La questione dell’embrione nel quadro dei principi costituzionali


1.Dal punto di vista del diritto costituzionale, si tratta di stabilire se l’impostazione della legge 19 febbraio 2004 n. 40 sia legittimata dalla Carta repubblicana, o possa configurarsi addirittura come sua necessaria attuazione.
La vigente disciplina della procreazione medicalmente assistita presuppone invero che l’embrione sia titolare del diritto alla vita, cui assicura una garanzia prevalente sulle situazioni soggettive, pure dotate di garanzia costituzionale, di cui sono titolari i numerosi soggetti interessati alla p.m.a..
La Costituzione riconosce sicuramente il diritto alla vita : non tanto in virtù della generale affermazione dell’art. 2 Cost., cui usano riferirsi dottrina e giurisprudenza per legittimare “nuovi” diritti, bensì grazie alle disposizioni che tale diritto presuppongono, come l’art. 32, che riconosce il diritto alla salute e l’art. 27, comma 4, che vieta la pena di morte (A. PACE).
La Carta non si riferisce però all’embrione, né fornisce spunti univoci al riguardo ; e lo stesso può dirsi della giurisprudenza costituzionale, se si considerano attentamente tre avvertenze.
In primo luogo, va ricordato che tutte le sentenze finora adottate dalla Corte si riferiscono al feto già installato nel ventre materno, e non all’embrione formato in vitro fuori di esso. Si tratta infatti per la massima parte di sentenze relative all’aborto ; quando poi la Corte ha invocato la tutela dei nati da fecondazione eterologa, e dei loro diritti nei confronti “di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierli” (sentenza n. 347 del 1998), si riferiva non all’embrione, ma al bambino che, dopo essere venuto al mondo con l’assenso del padre legittimo, era stato disconosciuto da quest’ultimo.
Ora, la differenza tra feto ed embrione in vitro non è irrilevante, dal momento che il primo, venuto ad esistenza per una decisione consapevole dei genitori, è in grado di divenire feto (sia pure con scarse probabilità) soltanto grazie alla ulteriore decisione dei genitori di procedere al trasferimento nell’utero.
Grazie alle tecniche di procreazione assistita, il concepimento viene invero scandito in fasi diverse, che nel loro progredire rendono sempre più tangibile la possibilità della nascita, e pertanto fondano progressivamente maggiori aspettative di tutela ; ma che possono anche deviare o interrompersi. Il fatto è che non si tratta di un processo capace di svilupparsi autonomamente, ma bisognevole di interventi esterni, e in particolare della costante volontà dei genitori diretta a qualificare l’embrione come “progetto di vita” (M. Herdegen).
Se il diritto alla vita è stato riconosciuto al feto, nella sentenza n. 35 del 1997 della Corte costituzionale, ciò non significa dunque che tale riconoscimento debba estendersi automaticamente all’embrione.
In secondo luogo, va considerato il processo che ha spinto la Corte a “maturare”, nel tempo, il riconoscimento del diritto alla vita nei riguardi del feto. Se dapprima, nella sentenza n. 27 del 1975, la Corte si era premurata di chiarire che la tutela della vita e della salute della madre prevale, in caso di conflitto, su quella del nascituro, “che persona ancora non è” ; se in seguito, nella sentenza n. 26 del 1981, la Corte sottolineava la discrezionalità del legislatore nelle scelte attinenti al bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente garantititi ; nella sentenza n. 35 del 1997 è giunta infine a dichiarare inammissibile il referendum teso a liberalizzare l’aborto, affermando che la tutela offerta al nascituro dalla vigente legge rappresenta una tutela minima e pertanto ineliminabile di situazioni costituzionalmente protette.
Il mutamento di accenti è stato giustificato dal giudice costituzionale con l’affermazione che la tutela della vita umana sin dall’inizio si sarebbe progressivamente rafforzata nel diritto internazionale e nella coscienza sociale, sino a configurare un imperativo di natura costituzionale (imperativo che il referendum non è abilitato a rimettere in discussione).
