Per una storia breve di un lungo decennio


1.Appunti per un primo bilancio
Una analisi del modello politico italiano nel primo decennio della cd transizione, e delle corrispondenti forme istituzionali nelle quali esso si esprime determinando principi e regole per lo svolgimento dei processi decisionali, sembra incontrare talune difficoltà, che hanno disparata natura. Alcune risiedono negli eventi che aprono nell’immediato il mutamento degli anni ’90, altre appartengono a pregiudizi logici di antica e tenace tradizione, altre ancora si fanno risalire alla imperfezione sia del modello sia delle forme della transizione, perché non sarebbero del tutto fissati e stabili gli equilibri sottostanti della comunità nazionale.
L’osservatore dovrà tenere nel debito conto tali ragioni, specialmente se impegnato a delineare i percorsi necessari per ricondurre il regime repubblicano alla soglia della certezza del diritto, ed ai valori fissati della Carta, da cui è come spinto ad allontanarsi: la certezza del diritto precondizione del consenso popolare verso le istituzioni, e i valori, espressione del comune sentire che dà senso alla storia di un popolo che abbia identità e ne sia consapevole.
Se si tiene conto del modo con il quale il sistema si è posto ed ha funzionato nel decennio, verso il cittadino come verso la comunità internazionale, si dovrà ammettere che non vi è esagerazione nell’evocare nozioni tanto impegnative. Al di là di singole considerazioni su questa o quella parte del sistema politico e costituzionale, ciò che si avverte è la necessità di ritrovare quel che si è smarrito: una rotta, un senso ed un moto che la orienti e le dia forza, come è stato, con fatica e però con risultati, nel primo cinquantennio della Repubblica.

2.I giudizi di valore impropri e il loro effetto distorsivo: una critica
Sarà utile sgombrare il campo dai residui di un dibattito inutile, ed anche dannoso, perché messo in campo da un falso presupposto, dell’introdurre giudizi di valore, oltretutto impropri, sulla crisi degli anni ’90. La storia non si giudica ma solo si conosce, avvicinando il più possibile alla realtà dei dati la ricostruzione scientifica di essi e delle relazioni che vi intercorrono.
Quanti, ancora oggi, e talvolta con accresciuta perentorietà, si avventurano su tale piano nell’analisi degli avvenimenti degli anni ’90, pronunciando giudizi di valore tanto acritici da rassomigliare ad atti di fede, non vanno molto lontano, sia se suggestionati da nostalgia della cd Prima Repubblica, sia se convinti delle migliori virtù della altrettanto cosiddetta Seconda Repubblica. Sono questi stati d’animo, privi di ragione storica, di senso logico: nascondono un dover essere, non traducono un essere.
Sta qui un punto fermo della riflessione sul caso italiano. All’inizio degli anni ’90 il moto di sviluppo civile e sociale impresso dalla nascita della Repubblica e progredito sulla forza dei principi del 1948 ha dato quanto è possibile: ha dato molto, se si misura il cambiamento culturale ed economico, e si guarda ai valori che si radicano nel comune sentire, e soprattutto se si apprezza la crescente centralità della persona e dei suoi diritti fondamentali entro e rispetto all’ordine giuridico della comunità nazionale.
La crisi degli anni ’90 ha le sue ragioni nel compiersi di questo ciclo, che conclude una prima fase della storia repubblicana. Di fronte a questo esaurirsi, i giudizi di valore si relativizzano, e soprattutto hanno senso sul piano della dialettica politica, non su quello della ricostruzione storiografica. Per questo i ritorni al passato non possono avere senso né logico né pratico.

3.Il mutamento e le sue forme: valore di tale rapporto
L’osservatore non deve sentirsi esentato dalla necessità di esaminare criticamente il modo ed il senso di insieme con cui si apre il processo di mutamento avviato nel 1993. Quanti professano sano scetticismo sulla pretesa neutralità intrinseca del cammino della storia sanno che interessi e volontà attivi ne determinano le rotte, salvo poi il ricorso a formule idealizzanti utili a prestare giustificazione ideologica, anche a conforto della legittimazione successiva.
Nella analisi del trapasso di regime avviato in quel tempo, la identificazione dei soggetti e degli interessi organizzati che sono attivi nel promuoverlo e nel sostenerlo può fornire elementi molto utili per la ricostruzione delle prime basi della nuova fase della storia repubblicana: in particolare ne deriva maggior chiarezza sui lineamenti di fondo tanto del modello politico quanto degli assetti istituzionali. Naturalmente è indispensabile distinguere tra chi assume parte eminente e decisiva, chi di pura facciata e minor convenienza, chi infine risulta soccombente: interessi e valori si attestano conseguentemente.
Un simile esame, il cui oggetto si risolve nella nozione nota della costituzione materiale, non rientra nelle riflessioni che qui si svolgono, rivolte al tema, più volte posto e discusso sulla Rassegna parlamentare negli anni di questo decennio, delle forme in cui si è avuto l’avvio del mutamento di regime: in particolare, di quanto immediatamente precede e poi accompagna e vivifica la celebrazione del referendum per la riforma della legge elettorale politica in senso maggioritario.
Il referendum del 1993 è assai significativo nella visuale del mutamento, e per varie ragioni, che comprendono la natura dei soggetti che lo promuovono e ne sostengono attivamente le regioni presso il corpo elettorale, per le finalità espressamente assegnate all’esito della consultazione dai fautori dell’accoglimento della domanda referendaria, per i risultati che promotori e protagonisti della iniziativa si ripromettono e promettono per guadagnare consensi nella opinione pubblica, per i livelli assai elevati di partecipazione al voto e di voti favorevoli alla domanda referendaria, senza precedenti in consultazioni di questo rilievo, e che non saranno più raggiunti in sèguito.
I partiti politici tradizionali non vi hanno parte attiva, almeno all’inizio, mentre singole personalità, e i principali gruppi editoriali che controllano l’informazione di massa vi si impegnano a fondo, e con essi soggetti sociali che per la prima volta nella storia repubblicana si pongono su tale piano, come l’organizzazione delle imprese. I partiti, già soggetti centrali della costituzione materiale, sono almeno in parte impegnati in crisi di varia natura, e rispetto alla iniziativa appaiono più che protagonisti, come trascinati dalla forza della tendenza che la iniziativa stessa sviluppa.

4.Prospettive e finalità del movimento referendario del 1993
Interessano qui le ragioni e le prospettive poste in campo dal movimento per il referendum del 1993. Nelle prime sono contenute le critiche all’evolversi della democrazia repubblicana, che riassumono i termini di una polemica aperta da molto prima degli anni ’90, ripresa con inusitato vigore in vista del referendum. Ne sono note le “voci” essenziali: la denuncia della partitocrazia, individuata quale fenomeno di abusiva ingerenza e dominazione nelle prerogative delle istituzioni rappresentative da parte delle oligarchie dei partiti politici; il corrispondente declino della sovranità popolare; la crisi acuta della rappresentanza in ogni fase del suo esplicarsi, dalla scelta delle candidature alla selezione degli eletti, dallo svuotamento del potere degli organi rappresentativi alla recessione del rapporto di responsabilità politica verso il corpo elettorale. Non mancano altri motivi di contestazione, del pari sostanzialmente attinenti il piano delle istituzioni, come lo squilibrio pubblico-privato in economia, la crescita abnorme del debito pubblico, e, in generale, la figura dello Stato interventista, dato strategico peraltro sotto il profilo del regime costituzionale.
I termini della polemica sono fin troppo noti, e ad essi si aggiungono gravi questioni sollevate sul costume politico. Preme qui ricordare che ciascuno di quei termini si polarizza nella iniziativa referendaria, e nella cd democrazia maggioritaria e dell’alternanza verso cui l’iniziativa è promossa ed orientata dai suoi assertori. Il referendum viene espressamente qualificato come mezzo per contrastare i vizi denunciati, gli obiettivi della democrazia maggioritaria e dell’alternanza come finalità dell’azione iniziata con il referendum.
E’ pur vero che, in contestuale lasso di tempo, si apre nelle istituzioni rappresentative un tentativo rivolto alla riforma della seconda parte della costituzione (non però del modello politico fondato sui partiti). Il tentativo però si arena, e l’iniziativa referendaria, così come apertamente denunciano i promotori, esprime anche la sfiducia capacità e sulla sincera volontà dei soggetti politici tradizionali di realizzare una effettiva ed adeguata riforma (cd paradosso dell’autoriforma): in nessun momento l’iniziativa referendaria smarrisce il senso deliberatamente datosi, di azione riformatrice alternativa al sistema di fatto consolidato.

