Corte, giustizia e politica. Magistratura e politica nella giurisprudenza costituzionale

Queste brevi riflessioni costituiscono la sintesi, estrema, di alcuni passaggi della mia relazione su “Corte, giustizia e politica”, presentata in occasione del Convegno annuale del “Gruppo di Pisa” tenutosi ad Otranto il 4 e 5 giugno 20041.
Si cercherà qui di fornire alcune indicazioni sui rapporti magistratura-potere politico come mediati dalla Corte costituzionale attraverso la sua giurisprudenza. L’analisi è pertanto dedicata alla Corte costituzionale come arbitro dei “conflitti” (in senso lato, atecnico) tra potere politico e potere giudiziario, dei contrasti che tra essi possono manifestarsi non solo nella sede che parrebbe naturale, quella del “conflitto” (in senso stretto, tecnico) di attribuzione, ma anche nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale.

1. Il potere giudiziario e il potere politico dinanzi alla Corte costituzionale
Vorrei, anzitutto, delineare come si atteggiano i poteri presi in considerazione indicando, di conseguenza, quali siano le occasioni, i modi e le forme della “mediazione”.
Il potere giudiziario si presenta, come è noto, come potere diffuso, non ordinato gerarchicamente, con la conseguenza, tra l’altro, che ciascun organo giudiziario è considerato in grado di manifestare definitivamente la volontà del potere cui appartiene e quindi legittimato a sollevare conflitto di attribuzione. Ma, ai nostri fini, non è solo quest’ultimo l’aspetto che interessa, in quanto qualsiasi giudice può sollevare, nel corso di un giudizio, questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato e delle Regioni (v. art. 1 l. cost. n. 1 del 1948 e, soprattutto, art. 23 l. n. 87 del 1953).
Il “conflitto”, in senso lato, atecnico, può dunque essere attivato dalla magistratura in diverse forme e, addirittura, da soggetti che formalmente (in senso soggettivo) non appartengono alla giurisdizione. Sul punto credo possa essere sufficiente qui il richiamo alla sent. n. 376 del 2001, nella quale si è affermata la legittimazione di un collegio arbitrale a sollevare questione di legittimità costituzionale. In questa decisione la Corte ha ribadito, privilegiando un filone interpretativo non sempre seguito, che, per aversi giudizio a quo, è sufficiente che sussista esercizio di “funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge” da parte di soggetti, “pure estranei all’organizzazione della giurisdizione”, “posti in posizione super partes”.
In sostanza, la Corte privilegia l’aspetto oggettivo-funzionale secondo un filone che, in un certo senso, sembra seguito anche nelle decisioni che hanno riguardato il modello di organizzazione del potere giudiziario propriamente inteso e che ci porta a dire che non è possibile definire un modello unitario di organizzazione del potere giudiziario: il potere giudiziario si presenta come frazionato tra le giurisdizioni e, all’interno di esse, tra gli organi giudiziari, legittimati a sollevare questioni di costituzionalità nel corso di un giudizio e conflitti di attribuzione nei confronti degli “altri” poteri. Non solo, la legittimazione, per ciò che riguarda la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale, si estende oltre la giurisdizione, intesa in senso stretto o soggettivo, comprendendo anche quei soggetti che pur non appartenendo alla giurisdizione esercitano funzioni ad essa assimilabili (si pensi anche ai consigli nazionali degli ordini professionali).
Con riferimento al potere politico, può dirsi che esso si presenta come frazionato (almeno) tra Assemblee legislative ed esecutivo e, all’interno di essi, nelle rispettive articolazioni. Potere frazionato ma, come vedremo, non diffuso. Il discorso, in questo caso, riguarda solo il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto, come è noto, nel giudizio di legittimità costituzionale il potere politico può “difendersi” o, meglio, può difendere gli atti in quella sede censurabili solo per il tramite dell’intervento in giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri ovvero, ove la questione riguardi una legge regionale, del Presidente della Giunta regionale interessata.
Il frazionamento del potere si esprime anzitutto, con riguardo al Parlamento, nella specificità delle singole Camere, non a caso legittimate separatamente a sollevare conflitto di attribuzione, e delle articolazioni interne ad esse. Con riferimento alle articolazioni interne sia sufficiente ricordare il riconoscimento della legittimazione passiva delle Commissioni parlamentari d’inchiesta (ord. n. 228 del 1975, ord. n. 229 del 1975, sent. n. 231 del 1975), della Commissione parlamentare per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (con riferimento a delibere incidenti sul procedimento referendario: ord. n. 171 del 1997, sent. n. 49 del 1989, ord. n. 137 del 2000, ord. n. 502 del 2000).
Anche il Governo non può essere definito come potere diffuso. Tuttavia, la Corte ha sottolineato la competenza del Presidente del Consiglio a dichiarare definitivamente la volontà del potere esecutivo qualora si tratti di attribuzioni ad esso proprie (il Presidente è legittimato in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato; sarebbe legittimato anche con riferimento al potere di proposta, ai sensi dell’art. 92, comma 2, Cost., in ordine alla nomina dei ministri da parte del Presidente della Repubblica). Vi è poi la particolare posizione del Ministro della giustizia, sia quale titolare delle competenze di cui all’art. 110 Cost. sia con riferimento alla competenza direttamente ed esclusivamente a lui attribuita dall’art. 107, 2° comma, Cost., relativamente alla facoltà di promuovere l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. La legittimazione può, infine, spettare al singolo Ministro, nella ipotesi in cui la sua posizione sia “messa in discussione da una mozione di sfiducia individuale che investendone l’operato, lo distingua e lo isoli dalla responsabilità correlata all’azione politica del Governo nella sua collegialità” (sent. n. 7 del 1996). In questo caso la legittimazione a ricorrere si lega alla prospettazione da parte del Ministro in quanto tale – a prescindere cioè dal fatto che nella specie si trattasse del Ministro della giustizia – della “lesione di attribuzioni costituzionalmente garantite, in conseguenza del voto di sfiducia individuale” espresso da un ramo del Parlamento (ord. n. 470 del 1995).