Ebbene, questo processo di maturazione, grazie al quale il nascituro, pur non essendo persona, ha acquisito la pretesa ad una tutela minima del suo diritto alla vita, potrà forse ripetersi in futuro per l’embrione : ma non può certo dirsi compiuto oggi. Il problema relativo allo status di quest’ultimo è relativamente recente, ed è ben lungi dall’essere risolto, nelle coscienze come nelle convenzioni internazionali.
In terzo luogo, si deve considerare che nella giurisprudenza costituzionale il riconoscimento di un “diritto” non espressamente sancito nel testo costituzionale può rappresentare un artificio retorico per enfatizzare l’importanza di un interesse o valore costituzionale, inteso in senso puramente oggettivo.
Emblematico il caso del “diritto all’informazione”, che è una sintesi verbale allusiva al valore del pluralismo dei mezzi di comunicazione di massa, e al riflesso che questo è suscettibile di produrre sulla partecipazione consapevole dei cittadini alla vita del Paese (oltre che sulla formazione politica e culturale, in senso amplissimo, degli stessi). Sicuramente l’aspirazione di fondo, ribadita da ultimo nella sentenza n. 155 del 2002, è quella di assicurare a tutti un’informazione radio-televisiva obbiettiva, imparziale e completa, ma questa aspirazione non è traducibile in pretese giuridicamente protette a vantaggio dei singoli cittadini-utenti (nel caso de quo, è traducibile in un potere di controllo delle autorità pubbliche sul rispetto dei limiti di par condicio nelle campagne elettorali televisive).
Queste considerazioni sono ora confermate dalla sentenza n. 45 del 2005, con la quale è stato dichiarato inammissibile il referendum n. 1, avente ad oggetto l’intera legge 19 febbraio 2004, n. 40. La Corte si limita infatti a rinvenire in materia “una pluralità di rilevanti interessi costituzionali” che richiedono “un livello minimo di tutela legislativa”, senza fare esplicito riferimento a pretesi diritti dell’embrione.
Anche la sentenza n. 48 del 2005, nel ritenere ammissibile la richiesta avente ad oggetto, in particolare, la frase finale dell’art. 1, comma 1, della legge (“che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, ivi compreso il concepito”), ribadisce che il riconoscimento esplicito di “diritti” in capo all’embrione ricade nell’indifferente costituzionale.

2. Secondo alcuni, la legge in vigore si fonderebbe sull’attuazione di impegni internazionali che oggi, a norma del nuovo art. 117 Cost., sono divenuti vincoli di rango costituzionale.
In questo caso la creatività dell’interprete non si esercita sull’art. 2 Cost., che tutela i diritti inviolabili, ma sull’art. 2 della Carta di Nizza, che tutela il diritto alla vita di ogni “individuo”, per desumerne a favore dell’embrione il diritto a nascere. (L’uso del termine “individuo” nell’art. 32 Cost., che tutela il diritto alla salute, era del resto già stato utilizzato in passato come argomento per estendere il riconoscimento al nascituro).
A prescindere dall’efficacia tuttora labile di questo documento, conta però il fatto che la Corte di Strasburgo abbia finora escluso che l’analoga garanzia disposta dall’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo si riferisca al non nato.
Né appare conferente il richiamo all’art.1 del Protocollo addizionale alla Convenzione di Oviedo, là dove vieta “interventi che abbiano per scopo la creazione di un essere umano geneticamente identico ad altro vivo, o morto” (fermo restando che fino a quando l’Italia non depositerà la ratifica del documento in esame, tale documento non potrà ritenersi vincolante per il nostro Paese).
