assumere connotati autoritari (invocazione di immunità assolute, leggi ad personam, utilizzo di pratiche intimidatorie nei confronti di chi lo contesta); c) perché il Presidente del Consiglio italiano non solo influenza i media, ma ne ha il controllo (diretto e indiretto).

2. La polemica “antipartitocratica” dopo Tangentopoli.

Contrariamente a quanto in passato sostenuto (anche) da ampia parte della letteratura giuridica (7), la crisi della democrazia dei partiti – seppure consumatosi sotto i colpi delle inchieste giudiziarie – non può ritenersi esclusivamente riconducibile a Tangentopoli. Anzi, se così si può dire, la dissoluzione per via giudiziaria del “vecchio” sistema partitico costituì l’epilogo di quella crisi, la sua manifestazione più appariscente ed esteriore. La crisi dei partiti, a partire dalla fine degli anni settanta, deve essere piuttosto interpretata come crisi della loro egemonia (8) e della loro connaturata propensione a esprimere e a rappresentare la complessa articolazione dei bisogni e delle istanze sociali. Un fenomeno che affonda le sue origini molto tempo prima di Tangentopoli e che ha una sua “data illuminante” (9) nel convegno della Trilateral e nella critica da esso rivolta alle democrazie complesse.
Ne consegue che la cd. “partitocrazia” non rappresentava – a differenza di quanto ancora oggi sostenuto dalla vulgata politologica corrente – l’essenza della democrazia dei partiti, ma semmai la sua estrema degenerazione prodotta dal disperato tentativo (una volta venuto meno l’insediamento di massa dei partiti) di mantenere inalterata la propria presa sulla società attraverso le pratiche clientelari e il malaffare.
In Italia, l’esplosione di Tangentopoli è destinata a provocare una vera e propria “distorsione” delle dinamiche politiche. Vecchi partiti si dissolvono. Mutano le forme e i luoghi dell’agire collettivo. La politica arranca di fronte al repentino sopravvento del c.d. circuito mediatico- giudiziario.
Per compensare il vuoto di mediazione che ne sarebbe scaturito si inizia allora a teorizzare “un nuovo sistema politico, oltre i partiti” (10) e un nuovo modello di rappresentanza. Vecchi e nuovi poteri (la grande impresa, i media, la società civile, il trasversalismo referendario) invocano con forza il passaggio alla democrazia maggioritaria. Il loro obiettivo è regolare definitivamente i conti con la democrazia dei partiti, travolgendo quello che era stato il suo naturale corollario: il sistema proporzionale. Da più parti si inizia, così, a sostenere che la democrazia italiana per funzionare efficacemente avrebbe dovuto immediatamente liberarsi di quell’insopportabile diaframma posto fra governati e governanti (i partiti politici) e porre così implicitamente le condizioni per procedere all’elezione diretta del governo da parte del popolo sovrano (11).
In realtà, l’introduzione del maggioritario più che risolvere i problemi della democrazia italiana tenderà ad esasperarli ulteriormente: personalizzazione della competizione elettorale, uso pervasivo e quotidiano dei sondaggi, crescente peso della politica spettacolo, democrazia del “gradimento” (segnato dal ruolo egemone dei media, e dalla progressiva riduzione dei cittadini a tele-utenti della politica). Si punta, in questo modo, a sostituire quella che era stata la mediazione politica dei partiti con la immedesimazione istintiva e spontanea tra governanti e governati. Solo in pochi percepiscono, in quella fase, che la delegittimazione dei partiti avrebbe alla lunga favorito “una risposta di tipo autoritario”, l’unica in grado di “ricostituire le condizioni di un minimo di unità politica” (12).