Anche rispetto al potere esecutivo può dunque parlarsi di un frazionamento sia pure minore rispetto a quello riscontrato in altri poteri: vi è senz’altro un organo di vertice che si identifica nel Consiglio dei Ministri, ma ciò non osta, nei casi descritti, al riconoscimento della qualità di “potere” al Presidente del Consiglio o, addirittura, ai singoli ministri.
Un cenno, infine, va fatto riguardo ai Consigli e alla Giunte regionali, che, secondo la Corte, non possono essere considerati poteri dello Stato, anche “se si volessero configurare questi due organi rispettivamente titolari del potere legislativo e del potere esecutivo della Regione” (ord. n. 10 del 1967). Con riferimento ai conflitti, la Regione non ha legittimazione “se non negli specifici conflitti tra lo Stato e le Regioni (e tra le Regioni stesse)” (ord. n. 82 del 1978). Pertanto, con riguardo al livello regionale, la Corte potrà trovarsi a mediare l’eventuale contrasto tra potere politico e potere giurisdizionale in altre sedi, e cioè, principalmente, nei conflitti tra enti relativi alla prevista immunità dei consiglieri regionali per i voti dati e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni (art. 122, 4° comma, Cost.), nonché, più in generale, come vedremo, in quelli originati da atti giurisdizionali.

2. Le “occasioni” della mediazione. Il giudizio di costituzionalità delle leggi
Passando all’esame delle “occasioni” che consentono alla Corte di operare la “mediazione” tra politica e giurisdizione, va anzitutto sottolineato che il “conflitto” può essere attivato dai giudici anche per il tramite della sollevazione di una questione di legittimità costituzionale. A venire in rilievo è ovviamente il procedimento in via incidentale che vede il giudice come “introduttore necessario” del giudizio di costituzionalità delle leggi (o degli atti aventi forza di legge). In questa sede, dunque, “il conflitto” può essere attivato solo dalla giurisdizione, potendo la politica “difendersi” attraverso l’intervento in giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato (v. artt. 20, 3° comma e 25, 3° comma, legge n. 87 del 1953, nonché art. 4 N.I.). Sul punto, almeno se si guarda alle molte questioni sollevate in via incidentale rispetto a leggi o atti aventi forza di legge approvati da un Parlamento o da un Governo ancora in carica, credo possa tornare di attualità la tesi di Sandulli: il Presidente del Consiglio può intervenire in giudizio in quanto il Governo, principale propulsore dell’attività legislativa, è in realtà il soggetto che la Corte sottopone a controllo, per il tramite del sindacato sulla legge (A.M. SANDULLI, Natura, funzioni ed effetti delle pronunce della Corte costituzionale sulla legittimità delle leggi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, 32). In questi casi, la posizione del Presidente del Consiglio che “interviene” nel processo costituzionale può essere forse assimilata, dal punto di vista sostanziale, a quella di una parte, non differenziandosi più così marcatamente da quella assunta dallo stesso soggetto nei giudizi introdotti in via principale.
Occorre chiedersi, ora, quale rilievo possa oggi assumere il giudizio di costituzionalità nei conflitti giurisdizione-politica, tenendo conto del fatto che alcuni recenti interventi normativi in tema di giustizia sono stati aspramente criticati dalla magistratura in quanto considerati come rivolti a “proteggere” l’attuale classe politica: il riferimento va, principalmente, alla legge 5 ottobre 2001, n. 367, sulle rogatorie internazionali, al d.l. 25 settembre 2001, n. 350, conv. in legge 23 novembre 2001, n. 409, sul rientro dei capitali dall’estero, al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, sul falso in bilancio, adottato sulla base della legge di delega 3 ottobre 2001, n. 366, relativa alla riforma del diritto societario, alla legge 7 novembre 2002, n. 248, introduttiva del c.d. “legittimo sospetto” e, da ultimo, alla legge 20 giugno 2003, n. 140, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi nei confronti delle alte cariche dello Stato”.
Trattandosi di norme che ben possono trovare applicazione in giudizi in corso, non sono mancate le occasioni per attivare l’intervento della Corte nella sede del giudizio di legittimità costituzionale ossia, riprendendo risalenti ma attualissime indicazioni di Crisafulli, nella sede ove si esprime maggiormente la “posizione intermedia”, tra Parlamento e Magistratura, assegnatale dall’ordinamento: “tra chi da le leggi, e chi è chiamato ad applicarle con l’autorità del giudicato”. E, specie se si considera che gli atti normativi prima richiamati sono leggi o atti aventi forza di legge approvati da un Parlamento o da un Governo ancora in carica, non si può non concordare con Crisafulli laddove afferma, con riferimento al giudizio di legittimità costituzionale, che “la Corte costituzionale interviene, con le sue decisioni, a sanzionare praticamente il rispetto, da parte della maggioranza legislatrice, delle norme costituzionali” (V. CRISAFULLI, La Corte costituzionale tra Magistratura e Parlamento, in Scritti giuridici in memoria di P. Calamandrei, vol IV, Padova, 1958, 276).
Credo che sul punto possa essere sufficiente il richiamo alla sent. n. 24 del 2004, avente ad oggetto l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, in tema di sospensione dei processi nei confronti della alte cariche dello Stato, che assume anche rilievo in quanto ci permette di sottolineare che, fuori dai rigorosi limiti sanciti nella nostra Carta costituzionale, le esigenze della “politica” non possono prevalere su quelle della giurisdizione, incidendo su un principio che sta “alle origini della formazione dello Stato di diritto”, quello della “parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali”. Più in generale, richiamando l’insegnamento di Carlo Esposito, si devono ritenere incostituzionali, ex art. 3, comma 1, Cost., “le leggi ordinarie che vogliano estendere, oltre i casi previsti dalla Costituzione, le ipotesi di improcedibilità soggettiva e le garanzie costituzionali o amministrative impedienti la immediata attuazione della legge, poiché tali improcedibilità e garanzie, in definitiva, privano di concreta efficacia la legge rispetto a determinati cittadini e creano diseguaglianze formali tra di essi” (C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 32).