Secondo alcuni, questa norma indicherebbe che l’embrione è considerato a tutti gli effetti “essere umano”. Al di là della possibilità di distinguere tra l’uso del termine “essere umano” in luogo di “persona”, resta però il fatto che la Convenzione di Oviedo (come l’art. 3, comma 2, della Carta di Nizza) intende vietare non la clonazione in sé e per sé, ma soltanto la clonazione a scopo riproduttivo. Ciò che preoccupa è quindi il fatto di destinare la cellula staminale di origine embrionale alla formazione di un nuovo essere umano “completo”, anziché alla formazione di un tessuto o di un organo da trapiantare. In tal senso l’espressione usata dal Protocollo addizionale indica precisamente il risultato che non si può perseguire (non un embrione, ma un bambino vero e proprio, nato dalla clonazione), a differenza di altri.
Questa interpretazione è oggi confermata dalla giurisprudenza costituzionale, là dove (sentenze n. 46 e n. 48 del 2005) ha ritenuto ammissibili sia il referendum n. 2, rivolto all’abrogazione dei “limiti alla ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni”, sia il referendum n. 4, inteso all’abrogazione delle “norme sulle finalità, sui diritti dei soggetti coinvolti e sui limiti all’accesso”. Il giudice costituzionale ha infatti affermato che non vi è contrasto tra la richieste referendarie in esame e i principi contenuti nella Convenzione di Oviedo e nel Protocollo addizionale, dal momento che quest’ultimo si limita a vietare la clonazione umana a scopo riproduttivo – esattamente come l’art. 13, comma 3, lett. c) della legge in vigore, che non è oggetto delle richieste medesime, e rimarrebbe quindi a far parte della c.d. normativa di risulta -.
Com’è noto, il dibattito sui limiti che debbano apporsi, in generale, alla ricerca e alla sperimentazione sugli embrioni a scopo terapeutico è tuttora in corso, sia negli ambienti scientifici che nelle sedi internazionali, e la possibilità di trovare un accordo appare quanto mai lontana. Al contrario di quanto sostiene la tesi qui criticata, sembra che l’uso di termini atecnici (come per l’appunto quello di “essere umano”) sia dovuto alla necessità di non compiere una scelta definitiva, che dividerebbe gli Stati e le coscienze, onde lasciando aperte, rebus sic stantibus, diverse modalità interpretative.

3. In assenza di precise indicazioni costituzionali (e internazionali) al riguardo, il dovere del legislatore di riconoscere all’embrione il diritto alla vita, con preminenza su tutte le altre situazioni soggettive, viene desunto da principi di natura religiosa o morale, che come verità auto-evidenti non potrebbero non trovarsi a fondamento dello stesso testo costituzionale.
Come negare infatti che la Costituzione, che l’intero ordinamento dei diritti, presuppongono il diritto alla vita ?
Equivocando sul significato dell’assolutezza e dell’indisponibilità che caratterizzano i diritti della personalità, si concepisce la vita come un bene o valore superindividuale che si estende a tutti gli esseri viventi (ivi compresi gli animali), e che pretende rispetto anche contro la loro volontà. E’ chiaro peraltro che si considera come giuridica una gerarchia, laddove può essere soltanto morale ; ed è chiaro altresì che non tutti condividono le medesime gerarchie. Basta ricordare che per Norberto Bobbio, la libertà, e non la vita, è il bene supremo.
Per ovviare a queste difficoltà, l’unica via d’uscita sembra ad alcuni quella di affidarsi alla logica del principio maggioritario, compiendo una scelta procedurale invero assai contraddittoria con le premesse universalizzanti cui si fa riferimento.
Si sostiene così che il legislatore possa sempre e comunque compiere una scelta di natura morale. Le obiezioni di natura scientifica non avrebbero spazio al riguardo, perché una scelta morale sarebbe legittima a patto di rispettare (non l’opinione unanime, ma) una delle tante soluzioni scientificamente sostenibili, quand’anche controversa.
In altri termini, si sostiene che la scelta di considerare l’embrione come essere umano compiuto rientra nella discrezionalità del legislatore, anche se non è suffragata dall’evidenza scientifica, e anche se è condivisa soltanto dalla maggioranza (rimanendo aperta la possibilità di rovesciare con il referendum, o con una nuova legge, la scelta in questione )(L. VIOLINI).