3. I riflessi costituzionali della crisi dei partiti.

La dissoluzione dei partiti di massa investe non solo il sistema politico, ma a partire dagli anni novanta si ripercuote direttamente anche sull’assetto costituzionale. Sia sul piano storico e giuridico, sia su quello politico-sociale. Sul piano storico perché assieme ai partiti di massa è improvvisamente venuta meno quello che era stata la rete politica di sostegno della Repubblica, il tramite tra popolo e Costituzione, i soggetti storici della sua scrittura e della sua (parziale) attuazione. Sul piano giuridico, perché alcuni istituti di garanzia previsti in Costituzione e modellati sulle dinamiche di un sistema proporzionale, subiscono con l’introduzione del maggioritario un inevitabile processo di indebolimento (riserva di legge, poteri delle minoranze parlamentari, ruolo delle istituzioni e delle procedure di garanzia della Costituzione). Sul piano politico-sociale perché smantellare i “partiti dell’assistenzialismo” avrebbe voluto anche dire smantellare “lo stato sociale in salsa partitocratica” che aveva, fino a quel momento, compresso il “franco sano individualismo” dei cittadini italiani (13).
L’antipolitica inizia a dare, così, i sui frutti: il primato dell’economico si consolida e finanche la nozione costituzionale di popolo subisce una repentina alterazione in senso schumpeteriano, trasformandosi da popolo plurale “organizzato in partiti” (secondo il modello kelseniano) in una massa indistinta di “individui legittimamente autointeressati, a cui occorre restituir voce” (14). Individui egoisticamente autonomi e indipendenti, ma allo stesso tempo fin troppo inclini ad accettare forme invadenti di controllo sociale.
Populismo e mercato si combinano in una insidiosa miscela che mette in discussione la Costituzione democratica e gli “irritanti” vincoli da essa stessa posti al dominio del capitale e alla sovranità del popolo : entrambi intesi come fonti primigenie e illimitate di libertà, che non sopportano istanze sovraordinate, né tanto meno argini giuridici (15).
Gli appelli al popolo (spesso evocato anche nelle vesti di potere costituente) si trascinano per tutto il decennio. Una pratica inedita che coinvolge finanche la Presidenza della Repubblica (nel 1991 – come si ricorderà – il Presidente Cossiga in un messaggio inviato alle Camere si abbandonerà ad una inconsueta apologia della sovranità popolare, collocandone il fondamento oltre la stessa Costituzione)(16). L’evocazione del popolo sovrano è altresì parte integrante della (fallimentare) esperienza delle commissioni bicamerali, delle modalità di approvazione del nuovo titolo V della Costituzione sottoposto – per volontà congiunta di maggioranza e opposizione – al voto popolare nell’ottobre 2001 e della stagione referendaria degli anni novanta.

4. Referendum e partiti. Rectius: i referendum contro i partiti.

A partire dalla fine degli anni ottanta, l’istituto referendario, abdicando definitivamente alla sua funzione di stimolo e di integrazione del governo parlamentare, tenderà progressivamente ad assumere una inedita carica di rottura nei confronti del sistema rappresentativo. Non è un caso che il bersaglio privilegiato dell’offensiva referendaria, nel corso degli anni novanta, sia stato costituito dalla democrazia dei partiti e da quello che era stato il suo originale e articolato corollario di istituti: dal sistema elettorale proporzionale alla disciplina sul finanziamento pubblico dei partiti.
Si consolida, in questi anni, il c.d. mito della sovranità referendaria, da più parti ostentata quale supremo e indiscusso modello di democrazia, perché diretta. Ma la democrazia referendaria degli anni novanta tutto è stato tranne che una democrazia immediata e diretta. Anch’essa, infatti, al pari della democrazia rappresentativa è stata caratterizzata da moduli di mediazione e di (etero)direzione della domanda politica, seppure in forme alquanto diverse da quelle classiche (imperniate, come si è detto, sul rapporto di rappresentanza e sulla presenza democratica dei partiti politici). D’altronde è difficile negare che, nel corso del passato decennio, finanche l’ostentata evocazione del popolo e della sua purezza, sia stata, pervasivamente, mediata dagli strumenti di (in)formazione dell’opinione pubblica e dalla crescente funzione di condizionamento esercitata dai potentati economici.

