Riflessioni sul decennio costituzionale 1993/2003*


1. L’avvio del dibattito sulla riforma della Costituzione precede certamente il periodo indicato come punto di riferimento per questo incontro. Solo per memoria, ricordo come in realtà esso cominci ad apparire nell’agenda politica fin dai primi anni ’80, preceduto da una già allora consistente discussione in sede scientifica: si passa così dal c.d. decalogo Spadolini ( 1982 ), alla costituzione ( 1983 ) dei due comitati parlamentari presieduti da Ritz e Bonifacio, i cui lavori si concludono con la predisposizione di una sorta di inventario dei problemi più rilevanti da affrontare in chiave riformatrice , alla costituzione della prima bicamerale , guidata da Bozzi ( 1984/1985), alla costituzione della seconda bicamerale, guidata da Iotti e De Mita (1992/1994), cui poi seguirà la terza bicamerale, presieduta da D’Alema ( 1995/1997), per arrivare alle più recenti proposte in discussione in Parlamento.
Un primo interrogativo che ci si può porre riguarda le cause di una così lunga transizione costituzionale, caratterizzata non soltanto dai tentativi non approdati ad alcun risultato, ma anche a riforme realizzate ( alludo soprattutto alla riforma, operata dalle leggi costituzionali nn.1/1999 e 3/2001, del Titolo V della Costituzione). Enzo Cheli, in un saggio di alcuni anni fa (La riforma mancata, Bologna, Il Mulino, 2000 ) legava tali cause a tre fattori: innanzitutto alle difficoltà dovute al “paradosso” della coincidenza soggettiva tra riformatori e riformati; in secondo luogo al permanere di una forte frammentazione del nostro sistema politico-partitico; infine, alla scarsa tensione sociale verso il tema delle riforme istituzionali.
A queste cause, mi pare che oggi un’altra se ne possa aggiungere, rappresentata dal mutamento di segno, di obiettivi che ha assunto il dibattito sulla Costituzione e la sua eventuale modifica.
Se guardiamo, infatti, alle vicende che ci stanno alle spalle, credo che nello sviluppo di questo dibattito si sia determinata una svolta in seguito al precipitare della crisi dei partiti “storici” che si produce agli inizi degli anni ’90 e al conseguente mutamento del sistema nostro sistema elettorale ( inteso nelle sue varie articolazioni). Una svolta che si registra in ordine a tre diversi profili: innanzitutto, ai problemi per così dire vecchi altri se ne aggiungono; in secondo luogo, i vecchi problemi cambiano di significato, con conseguente rapida obsolescenza delle soluzioni che sino ad allora erano state proposte per risolverli; in terzo luogo, come ebbe ad osservare Valerio Onida, La forma di governo, in R.Cardini e P.Caretti ( a cura di), Riformare la Costituzione?, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 27 ss.), la progressiva e sempre più marcata divaricazione tra una impostazione strettamente funzionalistica della riforma e una visione invece palingenetica della stessa.
Quanto ai problemi nuovi, si pensi all’esigenza di ripensare il sistema delle garanzie alla luce del passaggio dal proporzionale al maggioritario ( con riferimento non solo al ruolo dell’opposizione, ma alle maggioranze qualificate previste per l’elezione di fondamentali organi di garanzia o per l’esercizio della funzione di revisione costituzionale); ovvero tema dell’assetto dei rapporti tra Governo e Parlamento, non più visto solo sul versante della predisposizione di maggiori poteri dell’Esecutivo nell’ambito dei lavori assembleari, ma che ora si allarga fino ad investire la stessa legittimazione dell’uno e dell’altro organo e spinge ad una ridefinizione assai più complessa dei rispettivi ruoli; ovvero ancora alla discussione relativa al rapporto tra Stato e autonomie regionali e locali che tende ad abbandonare la linea volta ad una razionalizzazione di un modello di Stato regionale, disegnato non senza lacune ed incongruenze dal Costituente del 1948 per orientarsi verso una improbabile e confusa ricerca di un modello federale.