5.Il promesso e il mantenuto: elementi di un bilancio
E’ possibile, a questo punto, tentare un raffronto tra il promesso e il mantenuto, tra il pronostico e il risultato: in breve, un primo bilancio della fase delle istituzioni repubblicane aperta dall’avvento della legge elettorale maggioritaria, e dalla nuova ripartizione delle circoscrizioni elettorali in collegi uninominali e collegi plurinominali a lista bloccata per il residuo riparto proporzionale, che sono le coordinate della disciplina approvata dopo il referendum (si noti che la riforma del reticolo circoscrizionale viene a torto quasi sottaciuto rispetto al principio maggioritario, mentre forse è ancor più incisivo per la sua carica innovativa).
Il bilancio è necessario anche per un particolare motivo, e cioè per chiarire la consistenza della persistente tendenza ad avvalorare, comunque, il senso positivo delle innovazioni introdotte, indipendentemente dalla natura discorsiva del giudizio di valore implicito in simile asserzione, della quale si è detto, in cui si scambia il dato della storia con la propria scuola di pensiero.
E’ ben agevole provare che si tratta di un errore gemello di quello della rivalutazione in chiave di nostalgia della prima fase della storia della Repubblica: né vale di imputare peso determinante al poco (?) tempo trascorso, e/o alle difficoltà opposte da un sistema che si sarebbe quasi incancrenito nelle sue contraddizioni. Il raffronto fornisce solida base a chiarire in linea di fatto l’infondatezza di un qualsiasi bilancio in chiave positiva.
Nessuna delle censure rivolte al sistema per ragione, ma al contrario gli argomenti stessi addotti per muoverle si moltiplicano e si rafforzano. Entro la visuale tracciata da promotori e sostenitori del referendum e della conseguente legge elettorale maggioritaria, si constata che difetti e contraddizioni denunciati né si dissolvono, né si riducono, e nuovi inconvenienti si aggiungono, non mai prima lamentati.

6.Segue: in tema di modello politico
Per ciò che concerne il modello politico, la frammentazione partitica non è stata superata. Il nuovo regime elettorale non ha avuto il sèguito sperato, o promesso: il numero dei partiti è cresciuto, raggiungendo livelli mai conosciuti.
Tale tendenza decompositiva rende illusorio l’approdo al bipolarismo, ed apre il varco alla qualificazione politica dei partiti, sovente spinti a disputare l’eredità ideale delle antiche formazioni travolte dagli avvenimenti del 1993, o a procurarsi controllo e sostegno dei mezzi di comunicazione il cui peso cresce notevolmente, o ancora a sistemazioni e risistemazioni ideologiche giustapposte all’azione politica in senso proprio.
Il pluripartitismo, resosi quindi ancor più esasperato, muta altresì la sua struttura, sviluppando da un lato sistemi di relazioni ineguali, da un altro lato accrescendo il valore di coalizione solo per alcuni, collocati in posizione di utilità marginale. Ne risultano scosse regole costituzionali di principio.
Il rapporto di rappresentanza non muove passi in avanti rispetto alla necessità di risolvere problemi sollevati criticamente nel 1993, nel dibattito in vista del referendum.
Fin dalla selezione delle candidature, il legame tra rappresentante e corpo elettorale non si riannoda, ma al contrario si allenta ulteriormente.
Agiscono vari fattori. La legge elettorale impone, per coltivare ragionevoli speranze di successo, candidature di coalizione; la sopravvivenza dei partiti, ed il loro moltiplicarsi, esige, d’altra parte, ripartizioni e compensazioni reciproche che di fatto sono riservate ai vertici dei partiti nell’àmbito di ciascuna coalizione (pratica dei cd ‘tavoli’); ne consegue che la volontà delle organizzazioni operanti nel territorio ha poco peso in un gran numero di casi.
Questa tendenza si accentua per il fatto che il frazionamento pluripartitico coesiste tuttora, in molti casi, con il frazionamento interno dei partiti, già argomento di severe critiche e approfonditamente analizzato dagli esperti di politologia. Il doppio livello di contrattazione che ne deriva, interno ed esterno alla forma partito, nonché ai cd movimenti ancor più di ardua reductio ad unum, esaspera la stretta verticistica delle candidature, fino a condurre ad alcuni episodi invero paradossali.
Il distacco tra elettori ed eletti non si acuisce alla sola fase delle candidature. I meccanismi selettivi agiscono nello stesso senso anche dal punto di vista del rapporto di responsabilità politica, pure oggetto di censura dai critici del proporzionale, che rimproverano lo svuotamento di tale rapporto generato dalla egemonia del partito: nella logica del collegio uninominale, la ricerca del consenso da parte del rappresentante fa emergere interessi localistici, e il fenomeno delle clientele, antico tarlo della democrazia rappresentativa, da endemico tende a divenire epidemico.
La crisi del rapporto tra elettori ed eletti si aggrava con tutta evidenza quando si consideri non il caso del collegio uninominale, ma quello della lista dei candidati per il cd riparto proporzionale, pari, come si sa, al 25% degli eletti. Rivive lo spettro della lista bloccata: agli elettori è dato solo di determinare il numero dei seggi attribuiti; l’ordine della lista dei candidati di ciascun partito beneficiario del riparto spetta ai dirigenti nazionali del partito stesso, ed è l’ordine degli eletti.

7.Segue: in tema di stabilità nell’esecutivo e della forma di governo in generale
Lo svolgimento delle funzioni della rappresentanza presenta egualmente sintomi e manifestazioni deludenti, sotto il profilo di un bilancio degli ultimi dieci anni. I mali lamentati non scompaiono, e persino si aggravano, considerando ciò che avviene quanto alla forma di governo nei suoi fondamentali più discussi criticamente: la instabilità dell’esecutivo, il rapporto deformato tra governo e parlamento, la capacità degli organi della rappresentanza di assicurare gli equilibri di bilancio, nonché una adeguata tenuta dei procedimenti per le decisioni generali.
La instabilità dell’esecutivo non presenta inversioni di tendenza per effetto del maggioritario. Neppure la longevità del ministero in carica nell’attuale tredicesima legislatura modifica sostanzialmente l’affermazione, poiché è longevità formale, lontana dal corrispondere ad efficienza nell’attuazione dell’indirizzo politico né per quanto concerne il perseguimento degli obiettivi più importanti del programma di governo: ed è significativo che tra le principali cause si debba annoverare un clima disunito nella coalizione maggioritaria.
Stesso ordine di considerazioni caratterizza il rapporto tra governo e parlamento, di cui è sintomatico l’esercizio dei poteri normativi da parte dell’esecutivo. Gli scostamenti dai principi costituzionali della decretazione legislativa d’urgenza non fanno un solo passo per il rientro nel sistema: il tentativo della corte costituzionale operato con la sentenza Cheli di arginare la reiterazione del decreto non convertito, più ormai una consuetudine sostitutiva della norma sulla perentorietà del termine per la conversione che una semplice prassi in deroga, si avvia ad un inarrestabile esaurimento. In più, l’uso della delega oltre i confini fissati dall’articolo 76, da un lato, e il ricorso ad una delegificazione senza principi predeterminati dal legislatore dall’altro, slargano ulteriormente i poteri del governo.
L’intero capitolo del procedimento legislativo sembra in corso di riscrittura secondo lo stesso sparito, come segnalano l’uso invalso dei cd maxiemendamenti, soprattutto nelle ultime due legislature, e la forma che non ha precedenti impressa nell’ultima sessione di bilancio alle deliberazioni sulla legge finanziaria.
Lo scardinamento del sistema costituzionale delle fonti progredisce al punto da indurre gli organi di garanzia ad interventi tanto atipici quanto giustificati, che tuttavia non dispongono della forza sufficiente per arrestare la tendenza. Il fenomeno, oltre a svuotare il principio della riserva di legge, che è basilare della forma di governo, investe negativamente anche il campo delle garanzie per la tutela dei diritti e degli interessi del soggetto privato.

8.Governo, maggioranza e minoranze. La questione della forma di governo
La relazione tra governo e parlamento contiene in sé il tema del rapporto tra governo, maggioranza e minoranze, che è questione di grande importanza poiché investe la qualificazione democratica del regime: quanto si rileva criticamente in argomento è d’altra parte conseguenza diretta, prevedibile e prevista tempestivamente, della riforma elettorale maggioritaria che si è volutamente proceduto a costituzione invariata.
Né si è trattato di una previsione opinabile. La regola maggioritaria priva per la gran parte di significato effettivo gli istituti di garanzia preordinati dalle norme costituzionali e dalle altre fonti materialmente costituzionali, per il fine necessario di preservare un giusto equilibrio tra maggioranza ed opposizione, e per assicurare il rispetto della legalità costituzionale: le forme di tutela poste presuppongono la composizione proporzionale delle camere.
Che qui si annidi un dato di crisi è da molti oggi avvertito. Si discute del cd statuto dell’opposizione, i cui lineamenti sono oggetto di attenzione autorevole e di eccellenti contributi tecnici. Si tratta peraltro di questione di sistema, la cui soluzione, per essere soddisfacente, deve stare nel sistema, e quindi investe la disciplina costituzionale dell’indirizzo politico.
Si tocca pertanto il nodo centrale dei problemi aperti nelle istituzioni repubblicane: la ridefinizione della forma di governo dopo l’avvento del maggioritario.
Tra i principali argomenti critici della polemica referendaria negli anni ’90 si annovera la contestazione della forma che di fatto sarebbe stata assunta dal modello parlamentare, lontana dai lineamenti della Carta del 1948. La contestazione parte dalla critica della partitocrazia, individuata quale causa della degenerazione della forma parlamentare di governo, da cui deriverebbero, tra l’altro, sia la insufficiente capacità di governo e maggioranza di dare attuazione all’indirizzo politico sia la scarsa funzionalità degli organi titolari dell’indirizzo, del potere esecutivo e del potere legislativo.
Il mutamento intervenuto nel 1993 mantiene formalmente la tipologia del governo parlamentare, ma ne altera la coerenza interna, introducendo elementi di presidenzialismo, non tuttavia inseriti in una visione organica. Tenuto conto del fatto che la riforma elettorale è a costituzione invariata, il sistema appare di incerta definizione.
I dubbi si accrescono considerando la prassi, formatasi a partire dal 1994, con l’esordio della undicesima legislatura. Si succedono fasi ed eventi di rilievo dal punto di vista del diritto costituzionale, che si orientano in modo contraddittorio.
In alcuni casi il voto popolare sembra acquistare forza vincolante quanto alla definizione dell’indirizzo, della coalizione parlamentare maggioritaria, della base politica del gabinetto, ed anche quanto alla individuazione del presidente del consiglio (anche grazie alla singolare norma relativa alla indicazione sulla scheda elettorale del nominativo del candidato a tale ufficio per ciascuna coalizione elettorale).
In altri casi si ha l’orientamento opposto, ispirato alla piena continuità con la interpretazione costantemente accolta prima del 1994, fondata sulla esclusiva delle due camere nella determinazione dell’indirizzo e degli atti conseguenti. Nell’una e nell’altra versione, comunque, l’influenza dei partiti, sia i superstiti dopo la crisi del 1993-1994 sia i nuovi sopravvenuti, sembra esercitarsi intatta sulle istituzioni, salvo ad incanalarsi nella duplice rete di relazioni di cui si è fatto cenno, tra i partiti, talvolta chiamati movimenti, nelle coalizioni, ed al loro interno. Ragioni ed argomenti delle critiche mosse in vista ed a sostegno del referendum non ottengono soddisfazione alcuna.

