Il “modello” della sentenza n. 16 del 1978 e il carattere abrogativo del referendum: un ritorno al futuro? *


Tanti sono i temi sollevati dalle cinque richieste referendarie di abrogazione della legge sulla procreazione assistita [quattro delle quali sono state poi ammesse dalla Corte costituzionale]. Vorrei qui però occuparmi di un solo profilo, che peraltro reputo di assoluto rilievo non solo per le vicende legate a queste ultime importanti richieste, ma più in generale per il futuro e la sorte dell’istituto referendario. La questione sulla quale desidero portare l’attenzione riguarda la “incertezza manifesta” della giurisprudenza della Corte, che rende tutte le volte difficile fare delle previsioni circa gli esiti dei giudizi costituzionali di ammissibilità. Pare in effetti sempre azzardato fare scommesse sull’ammissibilità o meno di una richiesta referendaria alla vigilia delle decisioni della Corte.
Una fondamentale ragione che spiega questa imprevedibilità del sindacato costituzionale di ammissibilità è legata alla inesistenza di criteri fermi cui ancorare ogni volta le diverse decisioni della Corte. Non sono in effetti rinvenibili standard di giudizio condivisi dalla dottrina ed affermati da precedenti consolidati, mentre i molteplici principi posti a fondamento delle singole decisioni, pur se ripetuti, appaiono di volta in volta utilizzati in una diversità di significati e con una latitudine di senso tale che non è garantita affatto la loro riaffermazione successiva (almeno nello stesso “rigoroso” significato). Insomma potremmo parlare di assenza di un modello nel controllo di ammissibilità del referendum.
Eppure un modello c’era: quello della sentenza n. 16 del 1978. Una decisione, redatta da Livio Paladin, che, in un breve paragrafo e in poche fulminanti righe, enunciava i quattro criteri di inammissibilità impliciti o logico-sistematici, esplicitamente individuati e ordinatamente elencati. La mia impressione è che la liquefazione del modello, se volete l’interpretazione estensiva ed eterodossa di quei criteri, è avvenuta successivamente.
Vorrei argomentare la mia opinione ricordando anzitutto la vicenda: dopo gli storici referendum di divorzio e aborto, con quella tornata referendaria inizia la stagione dell’uso esteso del referendum. In una sola volta furono raccolte le firme necessarie per otto richieste abrogative di leggi mediante referendum. La Corte costituzionale a sorpresa (ma non c’erano precedenti analoghi) ne boccia quattro. Capisco bene allora lo shock politico (del Comitato promotore in primo luogo), comprendo anche la sorpresa della dottrina e non mi stupiscono dunque le molte resistenze e critiche che furono rivolte a quella decisione. Oggi, la domanda che mi pongo è però la seguente: ventisette anni dopo possiamo riesaminare con più pacatezza quella decisione della Corte?
Il tempo intercorso da quella “storica” decisione ha mostrato una giurisprudenza costituzionale sempre più indeterminata ed ondivaga, caratterizzata da un’applicazione di criteri di inammissibilità sempre più sfuggenti. Viene da chiedersi se questa perdita di certezza – o almeno di prevedibilità – possa farsi risalire a quella primigenia sentenza ovvero, all’opposto, se sia stata causata dell’essersi allontanati dalla ratio che proprio quella decisione “pedagogica” aveva cercato di affermare.
Ricordo anzitutto i quattro criteri individuati dalla sentenza n. 16 del 1978:
1) sono anzitutto inammissibili le richieste relative agli atti legislativi dotati di una forza passiva peculiare;
2) vanno anche preclusi i referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, distinte peraltro, dalla giurisprudenza successiva, dalle leggi a contenuto costituzionalmente obbligatorio;
3) vanno inoltre sottratte al referendum le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’articolo 75 che la preclusione debba ritenersi sottintesa (i c.d. limiti impliciti all’articolo 75);
4) sono infine da escludersi le richieste formulate in modo da contenere una pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria. E’ questo il c.d. limite d’ordine ontologico: il più delicato e il più noto tra i limiti che operano “al di là della lettera dell’art. 75”.
Sulla base di questi quattro criteri furono dichiarati inammissibili le richieste di abrogazione del Concordato, del Codice Militare, dell’Ordinamento giudiziario militare, di 97 articoli del Codice Penale.
