Le prestazioni sociali *

1.Premessa; 2.L’eredità del fascismo e il dibattito all’epoca della Costituente; 3.L’evoluzione del sistema italiano di welfare e le sue specificità; 4.Il sistema italiano e il “modello mediterraneo”; 5.Gli anni novanta: riforme e arretramento; 6. La qualità della vita sessanta anni dopo: Nord e Sud; 7.La riforma del titolo V della Costituzione, il referendum e il semi-scampato pericolo.

Premessa

In questo intervento procederò per periodi e momenti significativi, cominciando dall’epoca della Costituente, anzi dall’eredità che ai Costituenti aveva lasciato il fascismo in materia di politiche sociali e previdenziali. Farò qualche accenno al dibattito, agli orientamenti e alle scelte dell’Assemblea Costituente per passare alle caratteristiche che il sistema italiano di welfare è andato assumendo nel corso della sua crescente espansione, dalla fine degli anni quaranta agli anni ottanta. Esaminerò poi i principali aspetti di riforma e ristrutturazione degli anni novanta, quando ormai l’aspetto centrale del dibattito non era più tanto la questione dell’adeguamento delle politiche sociali ai bisogni della popolazione quanto quello della sostenibilità della spesa o dello squilibrio tra i bisogni e la disponibilità finanziaria da parte dello stato. Infine la parte conclusiva riguarderà la situazione attuale e le prospettive del sistema di welfare italiano tenendo conto sia delle iniziative di ristrutturazione prima indicate, sia delle iniziative attualmente in corso legate alla riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001. Si farà anche riferimento alle proposte di modifica previste dalla legge sulla cosiddetta devolution, respinta dal referendum del 2006: proposte che si innestavano, portandole alle estreme conseguenze, su quelle, non meno dirompenti, previste – o comunque rese possibili – dalla riforma del 2001.

In riferimento ai 60 anni della Costituzione queste ultime iniziative sono quelle più radicali e anche quelle che più si distaccano dalla tradizione italiana nel campo delle prestazioni sociali: non solo da quella indicata dalla Costituzione – in particolare dagli articoli da 32 a 38 – ma anche da quella del periodo fascista e liberale. In nessun caso infatti, prima dell’iniziativa del 2001, era stato messo in discussione l’orientamento nazionale e la competenza nazionale in materia di politiche sociali. Come si vedrà, con tutte le differenze interne relative al funzionamento e alla gestione, il sistema italiano di prestazioni sociali era stato concepito, e si era andato sviluppando secondo un modello strettamente unitario. E tale era stata anche l’impostazione data dalla Costituzione.

Ad esempio, l’art. 38 che è quello cardinale a questo riguardo,recita come segue:

“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti e integrati nello Stato.

L’assistenza privata è libera.”

Come si può notare, nell’articolo si citano distintamente i cittadini e i lavoratori con riferimento a tematiche diverse. Ma per quel che riguarda “i compiti previsti” dall’articolo stesso si fa riferimento a un unico soggetto: lo Stato. E questa impostazione resterà per molti decenni indiscussa. Così, in nessun modo l’istituzione delle regioni – nel 1970 modificherà questa responsabilità statale di fondo e, fino al nuovo millennio, le regioni, che pure avranno compiti operativi e gestionali importanti in materia di prestazioni sociali si pensi solo alla sanità – non potranno decidere le linee di fondo di intervento in materia di prestazioni il cui finanziamento è comunque garantito dallo Stato.

Ma entriamo ora nel merito partendo dalla situazione precedente alla Costituzione e dall’intervento del fascismo che indubbiamente impresse al sistema italiano di welfare alcune connotazioni (in particolare gli aspetti particolaristici e corporativi) dei quali ci si è liberati, per altro solo parzialmente, attraverso un processo lungo e complesso.