9.Il trasformismo tra Stato monoclasse e sovranità popolare
Completa il quadro di raffronto fin qui tracciato quanto alla forma di governo tra il prima ed il dopo a cavallo del 1993-1994, l’esame del delicato problema della mobilità politica degli eletti, sommariamente denominato trasformismo (o neotrasformismo).
L’inquietante fenomeno, di cui si è dato conto su questa Rivista con la dovuta attenzione, si presenta per la prima volta nella storia costituzionale e politica della Repubblica. Tuttora, la letteratura in argomento appare di poca dimensione, e certo inadeguata agli approfondimenti che sono necessari vista la gravità dei dati. Il fenomeno peraltro è difficilmente riferibile al trasformismo avutosi nell’ordinamento albertino, né sotto il profilo del modello politico né sotto quello del regime costituzionale: asserirne l’affinità è fare del giornalismo.
La mobilità politica degli eletti, e dei gruppi di eletti, muta radicalmente natura e contenuto tra sistema rappresentativo statutario e sistema rappresentativo repubblicano, stante la diversità radicale tra i due regimi. Non può esservi alcuna compatibilità con i principi del regime repubblicano, segnatamente dopo la riforma elettorale maggioritaria: se si ritiene che l’avvento del maggioritario implichi il concorso del voto popolare alla fissazione dell’indirizzo, il che appare incontrovertibile salvo a convenire sul contenuto di tale concorso, perché il voto determina la coalizione maggioritaria e si pronuncia sulla indicazione del futuro premier, la incompatibilità si traduce in contrasto.
La prassi costituzionale costantemente seguìta dopo il 1948, vigente la regola proporzionale, attribuisce al potere fiduciario delle camere la legittimazione esclusiva del governo e la formazione della coalizione di sostegno. I critici della partitocrazia ravvisano in questa prassi il varco, non la causa, tra i più decisivi per l’affermarsi della lamentata egemonia dei partiti sulle istituzioni.
Questa critica è tra le ragioni primarie della iniziativa referendaria, e l’avvento del maggioritario viene presentato come rimedio, in quanto, attribuendo al corpo elettorale la scelta della maggioranza di governo, vincola le forze politiche ad uniformarvisi per la legislatura.
Su tale premessa, la crisi politica della maggioranza espressa dal corpo elettorale può correttamente comporsi dallo stesso corpo elettorale, non grazie a mobilità politica di singoli o gruppi di eletti. Viceversa, nella undicesima e nella dodicesima legislatura, a fronte del fenomeno, si è proseguita inalterata la prassi in atto fino al 1994. In termini di bilancio, anche il fine assegnato al referendum ed alla riforma maggioritaria di sottrarre ai partiti la elusione del vincolo elettorale è andato vanificato.
Se si approfondisce il punto, si ritrova una conferma di quello che è forse il più grave limite dello strumento referendario, nella sua attuale regolazione, che è la sua scarsa vincolatività dell’operato degli organi costituzionali: limite di cui si hanno non secondari riscontri in alcune recenti vicende delle istituzioni repubblicane, per la primaria responsabilità di governo e parlamento, e per l’acquiescenza degli organi costituzionali di garanzia. Il dato si iscrive sul delicato piano della crisi del rapporto tra istituzioni e popolo sovrano, specialmente richiamata acutamente dal presentarsi ripetutamente del fenomeno della mobilità politica.

10.Dalla transizione come provvisorietà alla transizione come regime
Quanto si è richiamato, e le molte altre considerazioni di uguale senso che potrebbero aggiungersi su altri aspetti di ordine generale, se ne fosse spazio e modo, rendono inaccettabile un giudizio positivo sul bilancio del decennio, basato sul raffronto tra ciò che si auspica e si prevede attraverso la iniziativa referendaria, e ciò che invece si è avuto.
Eppure non mancano voci che si levano ostinatamente asserendo ciò che i fatti smentiscono al di là di ogni dubbio. Il fatto è che resta la suggestione di un figurino, ideato e propalato fin dall’inizio della campagna referendaria: la riforma elettorale maggioritaria sarebbe il primo, decisivo passo per abbattere un regime appesantito da difficoltà e contraddizioni, dal “groviglio” che “pressoché inestricabile” soffocherebbe la “Prima Repubblica” (sic!), “caratterizzata dal trasversalismo” (v. a firma dell’ex direttore, “La nostalgia per le guerre fratricide di trent’anni fa”, Corriere della sera del 15 luglio); la riforma, si aggiunge, nascendo da un voto popolare, costringe le istituzioni rappresentative a procedervi (qualcuno dirà che il parlamento scrive la riforma “sotto dettatura”).
Il figurino prosegue con l’ovvia considerazione che la riforma elettorale non è ancora il nuovo sistema riformato: ma a questo si sarebbe giunti subito dopo: senonché, l’implicito rinvio alla legislatura che sarebbe nata con le prime elezioni all’insegna del maggioritario, resta sterile, perché la legislatura, la più breve, al pari di quella che la precede ed è appunto troncata subito dopo l’approvazione della riforma elettorale, tra le legislature repubblicane, sarà anche tra le più tormentate ed inconcludenti.
Da questo figurino discende la lunga attesa della riforma delle istituzioni costituzionali, da farsi nel quadro del maggioritario, che prolunga l’attesa già vissuta nel precedente regime elettorale proporzionale. E prende piede, almeno in un primo tempo, l’idea che il caso italiano sia un caso tipico di transizione costituzionale. Su quest’ultima affermazione è però necessario fare qualche precisazione, disperdere qualche equivoco.
Si parla di transizione, e non di una semplice evoluzione (che presuppone una piena continuità dei principi), perché la natura degli effetti sistemici prodotti dalla riforma elettorale maggioritaria (fonte materialmente costituzionale) a costituzione invariata, è tale da incidere sulla continuità stessa dei principi (si rinvia a quanto osservato ripetutamente e ancora supra in tema di principio garantista, di forma di governo etc.). Del resto, altri sintomi nello svolgimento delle istituzioni confermano la recessione della continuità del sistema.
La transizione tuttavia implica che lo stato del sistema sia contrassegnato dal discostamento dai principi del regime in vigore, e dalla indeterminatezza di quelli relativi al nuovo, che però si dichiara di voler definire e deliberare. E’ inequivocabile infatti che la transizione sia strutturalmente legata alla precarietà.
A dieci anni di distanza dalla riforma elettorale politica in senso maggioritario, da cui trae origine la ipotesi della transizione, tale nozione appare sempre meno applicabile a questa fase delle istituzioni repubblicane. Pur non avendo valore decisivo in sé, il fattore tempo ha un importante significato sintomatico: e, in più, concorre ad escludere la ipotesi il fatto che tuttora manchi del tutto un chiaro e convenuto disegno riformatore organico, idoneo a ricostituire gli interrotti vincoli di coerenza interna del sistema attorno ad un nuovo modello.
Le riforme oscillano tra intenti proclamati, senza però alcun esito convincente neppure sotto il profilo della elaborazione compiuta, e alcuni provvedimenti di revisione limitati a singole parti dell’ordinamento. Tra questi ultimi si ricorda la riforma dell’articolo 111 cd del giusto processo, dal contenuto altamente apprezzabile ed illuminato, ma tuttora privo di attuazione alcuna, neppure parziale, ed il nuovo Titolo V della costituzione, sull’ordinamento regionale dello Stato, largamente essa pure inattuata, i cui confusi contenuti hanno finora generato un elevato contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni, né peraltro suscita incoraggiamento alcuno a dar vita, secondo la dichiarata ambizione della legge cost. N. 3 del 2001 di approvazione, alla riforma federale dello Stato. Anzi …