La Corte Costituzionale fissando i quattro criteri indicati non ha solo deciso sulle specifiche richieste sottoposte al suo esame ventisette anni fa, ha anche dettato dei principi generali per il futuro: in questo il carattere pedagogico della sentenza. Per giudicare la solidità dei principi posti allora e (secondo la mia opinione) successivamente alterati, basta pensare all’applicazione concretamente fatta: non credo ci sia costituzionalista che possa negare che il Concordato sia una legge con forza passiva peculiare. Se dunque – come ha stabilito la Corte – queste non possono essere soggette a referendum, non v’è da stupirsi della declaratoria di inammissibilità. Non credo si possa negare che l’abrogazione di tutte le disposizioni relative agli organi della giustizia militare in tempo di pace, e dunque la loro totale cancellazione, comporti una surrettizia violazione del contenuto della previsione ex articolo 103 della nostra Costituzione che stabilisce l’esistenza di Tribunali militari in tempo di pace. In questo caso, il contenuto costituzionalmente vincolato appare immediato. A proposito delle disposizioni legislative produttive di effetti collegati in modo stretto all’ambito di operatività delle leggi esplicitamente sottratte al referendum, si può pensare alle leggi di esecuzione dei trattati internazionali, la cui abrogazione per via referendaria impedirebbe la produzione degli effetti delle leggi di autorizzazione della ratifica dei trattati internazionali stessi, queste ultime direttamente richiamate dal secondo comma dell’articolo 75. Non può meravigliare dunque che la Corte, in applicazione del criterio enunciato, ne dichiari l’inammissibilità. Difficile, infine, pensare che 97 articoli del Codice Penale, relativi a molteplici e complesse questioni, possano non incorrere nel limite d’ordine ontologico, risultando insuscettibili di essere ricondotti a quella matrice razionalmente unitaria necessaria per impedire di coartare la possibilità di scelta degli elettori.
Possono evidentemente non piacere i criteri fissati allora dalla Corte, ma non è facile contestare la consequenzialità logica della loro applicazione originaria.
Solo successivamente c’è stata una interpretazione eterodossa e – a volte – troppo estesa di questi stessi criteri. L’indeterminatezza dei giudizi costituzionali in materia referendaria si è prodotta dopo, quando assegnando a quei criteri significati troppo estesi e diversi si è rischiato di fargli perdere gran parte del senso originario. Potrei elencare una quantità di casi per dimostrare l’uso allargato dei criteri di inammissibilità, mi limiterò invece, per ragioni di tempo, ad un unico esempio.
La sentenza n. 2 del 1994 ritenne inammissibili le richieste referendarie relative ad atti legislativi che prevedevano la trasformazione degli enti pubblici economici perché provvedimenti collegati alla legge finanziaria. Con una forzatura la Corte ha ritenuto possibile in questo caso unificare la disciplina di bilancio, stringendo insieme atti normativi di natura diversa e riportandoli tutti nell’ambito di quelle “leggi di bilancio” che costituiscono uno dei limiti espliciti ai referendum. E’ però evidente che in tal modo si è andato a sfumare – se non a perdersi – quel collegamento stretto all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’articolo 75, che la decisione del 1978 invece imponeva. Se si dovessero ritenere inammissibili i referendum ogni volta che gli atti legislativi che si vogliono abrogare si collegano alla legge finanziaria è evidente che il criterio del “limite implicito all’art. 75” si allargherebbe a dismisura, potendo giungere ad impedire tutti i referendum su atti legislativi che prevedono spese (più o meno collegabili a leggi di bilancio in senso atecnico).
Ma quello appena ricordato non è che un esempio. Più in generale la dottrina ha spesso rilevato, nella giurisprudenza successiva al 1978, l’uso di volta in volta esteso ovvero riduttivo dei criteri d’inammissibilità da parte della Corte. Soprattutto, com’è noto, il limite ontologico, e la connessa necessaria matrice unitaria del quesito, hanno subito una pluralità di specificazioni e sono stati utilizzati in una varietà di significati. Qui nasce la difficoltà di controllo dogmatico sulle decisioni della Corte e la loro sostanziale imprevedibilità.
Può essere utile pensare ad un ritorno al rigore delle origini? E’ realistico?