  1. L’eredità del fascismo e il dibattito all’epoca della Costituente

Il fascismo – dopo una prima fase di pura repressione e distruzione delle società di mutuo soccorso e delle organizzazioni cooperative di stampo socialista, cattolico e democratico – assume in prima persona la gestione delle politiche sociali rafforzando enti previdenziali che erano già sorti nel periodo precedente o promuovendone di nuovi. Ma a questa organizzazione istituzionale – che sarà oggetto di grande propaganda e retorica e che è al centro delle interpretazioni contemporanee revisioniste del fascismo – corrisponderà nella sostanza una modesta entità delle prestazioni sociali che avevano invece avuto uno slancio nel periodo precedente.

In questo senso l’Italia rispetto agli altri paesi europei arriva molto più tardi alla realizzazione di un moderno sistema di welfare, anche se alcune fondamentali istituzioni sono già create proprio nel periodo fascista. I termini della questione sono ben riassunti da Maurizio Ferrera in un libro del 1984 dove si legge che “Oltre ad una indubitabile espansione sotto il profilo istituzionale e quantitativo, il fascismo impresse al welfare state italiano anche alcuni tratti che ne avrebbero segnato profondamente lo sviluppo futuro. L’espansione fu perseguita attraverso una densa stratificazione normativa che differenziava puntigliosamente le spettanze dei vari gruppi”. Vengono istituiti infatti i grandi istituti previdenziali a carattere nazionale (l’INPS. l’INAIL e l’INAM) e si crea così una solida burocrazia legata al regime. Giustamente, afferma Schinaia [in questo volume pag.* ] che la burocrazia degli enti previdenziali fu burocrazia fascista per eccellenza. La stessa frammentazione delle prestazioni – scrive Ferrera – fu “usata dal regime nella sua politica di consenso; attraverso la penetrazione dell’apparato burocratico tramite i quadri di partito” talché “gli istituti previdenziali divennero importanti pilastri della rete di controllo politico e sociali costruita dal regime”. Molti autori [valga per tutti Enzo Bartocci, 2005] sottolineano come le connotazioni del sistema italiano di welfare, come si evolverà anche dopo la guerra, abbiano avuto una origine e un momento importante di consolidamento durante il periodo fascismo. E Ferrera, nel ritenere che la definizione data da Massimo Paci del modello italiano di welfare come “particolaristico clientelare” sia quella che meglio ne riflette i tratti distintivi, ne ritrova anch’egli l’origine in quel periodo [Ferrera, 1984:35-36]. Se tale è l’eredità del fascismo, va ricordato però che la dialettica tra universalismo e particolarismo compare esplicitamente nel dibattito italiano in occasione della Assemblea Costituente dove si contrappongono una linea che vede il cittadino e una linea che vede il lavoratore (che peraltro versa i contributi) alla base del sistema di welfare.

Il periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo è un periodo di dibattito particolarmente intenso anche sulla tematica delle prestazioni sociali. Come è noto, la tematica è dibattuta anche negli altri paesi europei – anzi il dibattito era iniziato già negli anni del conflitto – in seguito alla pubblicazione del Rapporto Beveridge (Social Security and Allied Services, 1942): di esso si discusse in sede governativa anche nei primi governi democratici e soprattutto di esso si discusse anche in sede di Assemblea Costituente. L’impianto complessivo del Rapporto contrastava, proprio per il suo carattere universalistico, con l’impostazione della politica di prestazioni sociali fino allora in atto nel paese proprio. D’altro canto il modello proposto da Beveridge si differenziava notevolmente anche da quello nel frattempo consolidatesi in altri contesti nazionali in particolare quelli cosiddetti continentali (non solo la Germania, ma anche la Francia). Qualche decennio dopo la pubblicazione del Rapporto, lo studioso inglese Richard Tittmus proponeva una tassonomia dei sistemi di welfare a livello internazionale che considerava tre principali modelli: 1. Quello istituzionale redistributivo che garantisce un livello di prestazioni minimo a tutti i cittadini. Nella letteratura questo modello, che fonda la spesa sociale sulla fiscalità generale,è definito anche universalistico. 2. Quello meritocratico che aggancia quantità e qualità di servizi a particolari condizioni e meriti acquisiti generalmente attraverso il lavoro e riguarda singole categorie di cittadini. (Nella letteratura questo modello è definito anche ‘particolaristico’. E’ quello dei paesi di tradizione di politiche sociali bismarkiana). 3. Quello residuale in base al quale fruiscono delle prestazioni sociali sostanzialmente solo le categorie di cittadini più svantaggiate e per periodi di tempo limitati, che in concreto è quello degli Stati Uniti d’America.