Altri hanno obbiettato che in tal modo si viene ad applicare la logica del principio di maggioranza ad una questione che involge scelte personalissime dei soggetti, in contrasto con la garanzia minima offerta dai principi del costituzionalismo : la garanzia di una sfera rispetto alla quale lo Stato si mantenga neutrale, e si astenga dall’ intervenire.
Il richiamo al classico principio di neutralità – sia pure inteso come sospensione del giudizio del legislatore, sino a quando le cognizioni scientifiche e le convinzioni etiche non si siano assestate – rischia tuttavia di apparire come una forma di agnosticismo morale, che il diritto costituzionale moderno non può permettersi. Come è stato osservato, esso deve porsi piuttosto l’obbiettivo di creare un’etica condivisa, mettendo a disposizione uno “spazio pubblico” dove le diverse morali possano confrontarsi e cercare un punto d’incontro (così, in generale, J. HABERMAS ; con specifico riferimento al tema della P.M.A., L. GIANFORMAGGIO).
Non sembra diversa l’ottica sposata dal giudice costituzionale quando – nel valutare la legittimità del limite del “comune sentimento della morale” nei confronti della libertà di manifestazione del pensiero – ha affermato che a norma della Costituzione pluralistica non può esservi tutela della “morale della maggioranza, qual era intesa in passato”, ma soltanto tutela di ciò che “è comune alle diverse morali del nostro tempo” (sentenza n. 293 del 2003).
Se non c’è consenso, nella collettività, su che cosa sia la vita ( e la morte ), il legislatore è dunque abilitato ad intervenire non al fine di affermare un solo punto di vista, ma di consentire la convivenza di più opzioni morali, colte nel loro nucleo minimo. In pratica, si tratta di far valere da un lato il principio di precauzione (che regola le attività ritenute pericolose) nei confronti dei rischi che le pratiche mediche e scientifiche connesse con la P.M.A. presentano ; dall’altro di preservare il contenuto irrinunciabile del diritto alla salute e della libertà di ricerca scientifica (anch’essa peraltro in funzione servente del diritto alla salute per le persone malate).

4. Ciò significa che il legislatore ben può considerare l’embrione in vitro meritevole di tutela, ma è obbligato a contemperare tale tutela con quella delle persone coinvolte dalla p.m.a. o comunque interessate ad essa.
Si consideri al riguardo che la creazione di nuovi diritti, e a maggior ragione di nuovi soggetti, comporta sempre il sacrificio dei diritti già riconosciuti. L’ampliamento delle situazioni di vantaggio è un giuoco a somma zero, che implica necessariamente la creazione di altrettanti nuovi obblighi.
Non è possibile postulare, al riguardo, diritti “assoluti”. La stessa legislazione sull’aborto (resa intangibile dalla già ricordata sentenza n. 35 del 1997) mostra come il diritto alla vita del nascituro non sia assoluto, ma debba essere contemperato con il diritto alla vita e alla salute della madre.
Allo stesso modo, non è assoluto il diritto alla vita del soldato o della soldatessa (E. DENNINGER) ; e neppure quello del comune cittadino, che in conseguenza della politica internazionale perseguita dal proprio Paese (politica che egli potrebbe non condividere) sia esposto a rappresaglie belliche o ad attentati terroristici. Sono questi obblighi di solidarietà imposti dall’appartenenza ad una medesima collettività ; al pari di quello che grava su colui che è ancora in vita, ma cui si applica il concetto legislativo di “morte”, al fine di permettere l’espianto di organi a favore di soggetti ammalati (sentenza n. 44 del 1995).
Difficile non paragonare a quest’ultima la situazione dell’embrione che – formato in vitro a fini riproduttivi, ma dimostratosi inidoneo a tale scopo – possa facilitare la ricerca e la sperimentazione di nuove terapie. Le aspettative di vita (il diritto alla vita) degli ammalati (ritenuti attualmente) incurabili non possono invero essere posti su di un livello subordinato alle aspettative di vita dell’embrione stesso.