Un altro ambito nel quale potrebbe esprimersi la mediazione della Corte tra giurisdizione e politica sembra essere quello delle leggi di interpretazione autentica, almeno nei casi in cui queste ultime realizzino una vera e propria interferenza del potere politico nei procedimenti giurisdizionali fino al punto di deciderne l’esito o, addirittura, di incidere sulla stessa instaurazione di uno o più processi. Ma la Corte, pur con forti oscillazioni, sembra aver sostanzialmente tollerato l’abuso della “tecnica” dell’interpretazione autentica,. Anche qui faccio un solo esempio, riferito ad una recente pronuncia (sent. n. 26 del 2003), nella quale la Corte ha giudicato infondata una questione su una legge di interpretazione autentica, posta anche in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., che si assumevano violati per la incidenza di essa sulla certezza dei rapporti giuridici e sul legittimo affidamento sulla disposizione oggetto di interpretazione autentica, come intesa dal prevalente indirizzo giurisprudenziale. La risposta su quest’ultimo punto è laconica e sembra addirittura “immunizzare” le leggi di interpretazione autentica da siffatte censure: “non può non rilevarsi – in primo luogo e decisivamente – che quello denunciato è un effetto insito nel fenomeno dell’interpretazione autentica”.

3. Le “occasioni” della mediazione. I conflitti ex art. 68 Cost.
Nell’ambito delle competenze della Corte costituzionale, il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato sembra essere la sede “naturale” nella quale è destinata ad esprimersi l’opera di mediazione del giudice delle leggi nei contrasti tra giurisdizione e politica, soprattutto allorché la Corte si trova a giudicare i conflitti ex art. 68, comma 1 Cost.
La crescente conflittualità legata alla applicazione dell’art. 68, 1° comma, Cost., appare il frutto della più volte rilevata tensione, non risolvibile in astratto, tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all’esercizio della giurisdizione (universalità della legge, rimozione di ogni privilegio, ecc.), e la salvaguardia dell’autonomia e della libertà della politica. Si è così sviluppata una giurisprudenza “caso per caso”, la cui stratificazione ha portato, come vedremo, al consolidamento di alcuni principi che sembrano ormai guidare le decisioni in tema di insindacabilità. Le difficoltà (e in alcuni casi le presunte incoerenze rispetto a precedenti decisioni) che la Corte ha incontrato nel processo di razionalizzazione dei moduli di giudizio per la valutazione delle questioni che coinvolgono la garanzia di cui all’art. 68, 1° comma, Cost., sembrano dovute proprio alle specificità delle singole fattispecie che si è trovata ad esaminare, in un meccanismo quasi di azione-reazione che ha imposto la modulazione degli stessi criteri di giudizio a fronte dei tentativi da parte del Parlamento di estendere oltremodo l’ambito della garanzia fino a farla trasmodare in privilegio personale del proprio membro. Nella ricerca del punto di equilibrio, l’asse si è così, nel tempo, spostato verso il polo della giurisdizione, laddove il polo della politica tendeva ad imporsi ben al di là delle possibilità concessale dalle esigenze di salvaguardia della propria autonomia e della propria libertà. La Corte ha finito per sindacare e colpire volta a volta il cattivo uso del potere, cercando sempre di stimolare i poteri verso una leale collaborazione, unica via per ridurre la crescente conflittualità.
Utili indicazioni si traggono dalla recentissima sent. n. n. 120 del 2004, avente ad oggetto l’art. 3 della legge n. 140 del 2003, che ripercorre i punti salienti della giurisprudenza costituzionale in tema di insindacabilità, pur dando conto del fatto che in tale ambito “è vana (…) la pretesa di cristallizzare una regola di composizione del conflitto”. Si tratta, in sostanza, di quei principi che ormai guidano la giurisprudenza della Corte, sui quali molto si è soffermata anche la dottrina: a) “non qualsiasi opinione espressa dai membri delle Camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse ‘nell’esercizio delle funzioni’”; b) la prerogativa dell’insindacabilità non può mai trasformarsi in un privilegio personale; c) è alla nozione di “nesso funzionale” che occorre rifarsi per discernere le opinioni del parlamentare riconducibili alla libera manifestazione del pensiero da quelle che riguardano l’esercizio della funzione parlamentare.
Le tappe della giurisprudenza costituzionale che hanno portato al consolidamento dei suddetti principi sono a tutti note e non è il caso di ripercorrerle ora. L’attuale giurisprudenza ruota attorno al criterio del “nesso funzionale”, che delimita l’ambito della prerogativa parlamentare. Non è dunque il “nesso spaziale” a rilevare come è dimostrato dal fatto che non tutte le opinioni espresse all’interno del Parlamento sono automaticamente coperte dall’immunità: la garanzia dell’insindacabilità non può essere riferita ad atti non di funzione qual è una “comunicazione privata” tra due parlamentari ancorché “intra moenia” – svoltasi, nella specie, nella ‘buvette’ della Camera dei deputati –, giacché un “contesto politico” non può, di per se stesso, fare presumere l’esistenza di un nesso funzionale idoneo a rendere insindacabili le opinioni ivi espresse (sent. n. 509 del 2002). Ai fini della insindacabilità dell’opinione espressa, la dichiarazione del parlamentare deve poter essere riconducibile in concreto all’esercizio delle funzioni parlamentari (sent. n. 379 del 2003).
Va anche sottolineato che la Corte ha mantenuto e ribadito espressamente il proprio orientamento interpretativo sulla c.d. pregiudiziale parlamentare, affermando, nella sent. n. 449 del 2002, che l’effetto impeditivo della delibera di insindacabilità nei confronti dei giudizi di responsabilità dei membri del Parlamento è superabile solo attraverso la proposizione del conflitto di attribuzioni innanzi a questa Corte”, con conseguente reiezione delle tesi che, negando che la delibera potesse assumere autonomamente efficacia preclusiva dell’esercizio della funzione giurisdizionale, intendevano far ricadere sulla Camera di appartenenza del parlamentare l’onere di promuovere il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti dell’autorità giudiziaria che non si conformi alla valutazione dell’Assemblea. Significativa ed apprezzabile è l’affermazione per cui la “Corte non ha, allo stato, motivo di discostarsi dal proprio orientamento interpretativo dell’art. 68, primo comma, della Costituzione”, che sembrerebbe sottendere la possibilità di un ripensamento qualora nella prassi parlamentare si verifichino macroscopici e reiterati abusi della prerogativa in parola ben al di là delle esigenze di salvaguardia dell’autonomia e della libertà della politica per le quali essa è stata pensata. Anche se non va sottovalutato il consolidamento della c.d. pregiudiziale parlamentare operato con l’art. 3 (commi da 4 ad 8) della legge n. 140 del 2003, nel quale si prevede, tra l’altro, che, qualora il deputato o il senatore eccepisca l’applicabilità dell’art. 68, 1° comma, Cost., il giudice, se non ritiene di accogliere l’eccezione, deve trasmettere gli atti alla Camera di appartenenza, sospendendo il giudizio in corso e rimanendo vincolato alla decisione della stessa; la Camera di appartenenza può anche essere investita direttamente dal parlamentare nei cui confronti pende un accertamento giurisdizionale di responsabilità e può chiedere la sospensione del procedimento. Il consolidamento legislativo della c.d. pregiudiziale parlamentare implica, comunque, che se la Corte volesse discostarsi dal proprio orientamento interpretativo dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, potrebbe ormai farlo solo per la via della dichiarazione di incostituzionalità delle norme procedurali contenute nell’art. 3 della legge n. 140 del 2003.