Quanto al secondo profilo, si pensi al di battito sulla c.d. governabilità, impostato sul presupposto di un eccesso di poteri di freno e di contrappesi presenti nel disegno costituzionale originario, che aveva finito per privilegiare il momento del confronto a danno di quello della decisione; un dibattito che invece l’introduzione del sistema maggioritario in qualche misura ribalta. Si pensi, inoltre, alle proposte di riforma, per gli aspetti relativi alla forma di governo, che muovevano dall’idea che essa fosse troppo calibrata su un sistema proporzionale e dunque foriera di forme perniciose di confusione nei rapporti tra maggioranza e opposizione, con conseguente appannamento del regime delle responsabilità politiche e alle proposte volte ad introdurre una più netta distinzione non solo tra maggioranza e opposizione, ma tra i ruoli rispettivi di Governo e Parlamento: anche a questo riguardo, l’introduzione del maggioritario, mentre ha chiuso l’epoca del c.d. consociativismo, ha di fatto precluso anche ogni diversa forma di collaborazione, facendo emergere con sempre maggiore evidenza che il problema di ridefinire i rapporti tra maggioranza e opposizione non può esaurirsi nella definizione del c.d. statuto delle opposizioni, ma richiede anche quello di ricostruire su nuove basi un tessuto collaborativo che appare indispensabile per la stessa funzionalità della forma di governo, nei suoi profili decisionali. Si pensi, ancora, alla necessaria rilettura del tema dell’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, cui induce la crisi di legittimazione che ha li ha investiti e lo stato di debolezza in cui essi oggi versano.
E tuttavia, sin qui, quelli segnalati sono mutamenti di contesto che avrebbero potuto spingere verso una diversa taratura delle proposte di riforma più risalenti, nella logica di dotare di una maggiore funzionalità il sistema complessivo. Ma la vera svolta, mi pare che si sia determinata, ad un certo punto, quando il tema delle riforme istituzionali si incrocia con quello della rilegittimazione del quadro politico-partitico venutosi a determinare dopo la grande crisi degli inizi degli anni ’90. E’ in seguito a questo intreccio che la riforma assume sempre più chiaramente il suo significato “palingenetico”, ossia di strumento di nuova legittimazione dei partiti nei loro reciproci rapporti ( è il terzo profilo che segnalavo all’inizio). Si spiega così l’emergere dell’idea, per l’innanzi nemmeno accennata, di istituire un’assemblea costituente, le tentazioni di investire con la riforma l’intero impianto costituzionale, ivi compresa la prima parte della Costituzione; ma si spiega anche l’andamento dei lavori della commissione bicamerale D’Alema, che , almeno per certi aspetti, possono essere letti nella chiave interpretativa qui proposta (come non ricordare il carattere fungibile con cui vennero presentate e discusse alcune soluzioni in punto di forma di governo, che in realtà presentavano caratteri di forte eterogeneità?). Quasi che, una volta scomparso ( o comunque fortemente scompaginato ) un certo assetto ancora legato all’esperienza ciellenistica e che nella Costituzione del 1948 e nei suoi compromessi aveva trovato l’elemento principale per una reciproca legittimazione di tutti i soggetti politici in campo ( un riconoscimento certo successivamente appannato dalla c.d. conventio ad excludendum, ma mai venuto meno del tutto), fosse necessario ripetere la stessa operazione.

2. Gli sviluppi successivi di questa vicenda che si sono avuti fino ai giorni nostri sono stati fortemente segnati da questa svolta che il dibattito sulla riforma della Costituzione ha subito. Permane l’idea di una “grande riforma” con significato palingenetico, così come permane l’idea che essa serva non tanto a risolvere i problemi reali che presenta il funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale, ma piuttosto abbia una funzione di legittimazione di chi ne è artefice. Ma con una differenza rispetto al passato recente: non più una legisttimazione reciproca tra i nuovi soggetti politici ( nuovi in senso letterale o nuovi in virtù della trasformazione profonda che hanno subito quelli i superstiti del vecchio assetto dei partiti storici ), quanto piuttosto una legittimazione diretta nei confronti della società civile, o meglio del corpo elettorale.