5. La Corte ha ribadito la necessità di contemperare la posizione del concepito “con altri beni che godono di tutela costituzionale” fin dalla sentenza n. 27 del 1975. E lo ripete oggi, nella sentenza n. 45 del 2005, già ricordata, là dove afferma che “i rilevanti interessi costituzionali” implicati dalla p.m.a. “postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un minimo di tutela legislativa”.
Nella sentenza n. 48 del 2005, anch’essa già ricordata, la Corte ha aggiunto che importante non è la mera enunciazione della necessità di garantire “i diritti di tutti i soggetti coinvolti”, ma la tutela effettiva che le disposizioni legislative sono in grado di offrire – precisando peraltro che le modalità di tale tutela sono affidate alla discrezionalità del legislatore – .
Tutti gli interessi coinvolti – dice la Corte – debbono godere di una tutela minima, ed è bene a tal fine evitare le affermazioni di principio, le soluzioni tranchant, le gerarchie di valori che inibiscono qualsiasi possibilità di mediazione,
A questa idea corrispondono molte delle proposte di riforma della legge che, pur differenziandosi su alcuni temi fondamentali (in particolare sulla c.d. fecondazione eterologa, che è prevista soltanto nel d.d.l. a firma di G. Amato e altri), ammettono la liceità sia del rifiuto all’impianto, sia della crioconservazione finalizzata all’impianto, sia della diagnosi pre-impianto motivata dalla necessità di non impiantare embrioni geneticamente tarati, sia infine della ricerca scientifica sugli embrioni non trasferiti in utero, previo consenso dei genitori.
Sia pure a condizioni diverse, queste proposte danno quindi cittadinanza a vari diritti che la legge in vigore ignora : il diritto dei genitori a rifiutare il transfer per la sopravvenienza di gravi motivi (eventualmente gli stessi che legittimerebbero l’aborto) ; il diritto della donna a non subire trattamenti dannosi per la salute ; il diritto dei genitori ad avere figli sani, e il diritto dei figli a nascere sani (F. RIMOLI) ; il diritto dei malati (attualmente ritenuti) incurabili ad avvantaggiarsi della ricerca sugli embrioni non altrimenti utilizzabili.
Altri diritti si possono immaginare – come il diritto ad utilizzare nella p.m.a. il seme del marito scomparso, o il diritto di ricorrere all’eterologa per le donne sole – che forse non sono dotati della stessa cogenza dei precedenti, e che quindi si pongono astrattamente sullo stesso piano di altri presupposti dalla legge attuale – come il diritto alla verità biologica del rapporto di filiazione, o come il diritto del figlio ad avere due genitori -.
Va tuttavia precisato che tali ultimi diritti non trovano origine in Costituzione : a termini della quale anzi la formazione dei figli è funzione esercitabile anche da chi non sia il genitore biologico (art. 30, co. 2 e 4), e la tutela della maternità non presuppone l’esistenza di una coppia, stabile o meno (art. 31).
Una nozione ristretta del concetto di famiglia può in verità desumersi dalla Costituzione solo con riguardo alla coppia unita in matrimonio (art. 29, comma 1 ) : ma questa nozione non è recepita dalla legge in vigore, che ammette alla p.m.a. anche le coppie conviventi.
In ogni caso, non si tratta di contrapporre alla rigidità della legge in esame una generica tolleranza : concetto intriso ab origine di condiscendenza verso le minoranze, che il costituzionalismo contemporaneo ha tradotto nella nozione di pluralismo, considerando legittime allo stesso titolo le diverse visioni del mondo presenti nella società.
Si tratta piuttosto di adottare una legislazione a “ maglie larghe” (L. CHIEFFI). Essa lascerebbe spazio all’azione integratrice della giurisprudenza, secondo la logica del caso per caso, consentendo di valutare la novità e la peculiarità delle questioni relative alla P.M.A. alla luce delle circostanze concrete, e di bilanciare volta per volta gli interessi in conflitto in modo più equo e ragionevole.

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