Va segnalato, inoltre, che, nello spirito della ricerca di una leale collaborazione tra i poteri, lo strumento del conflitto dovrebbe costituire l’extrema ratio, tant’è vero che l’assenza di termini per la sua proposizione è stata letta dalla Corte come rivolta a “favorire al massimo, al di fuori delle strettoie dei termini di decadenza, la ricerca e la conclusione di intese extragiudiziarie tra gli organi interessati al conflitto” (sent. n. 116 del 2003). Una volta instaurato il giudizio, però, esso deve concludersi in termini certi non rimessi alla parti confliggenti (ord. n. 358 del 2003).
Tuttavia, con riferimento alla configurazione del conflitto come extrema ratio, qualche “preoccupazione” deriva dalla lettura di due sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (nn. 1 e 2 del 2003), con le quali sono stati accolti i ricorsi presentati da Agostino Cordova nei riguardi dell’Italia in riferimento agli artt. 6 § 1 (diritto ad un giusto processo) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) C.e.d.u. La Corte europea ritiene che la prerogativa di cui all’art. 68, comma 1, della Costituzione italiana sia rivolta alla protezione della libera dialettica parlamentare e al mantenimento della separazione dei poteri, senza che però ciò esima da una verifica in concreto della proporzionalità dell’ingerenza. Nei casi esaminati dalla Corte europea si ravvisa proprio l’assenza di un chiaro legame tra l’opinione espressa e l’esercizio di funzioni parlamentari con conseguente violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione, anche in ragione del rifiuto dei giudici nazionali di sollevare conflitto davanti alla Corte costituzionale. È quest’ultimo passaggio che, in questa sede, pare opportuno evidenziare, in quanto potrebbe indurre i giudici a sollevare sempre (e dunque non solo ove ritengano che l’accertamento dei presupposti dell’insindacabilità da parte della camera sia arbitrario) conflitto a fronte di una delibera di insindacabilità, per non trovarsi poi esposti a decisioni della Corte europea che ravvisino la violazione del diritto ad un giusto processo e ad un ricorso effettivo. Se così fosse, però, è di tutta evidenza che la Corte costituzionale diverrebbe giudice “necessario” della effettiva riferibilità delle opinioni espresse all’esercizio di funzioni parlamentari e non sarebbe più possibile considerare il conflitto come extrema ratio. Ove si verificassero queste condizioni, credo che la Corte costituzionale avrebbe, di fatto, “motivi per discostarsi dal proprio orientamento interpretativo” in relazione alla c.d. pregiudiziale parlamentare, non più per il presunto abuso (inteso come uso eccessivo e distorto) della prerogativa da parte delle Camere, ma per l’abuso (inteso come uso eccessivo) dello strumento del conflitto da parte dei giudici. Ma, come già detto, un “ripensamento” del genere non potrebbe oggi più fondarsi su meri presupposti di fatto, dovendo passare ormai per la via della dichiarazione di incostituzionalità delle norme procedurali contenute nell’art. 3 della legge n. 140 del 2003.
Altro problema, tra i molti, che si pone tradizionalmente con riferimento ai conflitti ex art. 68, 1° comma, Cost., è quello dell’intervento nel giudizio davanti alla Corte del terzo danneggiato dalle opinioni espresse dal parlamentare e “coperte” dalla delibera di insindacabilità. La incidenza, sia pure indiretta, del giudizio costituzionale sui diritti soggettivi dei privati (in specie sui diritti all’onore e alla reputazione) dovrebbe far propendere, secondo la dottrina prevalente, per una “apertura” anche ad essi del contraddittorio. La Corte ha finalmente rivisto il proprio orientamento anche nel conflitto tra poteri (sent. n. 154 del 2004), dopo averlo fatto nei conflitti tra enti (sent. n. 76 del 2001). E particolare rilievo ha assunto nella motivazione della decisione l’orientamento seguito dalla Corte europea di Strasburgo.

4. Gli “altri” conflitti che vedono coinvolte le Camere (o loro articolazioni interne)
L’area dei conflitti giudici-Camere non si esaurisce, come detto, nelle ipotesi ricollegabili alla applicazione dell’art. 68 Cost.
Tra gli “altri” conflitti che vedono coinvolte le Camere, a venire in rilevo è anzitutto, storicamente, la questione della concorrenza fra inchiesta parlamentare e indagini giudiziarie. Mi limito qui a richiamare un passaggio importante della motivazione della sent. n. 231 del 1975, in cui si fa riferimento al principio della collaborazione tra i poteri per fini di giustizia che vale a temperare il potere di apporre il segreto, riconosciuto alle Commissioni di inchiesta e ritenuto espressione dell’autonomia delle Camere. È il comportamento tenuto in concreto dall’organo parlamentare, che permette alla Corte, nel caso di specie, di ritenere che il segreto “funzionale” opposto dalla Commissione di inchiesta, pur incidendo sull’esercizio della funzione giurisdizionale, cui è “essenzialmente connaturato” il diritto di difesa delle parti, non possa essere giudicato illegittimo.