11.Caratteri attuali del caso italiano. La sopravvenuta incertezza nella legittimazione dell’esecutivo
Il caso italiano in effetti sembra presentare due dati preliminari per una sua classificazione: recede la continuità con il regime costituzionale del 1948, e si manifesta come impropria la ipotesi della transizione, in quanto si è di fronte ad un mutamento di sistema che non si arresta al limite dei principi di regime, in ordine ai quali viceversa si delineano tendenze nettamente innovative.
La crisi del principio di garanzia, di cui si è detto, riduce la rigidità del sistema, essendosi accettata la derogabilità dell’articolo 138, sia pure con leggi costituzionali ad hoc, ed inoltre risultando abbandonata la convenzione, sempre osservata dalla entrata in vigore della Carta, secondo cui la costituzione non può essere modificata con il voto di maggioranze limitate, né, a maggior ragione, della sola maggioranza di governo (che, lo si ricordi, dopo la riforma elettorale maggioritaria, non reca con sé la presunzione di impegnare il consenso della maggioranza assoluta del corpo elettorale).
I rilievi di merito forniscono ulteriori e ancor più convincenti argomenti. Del discostamento prodottosi dai principi di regime in alcuni casi, a cominciare dal citato principio di garanzia, si è detto, ma lo si può ripetere anche per altri, dei quali si avverte la recessione. In particolare questo accade per il principio di eguaglianza materiale, che è il perno dell’intero ordinamento costituito con la Carta del 1948: la figura dello Stato interventista non ha nulla a che fare, nonostante gli sforzi teorici condotti da alcune parti, con la figura di Stato regolatore.
Il mutamento avvenuto in questo decennio investe centralmente la forma di governo attraverso tre cursori: la struttura e le attribuzioni dell’esecutivo, il rapporto tra governo e parlamento, il rapporto tra maggioranza ed opposizione. Lungo ciascuno di essi si ritrova una stessa, costante tendenza istituzionale verso un sistema maggioritario non compensato da regole interne di riequilibrio (come viceversa avviene in ogni sistema su questa tendenza organizzato).
Non la disciplina regolatrice soltanto, come provvede in chiave di razionalizzazione la legge 400 del 1988, ma è la posizione costituzionale dell’esecutivo che muta, alterando i lineamenti della forma di governo, e cambia sensibilmente e stabilmente.
Per ciò che concerne la struttura, l’esecutivo assume un duplice profilo innovativo, in piena sintonia con la tendenza maggioritaria. Da un lato si ha il rafforzamento dell’elemento monocratico, per l’effetto della generale spinta alla personalizzazione del potere assai attiva nell’ordinamento dei pubblici poteri e nel modello politico, nonché della maggiore legittimazione rappresentativa del presidente del consiglio, anche favorita dalla influenza decisiva esercitata sulla politica generale sia sul piano delle relazioni internazionali sia, e in misura crescente, su quello delle relazioni intracomunitarie. Prende corpo, sotto questo profilo, la menzionata, ambigua disposizione sulla indicazione del candidato premier sulla scheda elettorale.
Da un altro lato, in apparente continuità con la prassi repubblicana dei governi di coalizione, il presidente del consiglio esercita il compito di assicurare l’intesa nella maggioranza parlamentare e l’omogeneità dell’azione di gabinetto. In effetti, la versione del modello bipolare affermatasi nel maggioritario, orienta questa funzione tipica diversamente dal passato. Il bipolarismo italiano non dà vita al bipartitismo, e i vincoli di solidarietà delle coalizioni risentono rigidamente della logica elettorale, il che rende assai complesso il compito della reductio ad unum della coalizione maggioritaria, e genera la instabilità come nel passato, sia che si dissimuli nella incapacità di agire di governi unitilmente longevi.
Il premier peraltro non risponde più, e spesso rivendica di non rispondere in ultima istanza, alle camere parlamentari, ma anche, o soprattutto, al corpo elettorale. Seppure il marchingegno della indicazione del suo nome sulla scheda dell’elettore non illustri la cultura giuridica del legislatore, ad esso è agevole rivendicare un contenuto minimo di conferimento popolare della pretesa alla guida del governo.
Se tuttavia il premier può con successo far pesare questa sua maggior rappresentatività, è privo di strumenti efficienti tipici del modello maggioritario, o di altri modelli affini: non dispone del potere di provocare lo scioglimento anticipato, né può revocare i ministri, né di altri mezzi per ridurre all’obbedienza una maggioranza divisa o riottosa. Ne consegue che il capo dell’esecutivo, quando si trovi a prevenire o comporre la crisi della coalizione, è costretto a porre a rischio la sua posizione o la legislatura.
In questi dieci anni prevale la prima opzione, che è il limite principale del rafforzamento del premier. Ciò tuttavia non esclude che si debba considerare legittima l’altra ipotesi. Se, quindi, aperta la crisi della maggioranza, si giunga allo scioglimento anticipato sul presupposto della impossibilità di ricostituirla nella forma politica della coalizione elettorale che la determina, attorno al presidente del consiglio in carica, già indicato sulla scheda elettorale, scartando ogni altra eventuale soluzione, sarebbe opinabile la censura al decreto presidenziale di scioglimento. Il presidente della Repubblica potrà, in questa ipotesi, appellarsi ai principi della legge elettorale maggioritaria, tra i quali rientra il concorso del voto popolare alla scelta dell’indirizzo e della coalizione di governo, ed anche al valore della indicazione del candidato premier, avvalorata da quel medesimo voto popolare.
D’altronde, come è avvenuto, sarà pur sempre sottoposta a critica, che ha argomenti seri, la decisione del presidente di non procedere a scioglimento, ma invece di ricercare e incoraggiare la formazione di un nuovo governo, su coalizione di composizione politica alterata rispetto a quella dello schieramento elettorale maggioritario e con altro presidente del consiglio. La censura, in questa ipotesi, non si muove quanto all’esercizio dei poteri presidenziali in apprezzamento di fatto, che sarebbe censura inammissibile, quanto sulla interpretazione della natura e del contenuto di tali poteri.
La disciplina delle attribuzioni presidenziali in questione si desume dalla ricostruzione sistematica dell’ordinamento, poiché il tenore delle disposizioni costituzionali relative regola solo la titolarità del potere di scioglimento, né il silenzio del contenuto di essi può far concludere nel senso della assoluta arbitrarietà di esercizio. La prassi fino agli anni ’90, e larga parte della letteratura sono in questo senso.
Nella interpretazione sistematica trova ora un suo posto la riforma elettorale maggioritaria, che non può esserne estromessa, poiché interviene a costituzione invariata (contrariamente a quel che ritiene l’opinione di studiosi, e come sembra aver ritenuto il comportamento degli organi costituzionali, malgrado le critiche subìte, in occasione delle crisi politiche della undicesima e della dodicesima legislatura).
Si fronteggiano, così, le due ipotesi ricostruttive delineate, peraltro tali che l’accoglimento dell’una esclude l’altra. Inoltre, optando per una di esse, si assume necessariamente una decisione, motivata in termini di legittimità formale, che tuttavia produce considerevoli effetti politici, promuovendo interessi di una parte a danno dell’altra, come appare indubitabile nel caso in cui la crisi nasce dal trasferirsi di un gruppo originariamente parte della coalizione elettorale maggioritaria, all’opposizione, e, unendosi ad essa, trasforma la maggioranza elettorale in minoranza e viceversa: il mancato scioglimento esclude il corpo elettorale da quel concorso alla scelta dell’indirizzo e della maggioranza di governo cui lo chiama la legge elettorale del 1993, che, come ogni legge elettorale politica, è fonte materialmente costituzionale.
E’ altresì ineluttabile che, su questo piano, sia posta a repentaglio la posizione del presidente della Repubblica nel sistema, e compromesso il suo ruolo di garanzia.