5. I partiti tra identità costituzionale e identità nazionale. Il ruolo del Capo dello Stato rappresentante dell’unità nazionale.

Ma la crisi di identità costituzionale del popolo è anche crisi della sua dimensione nazionale. Fattore, questo, indispensabile nella retorica identitaria che segna tutte le democrazie moderne (si pensi cosa significa il 4 luglio negli USA o il 14 luglio in Francia).
In Italia, nel corso dell’ultimo decennio – al precipuo fine di consentire la compiuta normalizzazione del nuovo sistema politico – si è, invece, tentato di privare in ogni modo il popolo della sua originale identità costituzionale, della sua storia, del suo passato. Sono segnali che non vanno sottovalutati soprattutto per i rischi di involuzione plebiscitaria del sistema che queste operazioni “intellettuali” nascondono. L’espressione recentemente impiegata da Gustavo Zagrebelsky per descrivere tale grave sintomatologia del sistema va segnalata per la sua particolare efficacia: “il popolo senza tempo, con l’andar del tempo, dà luogo ad una democrazia della massa indistinta e perciò totalitaria” (17).
Mi riferisco, com’è evidente, alla incalzante cultura del revisionismo storico-costituzionale e al trauma da questa inferto al rapporto identitario popolo-Repubblica. Le semplificazioni e le distorsioni prodotte, sul piano storico, da questa offensiva culturale sono note: la Resistenza presentata come un episodio marginale della storia nazionale e per di più segnato da connotati regressivi (l’onore perduto, la nazione allo sbando); la scrittura della Costituzione repubblicana ridotta a mero patto partitocratico; la storia repubblicana ridotta a storia di “inciuci” e di pratiche “consociative” (18).
Una deriva certamente favorita dalla cultura di destra tornata in auge all’indomani dell’implosione in Europa del socialismo reale, dalle vittorie elettorali (nel 1994 e nel 2001) di una coalizione politica storicamente e culturalmente estranea (nelle sue fondamentali componenti) alla tradizione antifascista, dalle sortite di un Presidente del Consiglio che si rifiuta di festeggiare il 25 aprile.
Ma anche le gravi responsabilità della cultura democratica non possono essere sottaciute: il sistematico ridimensionamento del significato costituzionale dell’antifascismo, il fascino del revisionismo storico subìto da ampia parte della cultura politica, gli appelli alla concordia nazionale.
Infine, su questo stesso fronte vanno altresì segnalati anche i preoccupanti cedimenti ravvisabili nell’azione costituzionale dall’attuale Capo dello Stato. Certo in molte occasioni (e anche di recente) il Presidente Ciampi ha energicamente richiamato le forze politiche al rispetto della Costituzione, sottolineandone l’attualità. Ma altrettanto spesso l’attuale Presidente della Repubblica ha omesso di ricordare, nel corso delle sue esternazioni, che la Costituzione è geneticamente segnata dalla discriminante antifascista. Pensare di neutralizzare tale connotazione, omettendo ogni riferimento alla Resistenza, cedendo alla retorica sui ragazzi di Salò o collocando la carta costituzionale nel solco della vicenda risorgimentale (ottocentesca) non aiuta a difendere a Costituzione (19).
Il Presidente della Repubblica nella sua veste di rappresentante dell’unità nazionale ha, invece, il dovere di agire quale garante dei valori posti a fondamento dell’unità costituente. È questo il terreno che il Capo dello Stato è chiamato continuamente a presidiare con la propria azione operando alla stregua di un vero e proprio tutore della memoria nazionale e costituzionale.
Ciò vuol dire, in estrema sintesi, che il Presidente della Repubblica, nel corso del suo mandato, deve certamente adoperarsi per unire le parti, temperare le asprezze dello scontro politico, assicurare la serenità del confronto istituzionale. Ma tutto ciò non può tuttavia costituire un vincolo inibitorio, una sorta di imperativo assoluto da rispettare ad ogni costo. Il Capo dello Stato deve perseguire la sua attività di mediazione … fin dove è possibile. Fin dove, cioè, questa risulti coerente (o per lo meno non in contrasto) con la Costituzione. Ne consegue che, qualora le circostanze lo richiedano, il Capo dello Stato – venendo meno alla propria funzione arbitrale – ha il dovere di intervenire, di parteggiare, di schierarsi. Ma sempre dalla stessa parte. Dalla parte della Costituzione repubblicana.