Nel contemperamento tra le diverse esigenze, le ragioni del Parlamento sembrano comunque prevalere, in nome della salvaguardia della sua autonomia, su quelle della giurisdizione. E questa prevalenza sarà destinata ad esprimersi in maniera più forte, fino al punto della totale compressione delle ragioni della giurisdizione, in altri ambiti, quali quelli dell’autonomia contabile e della autodichia delle Camere.
Ma le prerogative della “autonomia” e della “indipendenza” della Camere condizionano anche sotto altri aspetti l’esercizio della giurisdizione penale nei confronti dei parlamentari. In particolare, la Corte ha escluso che l’interesse relativo alla speditezza del procedimento giudiziario potesse determinare il sacrificio dell’interesse della Camera allo svolgimento delle attività parlamentari, e quindi all’esercizio dei diritti-doveri inerenti alla funzione parlamentare (v. sent. n. 225 del 2001, riguardante il c.d. caso Previti; sent. n. 263 del 2003, riguardante il c.d. caso Matacena). Come ribadito nella successiva sent. n. 263 del 2003, “il giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda”.

5. I conflitti tra magistrati e Governo
Nell’ambito dei conflitti giurisdizione-politica si inseriscono anche quelli che vedono coinvolti i magistrati e il Governo (es. in tema di segreto di Stato). Qui mi limito a sottolineare che salvo rare eccezioni, i ricorsi per conflitto di attribuzione promossi da magistrati nei confronti del Governo non vengono ritenuti fondati dalla Corte [con la sent. n. 420 del 1995, la Corte, per la prima volta, ritiene (parzialmente) fondato un ricorso per conflitto di attribuzione promosso da un magistrato nei confronti del Governo].
Un cenno va fatto con riferimento a due conflitti che, pur non sollevati da singoli magistrati, riguardano la organizzazione dei rapporti tra potere politico e potere giudiziario. Si tratta di due conflitti sollevati dal CSM nei confronti del Ministro della Giustizia, sorti a seguito del rifiuto da parte di quest’ultimo di dar corso a deliberazioni del CSM relative al conferimento di uffici direttivi. La Corte afferma che il conferimento degli uffici direttivi deve avvenire nel rispetto di un metodo procedimentale basato sulla leale collaborazione tra Ministro della Giustizia e CSM, e che in caso di rifiuto di concerto da parte del Ministro, il CSM può legittimamente procedere sempre che agisca nel rispetto del principio di leale collaborazione, compiendo un adeguato approfondimento istruttorio delle ragioni addotte dal Ministro (sent. n. 380 del 2003; sent. n. 379 del 1992).

6. I conflitti Stato-Regioni originati da atti giurisdizionali: i conflitti ex art. 122, 4° comma, Cost.
La Corte può essere chiamata a mediare contrasti tra politica e giurisdizione anche in sede di conflitto tra enti. Anzi, esclusa la possibilità per le Regioni di attivare un conflitto tra poteri rispetto ad atti giurisdizionali che si assumano lesivi delle proprie attribuzioni, il conflitto tra enti risulta per esse la vera ed unica “occasione” per contestare la violazione dei confini dell’esercizio della funzione giurisdizionale. In questi casi, tuttavia, trattandosi pur sempre di conflitto tra enti, il ricorso è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e non dell’autorità giurisdizionale procedente, con la conseguenza che solo indirettamente si possa qui parlare un conflitto politica-giurisdizione.
In ordine ai conflitti relativi all’art. 122, 4° comma, va anzitutto evidenziato che, diversamente da quanto accade per i conflitti ex art. 68 Cost., la legittimazione non spetta all’organo direttamente interessato a far valere l’immunità dei propri membri. Peraltro, come si è già detto, il ricorso è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e non dell’autorità giurisdizionale procedente, sicché, almeno dal punto di vista processuale, le ragioni della giurisdizione, esclusa anche la possibilità di un intervento in giudizio (sent. n. 70 del 1985, che ha dichiarato irricevibile una memoria presentata dal magistrato interessato), potranno essere tutelate solo dal Governo. La Corte ha richiamato in tale ambito la sua giurisprudenza sull’art. 68, in ordine al nesso funzionale.

7. I conflitti originati da giudizi sui titoli di ammissione dei consiglieri regionali (o sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità)
Altro importante ambito nel quale l’organo politico rappresentativo della Regione rivendica da tempo la propria autonomia nei confronti della giurisdizione è quello che riguarda il giudizio “definitivo” sui titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità.
Come è noto, la Costituzione attribuisce questa competenza a ciascuna Camera con riferimento ai membri del Parlamento (art. 66), mentre non v’è analoga previsione per i consiglieri regionali. La Corte ha precisato che le norme legislative e dei regolamenti interni nelle quali si fa riferimento ad un “giudizio definitivo” delle assemblee elettive regionali sulla verifica dei poteri e sulle contestazioni e i reclami elettorali vanno intese come riferite alla fase “amministrativa” del contenzioso elettorale, non potendo escludere una successiva, eventuale, fase giurisdizionale, attesa la incompetenza delle norme regionali a disciplinare la giurisdizione (sentt. n. 115 del 1972, n. 113 del 1993).
Nella più recente sent. n. 29 del 2003, la Corte conferma il precedente orientamento, pur considerando la profonda modificazione della posizione e delle funzioni delle Regioni e dei Consigli regionali intervenuta da ultimo con la riforma del Titolo V, Parte seconda, Cost., ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001. L’argomento “forte” su cui si basa la conferma dell’orientamento giurisprudenziale non è più quello della impossibilità di equiparare la posizione costituzionale dell’organo legislativo regionale a quella delle Camere – le assemblee elettive nazionali e regionali sono “espressione entrambe della sovranità popolare (cfr. sent. n. 106 del 2002)” –, ma è l’esigenza di salvaguardare il “diritto al giudice”, che va salvaguardato e può essere derogato solo nelle specifiche situazioni previste (espressamente) da norme costituzionali. Così, nella specie, la deroga prevista dall’art. 66 Cost. non può estendersi al di là della specifica situazione regolata e quindi essere invocata per costruire una “anacronistica esenzione dei Consigli regionali dalla giurisdizione”.
In virtù del suddetto principio riaffiorano peraltro i dubbi, già espressi in dottrina, sulla legittimità della c.d. giurisdizione domestica delle Camere.