Devo esprimere un ulteriore valutazione sulla giurisprudenza costituzionale in materia di referendum. Oltre ai quattro criteri individuati nel lontano 1978, ritengo che la giurisprudenza successiva abbia evidenziato un possibile ulteriore importante limite di ammissibilità. Evidenziato, ma non definito. Mi riferisco al carattere manipolativo del quesito referendario. La mia impressione è che se si vuole conservare lo spirito (oltre che la lettera) del testo costituzionale, si deve riflettere con serietà ed impegno sulla natura del referendum di cui all’articolo 75 che, come tutti sapete, esplicita il carattere abrogativo dei referendum. Lo dirò in breve e brutalmente (ma ho avuto altre occasioni per argomentarlo): a mio modo di vedere i referendum di carattere manipolativo sono inammissibili. Inammissibile la tecnica del ritaglio, che ha permesso referendum privi di ogni contenuto normativo autonomo; improponibili le richieste di abrogazione di singole parole, di segni linguistici, di punteggiatura, del tutto privi di senso unitario. La Corte, come sapete, ha invece ammesso – senza mai chiarire fino in fondo la questione della manipolabilità dei quesiti, ma ammettendoli in via di fatto – quesiti referendari espressione di una fortissima manipolazione dei testi normativi. Mi auguro che si possa ritornare su questa giurisprudenza al fine di riaffermare la natura abrogativa del referendum; potendosi, forse, attualmente contare sul cambiamento del ciclo “politico” e sul tempo ormai trascorso. I referendum di carattere manipolativo sono stati il frutto di una particolare stagione del nostro sistema politico: tramite la tecnica del ritaglio e della alterazione del testo vigente si sono potuti svolgere i referendum in materia di sistemi elettorali. Passata questa stagione, mi chiedo se si possa tornare a ragionare con pacatezza sulla lettera della Costituzione per chiarire che i referendum di carattere manipolativo sono preclusi, ponendosi in contrasto con la natura propria dei referendum ex articolo 75. Oltre ai quattro criteri in precedenza richiamati, un ulteriore limite per l’ammissibilità verrebbe dunque a porsi. Un vincolo ulteriore che potrebbe non essere gradito ai comitati promotori, ma anche un “costo” politico da far pagare al fine di assicurare il rispetto dei precetti che la costituzione pone: chi vuole rigore, rigore deve dare.
Nella direzione auspicata c’è stato qualche segnale recente della Corte costituzionale. Con la sentenza n. 43 del 2003, relativa alla richiesta abrogativa del c.d. decreto Ronchi in materia ambientale, è stato apertamente affermato il carattere abrogativo del referendum di cui all’articolo 75, e dunque l’inammissibilità delle richieste volte non alla cancellazione di norme, bensì tendenti alla manipolazione, escludendo dunque la possibilità di quesiti concernenti singole parole o locuzioni verbali inespressive di contenuto normativo autonomo.
“Tornare alla Costituzione”: è il titolo del convegno evocato da un intervento precedente, ideato qualche anno fa dagli stessi organizzatori del convegno odierno. Ma tornare alla Costituzione vuol dire anche tornare al testo, dunque anche a riconoscere il carattere propriamente abrogativo del referendum. Tornare alla Costituzione vuol dire anche tornare ad una interpretazione rigorosa dei limiti di ammissibilità, ragionevolmente proprio quelli della sentenza n.16 del 1978.
Ribadisco quanto rilevato inizialmente: non so quello che deciderà la Corte, è sempre difficile fare previsioni in merito all’ammissibilità dei referendum. Desidero però concludere esprimendo un giudizio sul carattere dei referendum in materia di procreazione assistita, alla luce di quanto fin qui espresso. Tutti i diversi quesiti referendari sulla procreazione assistita hanno certamente un carattere abrogativo. Vorrei anche aggiungere che l’oggetto del referendum sulla procreazione assistita riflette lo spirito più proprio dei referendum stessi, che sembrava essersi ormai perduto: uno “spirito” di battaglia per la conquista di diritti civili o per l’espansione di questi, contro coloro i quali ne affievoliscono la tutela, se non addirittura tendono a negarla. Il proposito di abrogare la legge, o parte di essa, sulla procreazione assistita è chiaramente motivato dal giudizio negativo che su tale legge è espresso, ritenendosi questa una legge repressiva di diritti civili, proposta con un ottica punitiva e rivelatrice di una logica forse anche disumana nei confronti di intere categorie di soggetti. Repressione, punizione e disumanità presenti soprattutto in alcune sue disposizioni. Mi auguro che la vicenda che ha portato alla richiesta di abrogazione della legge sulla procreazione assistita possa essere intesa anche come la riscoperta dell’istituto referendario quale strumento al servizio delle grandi battaglie di ordine civile. In questa direzione, che rinsalderebbe le ragioni costituzionali dell’istituto referendario, un contributo decisivo potrebbe venire dalla Corte.
Termino con un auspicio, che potrebbe rivelarsi un’illusione, ma tant’è. Sono ben consapevole della complessità e delle difficoltà che si frappongono al lavoro dei giudici costituzionali, ma non posso non sperare in una Corte Costituzionale che, prendendo la palla al balzo, si impegni nella scrittura di una sentenza manifesto, una sentenza “didattica”, alla stregua della n. 16, magari ristabilendo quei criteri del lontano 1978, ribadendone la validità, ma anche la necessità di interpretarli in modo rigoroso e stretto, non invece di volta in volta. Una decisione che chiarisse, inoltre, che il referendum (ex art. 75) è abrogativo o non è.

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