Quest’ultima considerazione è suffragata da una molteplicità di elementi. Si consideri innanzitutto la tendenza, che va consolidandosi, a far uscire il tema della riforma dalle competenze parlamentari per farne invece ordinario oggetto non solo del programma politico della maggioranza di governo, ma oggetto da affrontare in termini propositivi attraverso gli strumenti propri del Governo: iniziativa, seguito parlamentare nella più stretta logica dei rapporti tra maggioranza e opposizione, approvazione con una maggioranza appena sufficiente a superare la soglia minima della maggioranza assoluta, interpretazione dell’eventuale referendum popolare sospensivo, non già come strumento oppositivo a disposizione di una opposizione parlamentare uscita sconfitta dal dibattito parlamentare, bensì come strumento di anch’esso di iperlegittimazione della maggioranza che ascrive solo a se stessa il varo della riforma. Una tendenza contraria sia alla logica complessiva dell’art.138, che assegna chiaramente al Parlamento la funzione di revisione costituzionale (ben al di là della mera espressione del voto formale) e individua in maggioranze parlamentari molto ampie ( tali in ogni caso di coinvolgere in ogni caso le opposizioni ) la via fisiologica per l’esercizio di tale funzione, così come confermato da una prassi quarantennale nel corso della quale tutte le riforme costituzionali, alcune delle quali certamente non irrilevanti, sono passate con la maggioranza dei due terzi prevista come appunto quella fisiologica dalla citata disposizione costituzionale.
In secondo luogo, si pensi alla accentuata tendenza ad impostare i termini della riforma soprattutto sulla base di modelli astratti istruttivo il dibattito sulla forma di governo), a spesso richiamati da esperienze straniere ed interpretati spesso con notevole disinvoltura, come se la soluzione dei problemi che apparentemente si vogliono risolvere dipendesse esclusivamente dall’adozione di questo o di quel modellino costituzionale.
Ma, soprattutto, è indicativa in questo senso la tendenza ad una reinterpretazione in chiave populista del fondamentale principio della rappresentanza politica, con completo sovvertimento dei diversi gradi di legittimazione che l’applicazione tale principio determina: esso deve servire innanzitutto, se non esclusivamente, a legittimare il leader della maggioranza che esce vincitrice dalla consultazione elettorale. Non solo, ma che deve servire a dotarlo di una legittimazione così forte che si pretende faccia agio su tutto: sul Parlamento ( o se si vuole sulla sua stessa maggioranza parlamentare ), come dimostrano le proposte di affidare al Presidente del consiglio il potere di scioglimento anticipato; sul sistema di garanzie e contrappesi predisposti dalla Costituzione vigente, come dimostrano le proposte tese ad abbassare i quorum parlamentari per decisioni di grande rilevanza, a circoscrivere i poteri del Capo dello Stato, a snaturare il ruolo di soggetto necessariamente imparziale della Corte, giocando su una modifica della sua composizione che assegni, indirettamente, ad una parte dei suoi membri il compito di tutelare alcuni interessi, ossia quelli regionali, piuttosto che altri, quelli generali dell’intero sistema, a prevalere sullo stesso regime delle responsabilità penali.
Siamo dunque di fronte a proposte che toccano al cuore alcuni degli elementi portanti di una forma di governo parlamentare, risolvendo il grande problema di coniugare insieme rappresentanza, efficienza della funzione di governo e garanzie nell’investitura polare di un unico soggetto.

3. La fase cui siamo giunti oggi mi pare caratterizzata, dunque, da una contraddizione di fondo, rappresentata dal permanere di alcuni problemi irrisolti che richiederebbero alcune riforme costituzionali parziali, ma non per questo irrilevanti a fronte di una deriva assunta dal tema della riforma nella direzione di una funzione di iperlegittimazione della maggioranza di governo e, più in particolare del suo leader.