In realtà, più che sulle possibilità di un ripensamento della Corte sulla c.d. giurisdizione domestica delle Camere, appare più realistico interrogarsi sulla permanenza delle condizioni che, in questo ambito, legittimano un trattamento differenziato nei confronti delle assemblee regionali, i cui dipendenti sono assoggettati ai giudizi di conto e di responsabilità. La Corte, nella lontana sent. n. 110 del 1970, ha infatti affermato che “l’analogia tra le attribuzioni delle assemblee regionali e quelle delle assemblee parlamentari non significa identità e non toglie che le prime si svolgano a livello di autonomia, anche se costituzionalmente garantita, le seconde, invece, a livello di sovranità. E deroghe alla giurisdizione – sempre di stretta interpretazione – sono ammissibili soltanto nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato, e perciò situati ai vertici dell’ordinamento, in posizione di assoluta indipendenza e di reciproca parità”. Sussistono ancora le condizioni richiamate? Si dovrebbe rispondere di no, in quanto le assemblee elettive nazionali e regionali sono ormai “espressione entrambe della sovranità popolare” (sent. n. 106 del 2002). Ma in realtà, proprio seguendo le argomentazioni della sent. n. 29 del 2003, sembra difficile, anche qui, ammettere “un’anacronistica esenzione dei Consigli regionali dalla giurisdizione”. È da presumere, piuttosto, che, nell’ipotesi in cui venga nuovamente all’esame della Corte la questione dell’assoggettamento dei dipendenti regionali ai giudizi di conto e di responsabilità, il giudice delle leggi utilizzerà un argomento diverso da quello della diversificazione delle attribuzioni (“a livello di autonomia” – “a livello di sovranità”) per non estendere alle assemblee regionali le deroghe alla giurisdizione ammesse per le assemblee parlamentari. Queste ultime, infatti, con argomenti forse discutibili, sono fondate, come detto, sulla estensione al momento applicativo dell’autonomia riconosciuta a ciascuna Camera sul piano normativo dall’art. 64, 1° comma, Cost. e risultano, comunque, da “principi non scritti”, consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi che hanno assunto la veste di “vere e proprie consuetudini costituzionali” (sent. n. 129 del 1981). Altrettanto non potrebbe dirsi per le assemblee regionali, mancando pertanto i presupposti per ammettere una deroga al principio del “diritto al giudice”, che vuole che la tutela giurisdizionale sia a tutti garantita (art. 24 Cost.) ed affidata agli organi previsti dagli artt. 101 e seguenti Cost.

8. Gli “altri” conflitti originati da atti giurisdizionali. Il problema della mancanza di difesa dei magistrati nei conflitti fra enti relativi ad atti giurisdizionali
Di là dalle specifiche questioni inerenti i conflitti tra Stato e Regioni ex art. 122, 4° comma, Cost. e quelli originati da giudizi sui titoli di ammissione dei consiglieri regionali, occorre sottolineare che la giurisprudenza costituzionale in tema di conflitti tra enti originati da atti giurisdizionali segue un orientamento piuttosto restrittivo in ordine alla loro ammissibilità, di recente confermato con le sentt. nn. 29, 276 e 326 del 2003. Il conflitto è infatti inammissibile qualora si risolva in strumento improprio di censura del modo di esercizio della funzione giurisdizionale, valendo contro gli errori in iudicando di diritto sostanziale o processuale i rimedi consueti riconosciuti dagli ordinamenti processuali delle diverse giurisdizioni.
Solo a fronte di una formale disapplicazione della legge regionale operata dal giudice procedente, la Corte ha affermato la non spettanza allo Stato (sent. n. 285 del 1990), ritenendo che la pretesa della Corte di cassazione di sindacare la legittimità costituzionale della normativa regionale, integrasse violazione dell’art. 134 Cost. (non essendo il caso assimilabile al conflitto di leggi statali o regionali con regolamenti comunitari) atteso che il principio per il quale il giudice ove dubiti della legittimità di una legge deve adire la Corte costituzionale non può soffrire eccezione alcuna.
In questo filone si inserisce una recentissima decisione, la sent. n. 129 del 2004, che sembra però presentare significativi elementi di novità, in quanto la invasione della competenza regionale viene rinvenuta nella motivazione che sorregge l’atto giurisdizionale all’origine del conflitto. Nella specie, il giudice avrebbe disapplicato la legge regionale sulla base della presunta diretta applicabilità di una direttiva comunitaria in materia di caccia. Ma la motivazione sulla diretta applicabilità appare alla Corte inadeguata, in quanto il tema “è trattato in maniera confusa e tale da non poter assurgere ad asse portante della decisione”, sicché il giudice avrebbe finito per rilevare la incompetenza della legge regionale a disciplinare un certo ambito senza sollevare la questione davanti alla Corte: non avendo il giudice motivato adeguatamente sul primo problema, la disapplicazione sarebbe illegittimamente operata dal giudice sul fondamento della presunta incompetenza della legge regionale.
La decisione della Corte sopra sintetizzata potrebbe aprire nuove prospettive nel conflitto tra enti originato da atti giurisdizionali, per il rilievo che potrebbero assumere i percorsi motivazionali di provvedimenti giurisdizionali nella determinazione di invasioni di competenza regionali. Non credo, però, che possa essere sottovalutata la particolarità del caso esaminato dalla Corte nella sent. n. 129 del 2004, nel quale il problema della diretta applicabilità di una direttiva comunitaria si intrecciava con quello della delimitazione delle competenze regionali alla luce del “nuovo” art. 117 Cost.
Un altro profilo problematico che riguarda i conflitti tra enti originati da atti giurisdizionali è quello relativo alla mancanza di difesa dei giudici davanti alla Corte.