12.Fattori di preminenza del governo sul parlamento
I dati che innovano le attribuzioni del governo si riflettono sul contesto delle relazioni tra esecutivo e legislativo, a detrimento della posizione del parlamento.
La tendenza si fa sensibile a cominciare dal campo dei rapporti esterni dello Stato, secondo la più antica tradizione del regime rappresentativo unitario, che risorge intatta, dopo l’eclisse subìto con la entrata in vigore della Carta del 1948.
Nella congiuntura internazionale avviatasi con la dissoluzione del Patto di Varsavia, e la scomparsa dei regimi comunisti dei suoi ex membri, ciascuno Stato è costretto a rimodulare le linee portanti della propria collocazione nelle relazioni internazionali: ed a maggior ragione questo è inevitabile, per gli scenari aperti dall’11 settembre, per l’intensificarsi dei fenomeni della globalizzazione e per le altre cause generali che concorrono a rendere ancor più epocali gli scenari di cambiamento. Si osserva, per il significato proprio che ciò assume sotto il profilo delle regole del potere e del sistema costituzionale, che scenari di analoghe dimensioni storiche aperti alla fine della seconda guerra mondiale, hanno determinato scelte che il parlamento, nella prima legislatura repubblicana (ma già prima nella Assemblea costituente) ha approfonditamente discusso deliberando le linee generali di indirizzo dello Stato, fissando le opzioni per i sistemi di alleanze e di influenza.
Nell’ultimo decennio, temi di respiro ancor più alto nel campo delle relazioni internazionali non ricevono trattazioni in cui pari, e tempestivo, rilievo sia stato riconosciuto alle camere, impegnate spesso a discutere sul fatto compiuto.
In questa stessa chiave sono tuttora tenute le relazioni intracomunitarie, nelle quali la preminenza del governo è pressoché assoluta. Il dato invero preesiste al mutamento del 1993, e risale alle premesse istitutive dell’Unione, nei cui organi è fissata la prevalenza dei governi rispetto ad ogni altro organo degli Stati membri, nonché, in larga misura, rispetto agli stessi organi comunitari, al cui vertice è un organo composto dai rappresentanti dei governi. Si deve tuttavia tener conto del fatto che la tendenza all’accrescimento dei poteri dell’Unione si è molto accentuata nell’ultimo decennio, da Maastricht in poi, sotto il profilo degli atti di indirizzo, e soprattutto sul piano della produzione degli atti normativi.
Ed è proprio nella formazione delle fonti del diritto che nell’ultimo decennio si registra un rilevante accrescimento dei poteri del governo. Quanto avviene, ancor prima degli anni ’90, in materia di decretazione legislativa d’urgenza, assume peso maggiore, e si estende al campo della delegazione legislativa, nonché alla tecnica della delegificazione e persino allo svolgersi del procedimento legislativo parlamentare.
La casistica è fitta ed univoca. In tema di decreto legge, si va dal caso del provvedimento del governo, appena insediato, che modifica il proprio ordinamento sotto il profilo strutturale ed organizzatorio (malgrado la riserva di legge espressamente prescritta in costituzione con il chiaro intento di chiudere l’annosa vertenza tra governo e parlamento trascinatasi nell’ordinamento statutario, ponendo la esclusiva della fonte legislativa), al fine di accomodare la ripartizione in ministeri alle esigenze della coalizione maggioritaria, al provvedimento del pari con forza di legge che assume a proprio contenuto la parte essenziale del disegno di legge finanziaria e, grazie alla successiva apposizione della questione di fiducia, al fine di restringere al minimo il contenuto dell’atto parlamentare deliberativo della manovra di finanza pubblica.
In tema di delegazione legislativa, viene svuotato lo schema costituzionale dell’articolo 76 della Carta, con l’assegnare ai parametri dei principi e criteri direttivi, che quello schema riserva al legislatore parlamentare per scongiurare il rivivere dell’antica figura della delega in bianco, l’evanescente peso di una clausola di stile. Non solo, ma viene introdotta, senza adeguata reazione critica della dottrina, la tecnica di devolvere all’esecutivo la redazione di interi testi unici di notevole importanza, dissimulando una nuova figura di delega, non vincolata in fatto né tanto meno contenuta nella definizione tassativa dell’articolo 76, e quindi del tutto contrastante con i principi.
Quanto al procedimento legislativo, si ricorre all’espediente di assiemare in un’unica disposizione, in genere nella forma nota correntemente con il termine di maxiemendamento, interi atti normativi, su cui si pone la questione di fiducia: ne sono travolti sia il principio costituzionale che prescrivere la discussione e la deliberazione delle leggi articolo per articolo, e poi nel loro complesso, sia la potestà emendativa del parlamento. Entra nel sistema la figura spuria della votazione cd in blocco.

13.Recessione dell’autonomia ed erosione della indipendenza dell’amministrazione
Il rafforzamento del governo non si limita al piano dei rapporti con il parlamento, ma si estende anche nei confronti dell’amministrazione. Una linea di politica legislativa, promossa nella dodicesima legislatura e proseguita nella tredicesima, apre ampio varco allo spoil system, fissando il principio per cui i titolari di vertici amministrativi possono essere sostituiti entro un termine di tempo dall’insediamento di ogni nuovo governo.
Ne consegue una compressione dell’autonomia e della responsabilità della pubblica amministrazione, prescritte in costituzione, e che solo in tempi recenti ricevono dal legislatore un iniziale riconoscimento, segnatamente con alcune leggi del 1988, sulla presidenza del consiglio, sui principi ordinamentali delle autonomie locali, sul procedimento amministrativo. Malgrado i lodevoli sforzi compiuti dalla giurisdizione amministrativa, rivolti a ridurre i margini di arbitrarietà insiti nel principio, si ricostituisce la supremazia del governo sull’amministrazione.
Né il dato si sovverte nella sostanza quanto alla nuova figura di amministrazione che va sotto il nome di autorità indipendenti. Come ancora di recente devono ammettere i più convinti fautori di tale innovazione istituzionale, non è risolto ancora in modo conforme ai canoni della indipendenza della autorità, che sono canoni indefettibili, il problema della attribuzione del potere di nomina degli organi direttivi di esse. Nella legislazione in materia, cui non è tuttora conferito un assetto organico che ne superi la genesi occasionale, persistono poteri governativi di nomina dei vertici di importanti autorità, in alternativa devoluti ad organi parlamentari, e quindi politici.
La titolarità del potere di nomina degli organi direttivi è il presupposto essenziale della indipendenza di tali soggetti pubblici. La questione non trova soluzione soddisfacente neppure nei testi di riforma costituzionale di cui si discute, ed è significativo che il suggerimento di devolvere il potere di nomina ad organi di garanzia costituzionale suscita l’obiezione che possa così intaccarsi l’indipendenza di chi nomina, anziché assicurarsi l’indipendenza di chi viene nominato.

14.Maggioranza ed opposizione nel nuovo maggioritario
Il tema dei rapporti tra maggioranza ed opposizione affiora a più riprese, ma se ne discute senza alcun risultato pratico, salvo la generale ammissione della necessità di ridurre lo squilibrio introdotto dalla riforma elettorale maggioritaria a costituzione invariata. Lo squilibrio pertanto prosegue, e concorre ai mutamenti intervenuti nel decennio, rafforzando la posizione della maggioranza nel sistema, e deprimendo corrispondentemente quella dell’opposizione. Tra i dati sintomatici più evidenti è il caso del potere di inchiesta parlamentare, tradizionale strumento dell’opposizione per far valere la responsabilità politica diffusa della maggioranza nei confronti della opinione pubblica, e, di riflesso, del corpo elettorale.
La questione è stata già più volte segnalata. Prima degli anni ’90, l’inchiesta parlamentare è generalmente promossa dall’opposizione né la maggioranza ne impedisce la deliberazione, malgrado la relativa disciplina della funzione sia trasposta ut sic, e quindi contraddittoriamente, dalla formulazione originaria di un ordinamento rappresentativo modellato su schema dualista (parlamento versus governo), al regime rappresentativo repubblicano (continuum di governo e maggioranza parlamentare).
Tale regola convenzionale, decisiva per la effettiva tutela dell’opposizione nel sistema politico e costituzionale, viene ora rimossa. Nel trascorso decennio, è la maggioranza che assume la iniziativa dell’inchiesta e ne delibera la attivazione in casi di rilievo, contro l’opposizione. L’inchiesta diviene strumento della maggioranza, e come tale condotta e svolta.
Si è detto del ricorso alla fiducia e del suo effetto di ridurre alla impotenza l’azione di contrasto dell’opposizione, forzando i principi del procedimento legislativo, e per altri fini di analogo tenore, tra i quali peraltro non rientrano certo né l’intento di fronteggiare i pericoli dei franchi tiratori, la cui necessità è da tempo assai ridotta per la riforma che dà priorità al voto palese fatta negli anni ’80, né quello di abbreviare i tempi del procedimento, le cause del cui trascinarsi equamente si spartiscono tra i contrasti nella maggioranza e gli ostruzionismi dell’opposizione, e che comunque si risolve con le norme regolamentari introdotte nella dodicesima legislatura.
Lo squilibrio dei rapporti in favore della maggioranza si rafforza considerando la complessa evoluzione del sistema delle autorità indipendenti, avviate a formare una nuova tipologia di amministrazione, anche oltre l’aspetto esaminato del potere di nomina degli organi direttivi.
Nell’ordinamento delle autorità sembra consolidarsi il principio del distacco funzionale dagli organi dell’indirizzo politico, e in primo luogo dal governo, a parte la nomina dei vertici. Il parlamento, in astratto, detiene una facoltà di intervento nell’esercizio del potere legislativo (tuttavia trattenuto da una sorta di self-restraint, sulla pressione di lobbies e di influenti interessi organizzati, e sulla suggestione di un fondamento costituzionale delle autorità, in quanto garanti di valori protetti, e pertanto soggetti a competenza indefettibile e, appunto, in posizione di indipendenza).
La maggioranza controlla tuttavia in fatto, e pressoché nella totalità dei casi, la nomina degli organi direttivi delle autorità, e perciò esercita una larga influenza su di esse, che tra l’altro sono dotate di accentuate facoltà di autoregolazione. Il rapporto di influenza tra maggioranza ed autorità si colloca in un quadro segnato dal “divorzio” tra questi enti e gli organi costituzionali dell’esecutivo.
Si determina pertanto un’area di ampio spettro e notevole rilevanza materiale, in cui l’azione amministrativa si sottrae ad ogni profilo di responsabilità politica: il potere permane, ma non risponde per il suo esercizio. All’opposizione è riservata una possibile partecipazione di minoranza.
La innovazione delle autorità indipendenti precede il mutamento degli anni ’90, e però ne rafforza il significato, sotto il profilo di uno speciale, ulteriore rafforzamento del principio maggioritario. Si aggiunge un’osservazione: la esigenza di prestare la cd copertura costituzionale alle autorità, con cui evidentemente si ammette che ad oggi manca, pur condivisa anche dai più convinti assertori di tale figura, risulta inappagata, malgrado la instaurazione del sistema elettorale maggioritario, che avrebbe peraltro richiesto con più ragione di risolvere il problema del potere di nomina, che è il primo punto dell’agenda della “copertura costituzionale”.