6. Lo sbocco autoritario della c.d. transizione: il progetto di riforma costituzionale.

L’abbandono del progetto costituzionale è uno dei sintomi più evidenti del disorientamento politico e culturale di questi anni. È giunto ora il momento, soprattutto da parte della cultura costituzionale, di prendere con forza le distanze da quell’esperienza. Di invertire il processo. Soprattutto se si vuole tentare di opporre un argine a questa deriva.
Dobbiamo, sin da ora, essere consapevoli che la partita sulla (contro)riforma costituzionale approvata in prima lettura in Parlamento è destinata nei prossimi mesi a rappresentare per la maggioranza di governo (anche in ragione delle sue crescenti difficoltà) la madre di tutte le battaglie, il tentativo risolutivo di inveramento del modello plebiscitario perseguito dall’unto del Signore. È probabile che per rendere più appetibile la riforma le forze di governo e il suo capo torneranno ad “abusare” del popolo sovrano, indicando nel premierato forte la più alta realizzazione del principio della sovranità popolare, il definitivo compimento di un nuovo ordine politico senza più mediazioni. Le virtù regressive di quel progetto sono, per converso, del tutto evidenti: reductio ad unum della politica, verticalizzazione del consenso, concentrazione dei poteri di indirizzo politico.
D’altronde ciò che appare privo di senso nel confronto politico attualmente in corso sulle riforme costituzionali (ma si tratta – anche in questo caso – di una tipica “eredità” degli anni novanta e in modo particolare dell’esperienza delle bicamerali) è proprio questa incomprensibile e spasmodica tendenza a ritenere che la soluzione di tutti i mali della democrazia italiana passi attraverso una incisiva trasformazione della Carta fondamentale e un incisivo rafforzamento dei poteri del governo. Un prospettiva questa della quale si sarebbe fatti volentieri a meno … anche perché – francamente – non se ne sente assolutamente il bisogno, visto che in questi anni il governo si è rafforzato fin troppo. E così il suo ruolo (legge maggioritaria, riforma dei regolamenti parlamentari), le sue funzioni (blindatura della manovra di bilancio), il suo potere normativo (abuso della decretazione delegata, delegificazione, ritorno di un impiego disinvolto della decretazione di urgenza). Viceversa, l’ultimo “decennio italiano” ha squadernato, sotto gli occhi di tutti, la portata degli squilibri prodotti dal sistema elettorale maggioritario e dal riassestarsi intorno ad esso del nuovo sistema politico. Dunque, piuttosto che da un rafforzamento dei poteri del governo si sarebbe semmai dovuto partire da una coerente ridefinizione degli equilibri istituzionali e dalla costruzione di più efficaci contrappesi al dominio della maggioranza parlamentare e dei suoi capi.