La Corte ha infatti escluso la possibilità di intervento del magistrato interessato in un conflitto tra enti originato da atto giurisdizionale (sent. n. 70 del 1985). Bisognerà vedere se la apertura al terzo danneggiato operata con la sent. n. 76 del 2001 possa avere riflessi in quest’ambito, considerando comunque che la Corte (sent. n. 309 del 2000) ha ritenuto che a tale carenza non si possa ovviare in via di interpretazione e applicazione dell’ordinamento vigente, occorrendo invece un intervento normativo. Può ancora dirsi che, nei conflitti Stato-Regioni originati da atti giurisdizionali, i giudici “si trovano, per ragioni attinenti alla struttura del processo, in una posizione di inferiorità” (F. SORRENTINO, La giurisprudenza della Corte nei conflitti tra lo Stato e le Regioni, in AA. VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano, 1988, 223), privi di strumenti di difesa (A. PIZZORUSSO, La magistratura come parte dei conflitti di attribuzioni, in P. BARILE – E. CHELI – S. GRASSI (a cura di), Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo, Bologna, 1982, 211 s.), estranei come sono ad un contraddittorio tutto interno al potere esecutivo (G. MOR, Conflitto Stato-Regione o conflitto tra giudici e politici?, in Giur. cost., 1985, 1395).

9. L’inasprimento del conflitto e il tentativo della Corte di “stimolare” la leale collaborazione tra i poteri
Il quadro fin qui tracciato permette di formulare qualche conclusione sul ruolo della Corte nei conflitti (in senso lato) tra giurisdizione e politica.
Si è da un lato rilevato che i poteri in considerazione si presentano come frazionati al loro interno e che ciò si riverbera anche su come essi si presentano davanti alla Corte. Si è anche detto che il conflitto (in senso lato) tra giurisdizione e politica può manifestarsi pure nella sede del giudizio di legittimità costituzionale, essendovi tra l’altro oggi maggiori possibilità che il processo costituzionale si concluda quando sono ancora in carica quel Parlamento e quel Governo che hanno prodotto la norma impugnata. Ciò non toglie, comunque, che il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato sia, per definizione, la “sede naturale” in cui la Corte è chiamata a mediare tra giurisdizione e politica. Ma è ancora questa la principale occasione che consente alla Corte di operare la “mediazione” tra politica e giurisdizione? La risposta potrebbe essere affermativa se si considera che in quest’ambito rientra quello che è stato definito come il “conflitto dei conflitti” ossia il conflitto originato dalle delibere di insindacabilità ex art. 68, 1° comma, Cost. Le diverse interpretazioni date dai poteri in conflitto alla prerogativa di cui all’art. 68, 1° comma, Cost., hanno costretto la Corte a interventi dei quali non può essere negata l’importanza, anche per i riflessi che essi hanno sugli snodi essenziali della forma di governo. Ma si è trattato, e soprattutto oggi si tratta, di interventi che si situano nell’ambito di una “microconflittualità” alla quale la Corte deve dare risposte concrete, senza poter “cristallizzare una regola di composizione del conflitto tra principi costituzionali che assumono configurazioni di volta in volta diverse e richiedono soluzioni non riducibili nei rigidi limiti di uno schema preliminare di giudizio” (sent. n. 120 del 2004). Non vorrei essere frainteso e so bene che nella sede del conflitto ex art. 68, 1° comma, Cost., la Corte è chiamata a confrontare la regola, propria dello Stato di diritto, della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione con le esigenze della l’autonomia e della libertà della politica, ma ciò non significa ancora affermare che questo sia il principale luogo in cui le tensioni tra giurisdizione e politica sono destinate ad esprimersi davanti alla Corte. Basti pensare alla “delicatezza” delle questioni che la Corte ha esaminato (e che nell’immediato futuro dovrà esaminare) sollevate, con sollecitudine, dai giudici riguardo a recenti interventi normativi (primo fra tutti quello realizzato con la legge n. 140 del 2003) ampiamente contestati dalla magistratura. O, ancora, alla importanza crescente dei conflitti Stato-Regioni originati da atti giurisdizionali, specie in questa fase nella quale ancora si devono definire le reali dimensioni dell’ampliamento delle competenze regionali realizzate con la riforma del Titolo V. Da quest’ultimo punto di vista si è già sottolineata l’importanza della recente sent. n. 129 del 2004.
Con riferimento agli orientamenti seguiti dalla Corte nelle varie sedi in cui essa è chiamata a “mediare” tra politica e giurisdizione sembra possibile individuare un denominatore comune nella ricerca di “stimolare” la leale collaborazione tra i poteri. Sia nella sede del conflitto tra poteri, ove il “principio di leale collaborazione” sembra ormai trovare stabile applicazione, sia nella sede del giudizio di legittimità costituzionale, attraverso sentenze di rigetto (se non per il tramite di decisioni processuali) fondate su interpretazioni conformi a Costituzione delle disposizioni censurate. L’assimilazione ora proposta trova giustificazione nel fatto che attraverso la sentenza interpretativa di rigetto la Corte ricerca, chiede, una collaborazione da parte dei destinatari della decisione che rivestono funzioni pubbliche. In particolare, la Corte chiede “collaborazione” alla amministrazione e, soprattutto, alla giurisdizione, “invitando” i giudici a conformarsi a quella interpretazione. Con il rischio, atteso il valore persuasivo e non vincolante riconosciuto alle interpretative di rigetto nei confronti dei giudici diversi dal rimettente, di sacrificare sull’altare della collaborazione le esigenze di certezza del diritto che dovrebbero indurla a preferire il ricorso alla interpretativa di accoglimento. È noto che la Corte ha preferito in vari momenti ricorrere alla interpretativa di rigetto per il timore di creare lacune nell’ordinamento o, nel caso di richiesta addizione, di venire a svolgere “palesemente” un ruolo di co-legislatore, riservandosi, con il meccanismo della doppia pronuncia, di intervenire successivamente a dichiarare l’incostituzionalità della norma qualora i giudici non si uniformino alla sua interpretazione; ed è altrettanto noto che la scelta della interpretazione conforme a Costituzione viene ormai ritenuta dalla Corte come una delle operazioni che il giudice è tenuto a compiere prima di sollevare la questione (v., da ultimo, le decisioni nn. 19, 107, 198, 208, 244, 229, 243, 279, 301, 348 del 2003, 106 del 2004), in quanto “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (sent. n. 301 del 2003). La conseguenza di quest’ultimo rilievo è che la Corte usa il canone della interpretazione conforme a Costituzione non solo per addivenire alla sentenza interpretativa di rigetto ma per risolvere, ancor prima, in radice, la questione con una decisione processuale fondata sul fatto che il giudice non ha accertato, nel caso specifico, che è impossibile seguire una interpretazione costituzionalmente corretta (v., ad es., ord. n. 19 del 2003). In sostanza, in base all’indirizzo da ultimo richiamato, la collaborazione viene addirittura perseguita con decisioni processuali, che nel loro insieme costituiscono peraltro un invito ai giudici di ricercare direttamente l’interpretazione conforme a Costituzione limitando il ricorso alla Corte a quei casi in cui la norma appaia effettivamente viziata (con riflessi a mio giudizio sullo stesso modo di intendere la valutazione circa la non manifesta infondatezza della questione). A questa ragione, che risponde anche ad una esigenza di contenimento del contenzioso costituzionale, se ne accompagna un’altra, che sembra caratterizzare i giudizi ad alto tasso di politicità. In questi ultimi casi il ricorso alla interpretazione conforme a Costituzione per risolvere la questione con una decisione processuale o con una sentenza interpretativa di rigetto può essere letto come il frutto di un atteggiamento cauto, espressione della ricerca da parte della Corte di “allentare la tensione” tra i poteri (in tal senso v. G. AZZARITI, Politica e processi, di prossima pubblicazione sul fasc. 1/2004 di Giur. cost.).