15.Lo statuto dell’opposizione: una formula divenuta ambigua
Sulla premessa delle considerazioni da ultimo svolte, il tema dei rapporti tra maggioranza ed opposizione, centrale nell’assetto della forma di governo e vitale per la qualificazione democratica del sistema, non può restringersi nei confini cui si tende a ridurlo con l’uso improprio della formula dello statuto dell’opposizione.
La questione tocca certamente gli ordinamenti interni delle camere parlamentari, ma, ed è qui che si annida l’uso improprio, non si può fermare ad essi. Tanto è vero che le più recenti riforme dei regolamenti parlamentari nella dodicesima legislatura, mostrano di fatto una inclinazione ad assecondare il rafforzamento della posizione e degli strumenti della maggioranza, in omaggio all’abusata altra formula della democrazia decidente, piuttosto che la ricomposizione delle garazie per l’opposizione.
Come si è detto, il tema è parte centrale dell’ordinamento della forma di governo, ed impegna il principio democratico nel regime costituzionale: esso deve essere impostato e può essere risolto solo a questo livello. Ciò implica la necessità della ridefinizione tipologica della forma di governo nel caso italiano, delineatasi in questi dieci anni.
Che vi sia un tasso insufficiente di coerenza interna del sistema in un punto nevralgico dell’ordinamento costituzionale quale è la forma di governo, è peraltro sintomaticamente segnalato dal moltiplicarsi di dati di crisi nel rapporto tra maggioranza ed opposizione, che mette conto di ricordare per sommi capi.
Si è ricordato che la riforma del regionalismo con un nuovo testo del titolo V, parte II, della costituzione viene approvata negli ultimi giorni della dodicesima legislatura con i voti della sola maggioranza di governo, per un ridottissimo scarto, e in un clima di contrasti segnato dall’abbandono dell’assemblea da parte dei parlamentari dell’opposizione. L’episodio, cui peraltro fa sèguito il singolare duplice ricorso al referendum confermativo per iniziative distinte e parallele dei due schieramenti, che è stato già ricordato per altri profili, non è isolato. La frattura tra maggioranza ed opposizione, che si spinge fino all’abbandono dell’aula e alla non partecipazione al voto della minoranza, è frequente, ben oltre quanto può accadere in un qualsiasi regime rappresentativo, nel quale vi si ricorre solo in casi di eccezionale gravità, soprattutto al fine di sollecitare l’attenzione critica dell’opinione pubblica. Il rilevante intensificarsi del fenomeno è certamente indice di crisi patologica dei rapporti tra le parti politiche.
Da questo stato di crisi, insorto a partire dall’avvento del maggioritario, il sistema si mostra incapace di uscire. Nelle ultime tre legislature la questione dello statuto dell’opposizione viene sollevata secondo l’alternarsi di ciascun schieramento politico elettorale alla guida del governo. I comportamenti tenuti ieri sono argomenti per censurare nell’oggi la mancata soluzione del problema e lamentarne le conseguenze: l’opposizione sollecita la definizione delle garanzie per la sua tutela, all’indomani del suo essere maggioranza, nella cui posizione essa stessa ha mancato di procedervi, e viceversa.
In tale quadro, la figura neutrale degli organi di garanzia è messa talvolta a dura prova, stretta tra censure inopportune e pressioni altrettanto improprie: merita segnalare che da qualche parte si giunge, per la prima volta nello svolgimento delle istituzioni repubblicane, ad adombrare lo scivolamento politico della corte costituzionale.

16.Elementi innovativi del regime: la recessione del principio garantista e la recessione della rigidità del sistema
I dati messi in evidenza non sono eccezionali, ma si presentano come durevoli, confermandosi nel mutare di maggioranze e formule politiche succedutesi nel decennio: sembrano avere quindi valore sintomatico di innovazioni stabili dell’ordinamento costituzionale. Se, peraltro, ciò implichi un processo in atto di mutamento del regime, opinione alla quale ci sentiamo di accedere, o invece ci si contenga entro una tacita e profonda evoluzione del sistema, compatibile con la sua continuità, è questione teorica che per l’ordine delle considerazioni che si svolgono può restare impregiudicata, limitando l’analisi al raffronto obiettivo tra il prima ed il dopo l’avvento del maggioritario.
Il primo dato discende dalla introduzione del principio maggioritario in un ordinamento che non costituzionalizza l’opposto principio proporzionalistico, ma lo presuppone. Si apre il varco a due conseguenze potenziali: può mutare la posizione dei principi la cui effettività è affidata dal costituente del 1948 a tale presupposizione, e anche possono mutare i parametri della interpretazione sistemica dell’ordinamento, se si accoglie la tesi che colloca la legge elettorale politica tra le fonti materialmente costituzionali.
Sotto il primo profilo risulta una alterazione della disciplina positiva del principio garantista (che è sicuramente principio di regime), in quanto è fondata in modo essenziale sulla presupposizione della composizione proporzionale delle camere parlamentari. Ciò è evidente in diversi aspetti che riguardano la formazione degli organi costituzionali di garanzia, presidente della Repubblica e corte, ordinata affidando al quorum aggravato per le relative deliberazioni parlamentari, dalla elezione del presidente e di cinque giudici, ai provvedimenti relativi alla messa in stato d’accusa del presidente, la fissazione delle regole idonee ad assicurare autonomia ed indipendenza, ed estraneità agli interessi delle parti politiche, di tali organi di garanzia.
Si deve ricordare che la prassi repubblicana conferma, in generale, l’efficacia di tale ricorso al quorum aggravato. In particolare, nella elezione del presidente della Repubblica non ha successo la candidatura avanzata da maggioranze di governo, salvo il caso della prima elezione: se avanzata, una simile candidatura viene ritirata, o, neppure essendo avanzata, si fa luogo ad elezione largamente convenuta, con i concorsi di gruppi della maggioranza e della opposizione. Né la elezione dei giudici della corte contraddice la tendenza.
Non meno significativo è quanto si rileva riguardo alla funzione di revisione costituzionale, che il costituente regola ispirandosi allo stesso principio, e facendo ricorso allo stesso mezzo. Per la valida deliberazione degli atti di revisione si ricorre due volte al quorum aggravato: la prima fissando il quorum minimo della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, al fine di rendere arduo l’obiettivo di una maggioranza politica di modificare la costituzione contro la volontà delle minoranze, la seconda volta, quando pure l’obiettivo fosse raggiunto, attribuendo all’opposizione la facoltà di appellarsi al corpo elettorale provocando il referendum confermativo (facoltà che non può essere esercitata se nella votazione di ciascuna camera i voti favorevoli raggiungono la soglia dei due terzi dei rispettivi componenti: il che rafforza il senso delle considerazioni fatte).
Il rapporto tra quorum aggravati, o qualificati, e principio garantista riceve ancora altri riscontri significativi, ad esempio in tema di ammissibilità della mozione di sfiducia, di disciplina del procedimento legislativo, di altri atti rilevanti dell’ordinamento delle camere parlamentari.
Lo svuotamento parziale ma consistente del valore del quorum (aggravato o qualificato), al fine di dare attuazione effettiva al principio garantista, ed alla tutela del pluralismo politico, derivante dall’aver introdotto la riforma elettorale maggioritaria a costituzione invariata, reca un ulteriore motivo di riflessione, da cui emerge un secondo dato.
Si è di fronte ad una tecnica di aggiramento della rigidità del sistema: da un lato si innova la disciplina elettorale politica, da un altro lato, lasciando intatto formalmente l’insieme delle disposizioni costituzionali relative al principio garantista, che è principio di regime, si ottiene l’effetto di innovare l’ordinamento costituzionale in parti assai delicate.
Eppure la corte ammonisce della intangibilità dei principi di regime, ed esclude che possano sottoporsi al procedimento di revisione. A questo insegnamento si aggiunge l’inserimento, sempre ad opera della corte, tra i cd limiti ulteriori alla ammissibilità del referendum abrogativo ordinario dei provvedimenti necessari per il funzionamento degli organi costituzionali: a maggior ragione si deve presumere che non possano ritenersi estranee a quella categoria quelle disposizioni che intaccano la posizione nel sistema degli organi costituzionali.