Intervento svolto nel corso del Seminario interno organizzato dalla Rivista in data 23 giugno 2004 a Roma sul tema “1993/2003, un decennio di storia costituzionale”

Note:

1) G. Leibholz, Struktureprobleme der Modernen Demokratie, Karlsruhe, 1958, 90
2) L’espressione, com’è noto, è di E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 1995.
3) H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia (1929), in Id., La democrazia, 1984, Bologna, Il Mulino, 63.
4) Sulla natura politica del “berlusconismo” e sulle sue implicazioni (anti)costituzionali rinvio, in particolare, a L. Ferrajoli, Il berlusconismo e l’appropriazione della sfera pubblica e ai saggi contenuti nel numero monografico di “Democrazia e diritto” su Il sistema Berlusconi, 1, 2003.
5) Y. Mény – Y. Surel, Populismo e democrazia, Bologna, Il Mulino, 2001, 85 ss.
6) M. Calise, Il partito personale, Roma-Bari, Laterza, 1998.
7) Fra gli altri A. Predieri, Potere giudiziario e politiche, Firenze, 1994, 34 che a tal proposito scriveva: finalmente “è stato travolto con movenze rivoluzionarie tutto il sistema politico. La magistratura è apparsa come portatrice di cahiers de doléances, portavoce e portabandiera di sentimenti diffusi, strumento, organo di una società civile che non si riconosceva nei suoi rappresentanti e nella classe politica”.
8) Cfr. G. Ferrara, Istituzioni, lotta per l’egemonia e sistema politico, in “Pol. dir.”, 1992, ora in Id., L’altra riforma, nella Repubblica, Roma, Manifestolibri, 2002, 91 ss.
(9)P. Ingrao, La “questione democratica”, in “Dem. dir.”, 1988, 23.
(10) E. Bettinelli, Partiti politici, senza sistema dei partiti, Accademia Nazionale dei Lincei (a cura della), Lo Stato delle istituzioni italiane, Milano, 1994, 167.
(11) Mi riferisco alla “apologetica” pubblicistica di quegli anni, di impianto prevalentemente politologico. E in particolare G. Pasquino, La repubblica dei cittadini ombra, Garzanti, Milano, 1991; Id, Come eleggere il governo, Anabasi, Milano, 1992; S. Fabbrini, Per una democrazia maggioritaria, in “Micromega”, 1990, 188 ss.; G. Sartori, Le riforme istituzionali tra buone e cattive, in “Rivista italiana di scienza politica”, 1991, 21 ss.
(12) M. Luciani, Il voto e la democrazia, Roma, Editori Riuniti, 1991, 62.
(13)G. Bognetti, Tanti programmi per nulla, in Il Sole-24Ore, 26 marzo 1992.
(14) M. Dogliani, Costituzione e antipolitica, in C. De Fiores (a cura di), Lo stato della democrazia, Franco Angeli, Milano, 2002, 31..
(15) Sul punto rinvio al bel commento di F. Bilancia, Il Presidente del Consiglio Berlusconi e la costituzione come “problema”, in questo sito.
(16) Secondo il Presidente Cossiga “l’ordinamento costituito si fonda anch’esso su una norma fondamentale ad esso preventiva e ad esso sovraordinata: il principio della sovranità popolare”. Di qui l’esigenza vitale per la democrazia “di riconoscere e di affermare in concreto la naturale e primigenia preminenza della sovranità popolare ed il carattere originario dell’essere il popolo in democrazia l’unico vero e sovrano reale” (Camera dei deputati (a cura della), La Costituzione e le riforme istituzionali, Roma, 1991, 42 e 18).
(17) G. Zagrebelsky, Il “crucifige!” e la democrazia, Torino, Einaudi, 1995,118.
(18) Cfr., in particolare, i contributi di E. Galli della Loggia, La morte della patria, Roma-Bari, Laterza, 1996; R. Gobbi, Il mito della Resistenza, Milano, Rizzoli, 1992; P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna, Il Mulino,1991.
(19) Mi riferisco, in particolar modo, alle esternazioni dell’autunno 2001 ampiamente riportate dalla stampa (Ciampi: “Anche i ragazzi di Salò volevano un’Italia unita”, in “La Repubblica”, 15 ottobre 2001; Ciampi: nella Costituzione gli ideali del Risorgimento, in “La Stampa”, 5 novembre 2001).

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