Ma fino a qual punto gli strumenti ai quali la Corte ricorre per stimolare la leale collaborazione sono soddisfacenti nei contrasti tra giurisdizione e politica? Con riferimento al giudizio di legittimità costituzionale, una recente pronuncia del maggio 2004 della Cassazione, sezioni unite penali (sent. 17 maggio 2004, n. 23016, Pezzella) alimenta non pochi dubbi circa l’efficacia degli strumenti prescelti dalla Corte costituzionale. In questa decisione si afferma che le sentenze interpretative di rigetto creano un vincolo solo “negativo” e per il solo giudice a quo. Se questa “presa di posizione” dovesse incontrare altri riscontri giurisprudenziali, la richiesta di collaborazione proveniente dalla Corte non potrebbe ovviamente avere seguito, riducendo le pronunce interpretative del tipo qui esaminato a decisioni inutiliter datae.
Problemi si hanno pure sul versante dei conflitti di attribuzione, ove il richiamo alla leale collaborazione da parte della Corte si scontra con un “contrario orientamento degli altri poteri, tendenti alla contrapposizione, se non alla sopraffazione nei reciproci rapporti”. Tant’è vero che, ad esempio, si nutrono forti dubbi sulla praticabilità della via di una “grande intesa tra i massimi soggetti esponenziali (Presidenti delle Camere e presidente della Corte)”, che fissi “criteri” condivisi per la interpretazione dell’art. 68, 1° comma, Cost., permettendo di distinguere le opinioni sindacabili e no (v., ancora G. AZZARITI, op. ult. cit.).
In una prospettiva più generale, non si può che condividere l’opinione di chi ritiene che, perché possa realizzarsi l’equilibrio tra i poteri, “occorre, per un verso, che ciascuno di essi si mantenga nell’ambito della propria competenza, rispettando le competenze altrui, per un altro verso, che si stabilisca un rapporto di collaborazione tra ‘poteri’ che partecipano allo stesso ciclo funzionale”, non esistendo “un soggetto cui spetti in via esclusiva il compito di comporre e di appianare i contrasti tra i poteri”, in quanto la stessa Corte costituzionale ha una limitata “capacità di intervento”. L’equilibrio è realizzabile attraverso la “composizione politica dei contrasti piuttosto che con la decisione giurisdizionale dei conflitti” (così F. SORRENTINO, L’equilibrio istituzionale fra i poteri e la sua garanzia giurisdizionale, in L. LUATTI (a cura di), L’equilibrio tra i poteri nei moderni ordinamenti costituzionali, Torino, 1994, 62 s.)
Sarebbe dunque auspicabile, con specifico ma non esclusivo riferimento al tema delle immunità parlamentari, che siano gli stessi poteri ad agire, avvertendo il rischio di una delegittimazione (G. AZZARITI, op. ult. cit.), nel rispetto del “sistema delineato dalla Costituzione … che vede la responsabilità come regola per tutti i soggetti che esercitano il potere” (L. CARLASSARE, Responsabilità politica e funzioni politico-costituzionali: considerazioni introduttive, in L. CARLASSARE (a cura di), Diritti e responsabilità dei soggetti investiti di potere, Padova, 2003, 20). Ma a questa linea, che trova tracce anche nella giurisprudenza costituzionale, “gli organi politici non intendono adeguarsi, come dimostra il ricorso continuo a modifiche normative per riprendersi la piena libertà” (L. CARLASSARE, Responsabilità politica, cit., 3). Si è già detto, d’altra parte, dei recenti interventi normativi che hanno contribuito a far crescere la tensione tra magistratura e classe politica (si tratta delle norme sulle rogatorie internazionali, sul rientro dei capitali dall’estero, sul falso in bilancio, sul c.d. “legittimo sospetto”, sulla sospensione dei processi nei confronti delle alte cariche dello Stato, alle quali si aggiunga ora il d.d.l. sull’ordinamento giudiziario – A.C. n. 4636) e che hanno fatto dire che “i proscioglimenti si conquistano più agevolmente in Parlamento che non nella aule giudiziarie (pur senza bisogno di ricorrere a strumenti impopolari come le amnistie e simili)” (A. PIZZORUSSO, Politica e giustizia in Italia dal dopoguerra ai nostri giorni, in Questione giustizia, 2002, 802). Di là dalle possibili valutazioni, resta il fatto che da un lato si accusa una parte della magistratura di un uso “politico” dei suoi poteri, dall’altro si imputa all’attuale maggioranza (o almeno alla parte preponderante di essa) di perseguire una politica giudiziaria rivolta a salvaguardare i propri interessi, con interventi normativi comunque rivolti a limitare fortemente il potere giudiziario. La tensione tra magistratura e politica è elevata e il suo inasprimento dovrebbe implicare una riflessione profonda che coinvolga, anzitutto, la questione della crisi della democrazia rappresentativa nell’epoca del maggioritario.
Ma questa, forse, è un’altra storia. O, almeno, è storia che fuoriesce dalle coordinate di questo lavoro, con il quale mi proponevo, semplicemente, di mettere in luce alcuni aspetti della mediazione finora operata dalla Corte costituzionale nei rapporti tra giurisdizione e politica.

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