17.Segue. La espansione del principio maggioritario, e le sue contraddizioni
Un terzo dato, che imprime un distinto carattere innovativo all’ordinamento, è costituito dalla forte espansione del principio maggioritario. Se ne colgono le più evidenti manifestazioni su di un triplice piano: la legittimazione del governo, il regime dei mezzi per l’attuazione dell’indirizzo politico maggioritario, l’ordinamento di funzioni ed istituti elaborati nella teoria dello Stato democratico contemporaneo perché freni e contrappesi assicurino la convivenza tra regola di maggioranza e Stato di diritto.
Il governo, nel trascorso decennio, sempre più si richiama alla investitura popolare quale fonte primaria della propria legittimazione. Questo rapporto di investitura tra corpo elettorale ed esecutivo viene, in questo richiamarsi, ritenuto sovraordinato al rapporto fiduciario con le camere parlamentari, e non solo per la legittimazione politica del gabinetto, ma anche sotto il più generale profilo della responsabilità politica.
Una conferma della tendenza, che ne precisa anche il senso, è fornita dall’uso della questione di fiducia. Come si è ricordato, sono scomparse alcune delle principali ragioni che ne determinano il ricorso fino alla riforma delle modalità di voto nelle assemblee parlamentari, ed altre, pure rientranti nelle tecniche dei procedimenti parlamentari, sono assai meno importanti di un tempo.
Si colgono alcune significative novità nell’uso politico della questione di fiducia, nel quale, che sia rivolto a sedare contrasti nella maggioranza oppure ad altri fini di analoga natura, appare centrale una specifica rivendicazione di maggior rappresentatività da parte del presidente del consiglio.
In parte si tratta di un riflesso della personalizzazione del potere, con la esaltazione dell’elemento monocratico del governo rispetto a quello collegiale, di cui si è detto; in parte, il ricorso alla fiducia sembra fondarsi sulla rivendicazione della maggiore rappresentatività del premier sul presupposto di una sorta di investitura popolare diretta.
Del resto, che questa pretesa corrisponda ad una tendenza effettivamente in atto, viene confermato dalle proposte relative al cd premierato, insistentemente avanzate nel quadro del progetto di riforma della costituzione in corso di deliberazione nella attuale tredicesima legislatura, che perfezionano la surrettizia anticipazione della più volte ricordata indicazione del nominativo del candidato premier sulla scheda elettorale. Il poco brillante neologismo riassume l’orientamento di politica istituzionale diretto a regolare esplicitamente il rafforzamento della figura e della posizione costituzionale del capo dell’esecutivo, sia nei poteri sia nella investitura, riducendo ai margini i residui tratti della forma parlamentare di governo.
La espansione del principio maggioritario si estende in tutti i campi delle attribuzioni dell’esecutivo, e nei rapporti tra esecutivo ed altri poteri, dal sistema delle fonti alla condotta nelle relazioni internazionali, e intracomunitarie, dalle politiche di bilancio alla finanza pubblica, compresa quella delle autonomie locali.
Ciò produce una contraddizione di sistema, considerando il modello politico. La tendenza alla concentrazione del potere nella figura del presidente del consiglio è netta, e però incompiuta, poiché l’elemento collegiale del governo, pur ridotto di peso, tuttavia sopravvive, perché sono formalmente intatte le disposizioni sull’organo costituzionale del potere esecutivo, e per altre ragioni, più decisive.
Malgrado l’avvento del maggioritario, il bipolarismo italiano non dà segno alcuno di trasformarsi in bipartitismo. La pluralità dei soggetti politici che continua a segnare la composizione delle coalizioni, conferisce tuttora valida esistenza all’elemento collegiale nella struttura costituzionale del governo, seppure entro confini ridotti.
Non sembrano esservi regole certe per risolvere le crisi eventualmente generale dalla tensione tra i due elementi, il monocratico di crescente peso e il collegiale che si è indebolito. Può non bastare la pretesa del presidente del consiglio ad una maggiore rappresentatività, e quindi non essergli riconosciuta la forza politica sufficiente per risolvere la crisi, e, in questa ipotesi, ripristinarsi lo schema dei governi di coalizione del regime proporzionalistico. Ma può anche avvenire il contrario.
E’ notevole che la crisi dell’esecutivo, nelle ultime tre legislature, assuma configurazioni disparate, pur essendo la casistica limitata. Nella undicesima legislatura, durata neppure un biennio intero, si apre una sola crisi per la rottura della coalizione maggioritaria (peraltro a struttura atipica), cui fa sèguito un governo promosso e sostenuto dal presidente della repubblica, che peraltro assume, nel breve tempo in cui resta in carica, connotati politici.
Nella dodicesima legislatura si hanno tre governi. Il primo, formato sulla coalizione elettorale maggioritaria, è colpito da un voto sulla fiducia, chiesta dal presidente del consiglio dopo il distacco di un gruppo parlamentare dalla coalizione di sostegno. Il secondo governo si forma acquisendo l’appoggio di un gruppo che si trasferisce dalla opposizione, della quale ha fatto parte in quanto componente della coalizione elettorale minoritaria, il quale gruppo fornisce i voti necessari per la fiducia, sostitutivi di quelli venuti meno: cambia il presidente del consiglio, ed al posto del leader uscente, a suo tempo indicato agli elettori, succede il segretario del partito più forte della (nuova) coalizione maggioritaria.
La seconda crisi è aperta dalle dimissioni del presidente del consiglio, motivate dalla sconfitta patita alle elezioni regionali (2000) dalla maggioranza di governo. La crisi pertanto sembra abbandonare la logica istituzionale osservata nella precedente crisi, poiché il presidente del consiglio rimette il mandato, per non aver raccolto quel consenso elettorale da lui stesso espressamente richiesto, ad implicita convalida della decisione di assumere la guida del governo, pur non essendo stato preventivamente sottoposto al vaglio del corpo elettorale, ed essendo stato composto il governo su di una coalizione parlamentare diversa dalla coalizione elettorale maggioritaria.
Obiettivamente così sembra debba definirsi il passaggio dal governo D’Alema al governo Amato, terzo ed ultimo gabinetto della dodicesima legislatura, apertasi con la nomina del governo Prodi.
Non si può escludere, naturalmente, che ragioni più nell’immediato connesse ai nuovi meccanismi del modello politico concorrano sia a spingere il presidente del consiglio ad attribuire quel particolare significato di convalida ex post al voto degli elettori per la elezione dei consigli regionali, sia ad indurlo a dimettersi dopo il deludente responso. Resta comunque il dato dell’uno e dell’altro comportamento sul piano del diritto costituzionale positivo. Tanto più pesa questo dato sotto il profilo formale, che non vi è traccia di precedenti nella pregressa prassi repubblicana: né quanto alla lettura politica dei risultati di consultazioni elettorali amministrative, preventivamente dichiarata dai governi in vita del loro svolgimento, né quanto alle conseguenze da trarne se il risultato sarà negativo (tra l’altro, come risulta dagli studi statistici in questa materia, le elezioni amministrative tendono a dare risultati non favorevoli alle compagini governative in carica).
Nella tredicesima legislatura repubblicana non si hanno crisi di governo fino ad ora, quando è trascorsa più della metà del mandato. La composizione del governo subisce una pluralità di cambiamenti, o minirimpasti, che nell’insieme peraltro alterano sensibilmente la struttura dell’esecutivo, poiché muta la titolarità, tra gli altri, dei dicasteri chiave degli esteri, dell’interno, dell’economia. Risalta, nel contesto di tale governo cui spetta la maggiore longevità tra quelli repubblicani, la crescita di influenza del presidente del consiglio, contrapposta all’appannamento della figura di organo costituzionale del ministro.

18.Elementi di atipicità della forma di governo
Emerge un quarto carattere della evoluzione (o mutamento) del sistema costituzionale, che è la atipicità della forma di governo.
Tale, in particolare appare l’approdo cui si perviene partendo dall’avvento del maggioritario a costituzione invariata, e al doppio ordine di fonti che ne consegue: coesistono da un lato le disposizioni scritte e dall’altro fonti materialmente costituzionali, ed altre fonti non scritte, che danno vita ad una disciplina mista della forma di governo.
Le prime conservano l’assetto preesistente della forma parlamentare, dall’altro le seconde innestano elementi di una tipologia diversa, che si ispira alla forma presidenziale. Diversamente dai casi più noti del tipo misto, o semipresidenziale, mancano regole univoche e certe per definire la reciproca relazione tra i due elementi contrapposti, e conseguentemente si abbassa il livello di legalità nei modi di comporre i contrasti, e determinare le opzioni volta per volta delineatesi.
Un primo riscontro di ciò, rilevabile nella prassi del decennio, è offerto dalla crisi del primo governo della undicesima legislatura, che è sintomatico. Sulla composizione della crisi è aperta una discussione tra gli studiosi, e si sono sollevate vivaci obiezioni nella sede parlamentare e politica.
Si è ricordato il modo in cui si è aperta la crisi, sulla frattura delle alleanze elettorali (atipiche, come si è detto, poiché territorialmente differenziate tra collegi del Nord e collegi del Centro Sud, avendo lo stesso partito, poi risultato nel voto di maggioranza relativa, alleati diversi, per ciascuna di tali grandi aree), e il modo in cui si è risolta, su di un altro schieramento maggioritario, diverso da quello presentato, nelle due distinte versioni, al voto degli elettori. Il presidente della Repubblica non accoglie le sollecitazioni per lo scioglimento anticipato, e promuove la formazione di un governo inizialmente del tipo tecnico, o presidenziale, e poi in sèguito sempre più connotato politicamente.
Altri episodi si verificano, il cui esito non viene generalmente condiviso, perché nel contrasto tra fonti, la interpretazione accolta è confutata con argomenti non meno consistenti di quelli che la giustificano. Ed è notevole che, spesso, le dispute finiscano con l’investire l’operato del presidente della Repubblica, organo di garanzia costituzionale che, per la sua posizione ed il ruolo che svolge, si trova a dover sciogliere con proprie decisioni i nodi volta per volta stretti.
Non vi è dubbio che, in forza delle disposizioni costituzionali e della prassi, almeno fino al 1994, la fonte di legittimazione del governo sia la fiducia politica delle camere parlamentari, né che lo sia in via esclusiva. Il presidente della Repubblica non agisce sul merito politico, ma è solo tenuto a perseguire il fine di nominare il governo che la fiducia riceva. Il presidente scioglie il parlamento se constata che questo fine non è raggiungibile, e in nessun altro caso.
Non ha minor forza peraltro l’argomento che scaturisce dal contenuto del voto popolare dopo la riforma maggioritaria. Secondo la nuova disciplina, l’elettore non è chiamato solo ad esercitare il suo diritto di concorrere alla elezione dei rappresentati, esprimendo contestualmente la sua preferenza politica, ma anche di concorrere a determinare la coalizione maggioritaria. In un regime tuttora formalmente ordinato alla forma parlamentare di governo e non a quella presidenziale ciò non implica la cancellazione del potere di ciascuna camera di costituire e risolvere, assumendosene la responsabilità politica, la legittimazione del governo, votando sulla fiducia.
Non è così, tuttavia, quanto alla legittimazione di un indirizzo politico diverso da quello sottoposto agli elettori e che ne riscuote il consenso risultato maggioritario, né, per quanto si è osservato, quanto alla nomina di un presidente del consiglio diverso da quello indicato, la cui pre-candidatura segua le sorti positive del voto. Su tale premessa appare fondato il rilievo critico mosso alla opzione presidenziale nella crisi della undicesima legislatura, che esclude lo scioglimento, tenuto conto del principio della sovranità popolare, dalla sua concretezza ed effettività, e del principio ispiratore della legge elettorale politica maggioritaria.