E’ questa contraddizione che mentre da un lato inquina tutto il dibattito in corso, dall’altro finisce per assecondare un progressivo depotenziamento dell’attuale dettato costituzionale che si riflette nelle prassi legislative e giurisprudenziali. Si tratta di tendenze che sono state messe in luce molto bene da Sergio Bartole in un saggio di recente pubblicazione (Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione, Bologna, Il Mulino, 2004). Tendenze che hanno messo fortemente in discussione la stessa “normatività” del testo costituzionale, ossia la sua reale capacità di conformare i comportamenti dei soggetti politici e sociali o quanto meno la sua capacità di porsi come la fonte primaria di conformazione degli stessi. A quest’ultimo riguardo gli esempi citabili sono numerosissimi. Mi limito a richiamare i seguenti.
Innanzitutto l’aver trasformato il ricorso alla funzione di revisione costituzionale da strumento eccezionale a strumento “ordinario”, con conseguenti torsioni sia delle procedure di esercizio della funzione, sia dei contenuti (si pensi alle riforme solo annunciate, ma non realizzate, da espresse disposizioni contenute in leggi di riforma costituzionale: è il caso della riforma del Senato, annunciata dall’art.11 delle legge cost. n.3/2001).
In secondo luogo, le interpretazioni deformate cui è stato sottoposto l’art.11 Cost. in ordine alla individuazione dei presupposti che legittimano l’uso della forza nelle controversie internazionali, in occasione prima della crisi nella ex Jugoslavia e, più di recente, in occasione della crisi irachena.
In terzo luogo, l’introduzione del c.d. “federalismo a Costituzione invariata”, centrato su un modello del tutto diverso rispetto a quello immaginato dai costituenti del 1948.
In quarto luogo, il varo di una riforma del Titolo V della Costituzione che nel ridefinire il rapporto Stato-Regioni-enti locali così mal formulata e lacunosa ( e su snodi essenziali ) da costringere il giudice costituzionale a ricostruire in via interpretativa il parametro di giudizio, riscrivendo in qualche misura il testo appena riformato.
Ma l’elenco potrebbe continuare. La valutazione attenta di questi elementi se ha portato Bartole a concludere nel senso di una sostanziale tenuta dell’impianto costituzionale originario, sottolineano tuttavia con forza l’esigenza di un suo riallineamento rispetto ai mutamenti che nel frattempo sono intervenuti. Ma questo profilo è appunto quello largamente assente negli sviluppi più recenti del dibattito e nelle proposte in discussione a riprova che gli obiettivi di fondo non è tanto quello di avviare una modernizzazione dell’impianto costituzionale originario, quanto piuttosto quello di mutarne profondamente il dna.
Se le considerazioni che precedono hanno un qualche fondamento, credo che si possa dire che la lunga transizione costituzionale italiana sia giunta ad un punto cruciale, ad una sorta di resa dei conti su alcuni nodi di fondo, la cui soluzione in un senso o in un altro è destinata a segnare il futuro sviluppo del nostro sistema costituzionale, ma si potrebbe dire del modello di democrazia che abbiamo conosciuto dal 1948 ad oggi. Il che chiama tutti, ma in particolare i costituzionalisti, ad un impegno assai più forte che non in passato: non si tratta più, infatti, di esaminare e valutare la ragionevolezza di questa o quella proposta di riforma, rispetto ai problemi reali sul tappeto, nonché la sua coerenza tecnica, nel quadro di un impianto complessivo che si da per scontato in quanto generalmente condiviso, ma di sconfiggere la retorica riformista, svelandone punto per punto gli aspetti mistificatori ed eversivi di quel patrimonio di valori che non è disponibile per nessuna maggioranza politica. Su altro versante, quello per così dire propositivo, credo che il nostro compito sia quello di non arroccarsi nella difesa dell’esistente, ma di riprendere pazientemente le fila di una discussione che sappia ricondurre le proposte di riforma nel solco della nostra storia costituzionale, politica e sociale, identificare i problemi reali che il funzionamento del nostro sistema presenta, in uno scenario che per molti versi non è più quello di cinquant’anni fa (basti pensare agli straordinari progressi fatti dal processo di integrazione europea) e su quelli intervenire, nella recuperata consapevolezza che questo e non altro è il compito ( e insieme il limite) di ogni revisione della Costituzione.

Continua su PDF