19.Alcune riflessioni conclusive: quale ordinamento, in quale sistema?
Riassumendo i caratteri che si sono enucleati che sembrano qualificare l’ordinamento nell’ultimo decennio, appare opportuno aggiungere un dato che riguarda il sistema delle fonti, e che si collega con coerenza a quei caratteri.
Nel campo delle fonti, come si è ricordato, si notano fenomeni, in larga misura per la verità già in atto da tempo ma che subiscono una accelerazione notevole e si radicalizzano: un diffuso declino della codificazione, con la contestuale erosione del principio della riserva di legge, la espansione delle fonti non scritte, e, soprattutto, una tendenza al policentrismo normativo, anche a detrimento delle attribuzioni degli organi rappresentativi nella formazione delle fonti.
In tale quadro si colloca il processo del decentramento politico dello Stato (il cd avvio al federalismo), che compie un primo passo formale con la riforma costituzionale del 2001 sul nuovo regionalismo. La legge costituzionale n.3 del 2001, nella materia delle fonti, detta regole e principi sulla distribuzione delle competenze tra Stato, regioni ed autonomie locali il cui grado di incertezza è segnalato criticamente dalla letteratura, e comprovato dalle difficoltà di attuazione da un lato, e dal delinearsi di un contenzioso di legittimità costituzionale copioso tanto da far prevedere che, per una ingente parte, la riforma in effetti sarà riscritta dalla corte, e dal legislatore ordinario.
Il processo del decentramento politico rende pertanto ancora più complesso l’ordinamento delle fonti, e ne allontana ulteriormente i principi regolatori dai livelli necessari di certezza. Si deve osservare che le regioni stesse, all’esordio dell’esercizio dei nuovi poteri riconosciuti nel 2001, seguono le tendenze osservate in generale in materia, il che costituisce una convincente riprova che si tratta di un fenomeno di indole strutturale dell’ordinamento, sempre più distaccato dai lineamenti fin qui propri del sistema delle fonti normative.
Una conseguenza immediata si avverte sulle attribuzioni effettivamente esercitate dalla giurisdizione e dall’amministrazione. In particolare è del tutto comprensibile che, anche tenuto conto del carattere acuto della crisi della giustizia e dei conflitti che ne sono generati, si apra un ampio spazio per l’assunzione da parte degli organi giurisdizionali di poteri di apprezzamento e selezione di valori, che sarebbero riservati alla normazione. Dal lato teorico si avvertono sviluppi coerenti nella ridefinizione della interpretazione della norma giuridica, che pongono, con seri argomenti critici, una base di dottrina generale alla crisi della codificazione.
Si assiste al fiorire, e rifiorire, di importanti contributi sulla qualificazione del sistema nell’ambito di common law, che alcuni non esitano ad asserire come naturale corollario di una democrazia sostanziale e compiuta. A queste vedute si può naturalmente obiettare, e le obiezioni sono a loro volta opinabili. Certo però è che la contestuale presenza nel sistema positivo di un principio regolatore generale che ne fa un caso di civil law, e di pulsioni, e mutamenti formalizzati che parzialmente lo indirizzano verso le sponde del diritto comune, produce il solo effetto concreto ed attuale di tenere il sistema a mezza via, facendo sfiorire molte delle conquiste che sono proprie del moderno concetto di Stato di diritto.
Su di un piano diverso, ma in rapporto assai affine a quello della giurisdizione comune di causa ed effetto, i mutamenti nel sistema normativo agiscono sulla giurisdizione costituzionale. Dalla corte, negli ultimi anni, vengono orientamenti e decisioni che oscillano tra profili e didascalici, sentenze che talvolta sembrano tese a rifare le leggi, messe in mora del legislatore, letture di aggiornamento interpretativo delle stesse norme costituzionali.
A ciò non sfugge neppure la legislazione costituzionale, come indica il caso, appena ricordato, della riforma del Titolo V. La legge n.3 del 2001 dà vita ad una disciplina delle competenze regionali che è punteggiata di rinvii taciti alla identificazione dei confini che le separano da quelle dello Stato (e non solo, perché esiste anche il tema della delimitazione delle competenze rispetto a quelle delle altre autonomie territoriali, secondo la solenne enunciazione del 2001 poste sullo stesso piano dello Stato e delle regioni tra i soggetti che compongono la Repubblica: pur se questo tema, potenzialmente assai pregnante è finora restato in ombra).
Ne deriva non solo il ricordato, nutrito affaticamento del contenzioso di legittimità, ma anche l’effetto di costringere la corte, contro il suo stesso avviso, di fissare essa regole e principi che il legislatore costituzionale avrebbe dovuto fare, e non ha fatto.
Quanto all’amministrazione, basterà richiamare il potere regolatore delle autorità indipendenti, che spesso si inoltra nel campo del potere normativo primario, per dare il senso del fenomeno, di cui si annotano altre manifestazioni, come nel campo della delegificazione, ed anche nelle nuove tipologie dell’atto legislativo, che assume in alcuni recenti casi la figura di atto legislativo, di legge provvedimento, e di atto di delegificazione, che autorizza e indirizza l’attuazione convenzionale della legge, tra poteri dello Stato e poteri delle regioni, tra pubblico e privato.
In sintesi, nel regime transitorio, o, se si preferisce nella transizione che l’ordinamento attraversa, i caratteri che emergono restano legati a fattori di crisi, o di recessione sensibile, dei valori sui quali l’ordinamento del 1948 è stato in precedenza radicato: lo Stato di diritto, la certezza del diritto, e di riflesso il principio di legalità; a ciò consegue atipicità nella forma di Stato e nella forma di governo. Ma il deficit di coerenza interna è limitato all’ordinamento, o va oltre esso, toccando la tipologia dell’ordinamento?
L’interrogativo apre una riflessione che né qui, né forse ora, è possibile neppure impostare. Qualche considerazione preliminare può essere tuttavia tentata.
E’ nostra convinzione che la crisi aperta nelle istituzioni repubblicane nasce e si proietta dalla crisi della costituzione materiale dello Stato. I soggetti e gli equilibri della costituzione materiale già da tempo hanno subito mutazioni, generando i primi elementi di instabilità del sistema, e di disfunzione del modello politico dei partiti. Questi fattori di scompenso si polarizzano e si coagulano nella promozione del referendum elettorale e nella nuova disciplina maggioritaria per le elezioni politiche, e per la modulazione in senso presidenziale della forma di governo delle regioni e delle altre autonomie territoriali. Questa è la prima premessa, il dato di fatto, da cui partire per sciogliere l’interrogativo sulla tipologia di sistema alla quale si orienta l’ordinamento.
L’analisi dei mutamenti in atto nella costituzione materiale farà emergere quanto sia attendibile, e in che forme avvenga, la ipotesi dell’ingresso in essa di soggetti sociali portatori di interessi organizzati, e potrà accertare in quali modi si abbia la rimodulazione ideologica e politica dei soggetti che ne hanno fatto parte da prima, e continuano ad esservi, e in che senso possa dirsi che se ne sia mantenuta la caratteristica della politicità; quali siano i mezzi e le regole per la formazione del consenso attivi e decisivi in una democrazia rappresentativa organizzata attorno al principio maggioritario ed alla personalizzazione del potere; quali contenuti e quali istituti debbano essere non che riveduti, ma soprattutto creati, per ricostituire garanzie ed equilibri, da cui solo dipende pluralismo politico, consenso diffuso verso le istituzioni, ed effettiva qualificazione democratica.
La risposta al quesito sulla tipologia di sistema cui l’ordinamento accede nel suo mutare potrà essere data una volta che questa analisi sia compiuta in tutte le sue parti.

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