A prescindere dalla eco del Rapporto Beveridge e dagli elementi di novità in esso contenuti, più in generale in Italia si avvertivano chiaramente le carenze e le storture della politica fascista in materia di prestazioni sociali e di conseguenza si avvertiva l’esigenza di una riforma del sistema di protezione sociale, che ne riducesse la frammentazione ed estendesse la platea dei beneficiari e la portata delle prestazioni. E’ così che venne istituita nell’aprile del 1947 la Commissione presieduta da Ludovico D’Aragona. La Commissione propose una radicale modificazione del sistema e dei meccanismi esistenti. I punti più significativi proposti riguardavano: l’estensione della protezione sociale a tutti i lavoratori (dipendenti e indipendenti); l’istituzione di un unico schema (e di un unico ente) per tutti i lavoratori, volto a garantire trattamenti di base uniformi; un’assicurazione globale contro i rischi di inabilità temporanea (dovuta a malattia, maternità, infortuni, disoccupazione), invalidità permanente, vecchiaia e morte del capofamiglia; l’unificazione degli istituti esistenti in un ente unico con graduale applicazione di tal principio; e, infine, l’adozione del sistema finanziario a ripartizione per le pensioni. [Bartocci, 2005]

Come può ben vedersi, si tratta di una piattaforma molto avanzata. E se “Le proposte della Commissione non erano certamente il Rapporto Beveridge” (Bartocci, 2005: 88) Esse avevano tuttavia un approccio nettamente innovativo e di orientamento opposto a quello impresso dalla politica del periodo fascista. Tuttavia “l’insieme delle mozioni fu oggetto di generale disinteresse e nessuna di esse ebbe alcun seguito sul piano legislativo”. Questo perché “molte proposte ledevano interessi e privilegi di numerose categorie già coperte da propri schemi” secondo il modello corporativo ereditato dal fascismo (che privilegiava i dipendenti dello stato e del parastato). D’altro canto anche il clima politico si era già andato modificando nel corso degli ultimo periodo di vita dell’Assemblea Costituente. La commissione D’Aragona chiude i suoi lavori il 2 aprile 1948. Nel frattempo la Costituzione è approvata a dicembre e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 1° gennaio 1948.

In materia di prestazioni sociali le linee fondanti riguardano la salute, la scuola, oltre che la previdenza e l’assistenza. Nell’art. 32 si legge che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Negli artt. 33 e 34, che riguardano la scuola, è stabilito che “la Repubblica detta norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”, mentre “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. La scuola è dunque statale così come lo sono le “norme generali sull’istruzione”. La scuola privata è ammessa purché “senza oneri per lo Stato”. È l’art. 34 che indica il carattere delle prestazioni sociali e le responsabilità dello Stato in materia, indicando al contempo l’obbligo di frequenza per otto anni per i giovani. Il secondo comma dell’art. recita infatti che “l’istruzione inferiore impartita per almeno 8 anni è obbligatoria e gratuita”. Il terzo comma indica che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i più alti gradi degli studi”. E l’ultimo comma fa riferimento al modo in cui questo diritto allo studio (anche ai “gradi più alti”) viene garantito dallo Stato.

È da notare, per inciso, che l’effettiva messa in pratica del diritto all’istruzione dell’obbligo verrà realizzata solo una dozzina di anni dopo, nel periodo del centro-sinistra, con l’istituzione della scuola media unificata e la creazione di istituti di scuola secondaria in tutto il paese, nelle aree ricche come in quelle povere, realizzando uno dei momenti di maggiore avanzata sociale e civile del paese.

Tornando all’articolo 38, per quanto riguarda il carattere, la natura e i beneficiari delle prestazioni sociali di base, emerge chiarissima la distinzione tra assistenza e previdenza con un ruolo assolutamente privilegiato di quest’ultima, che per altro spetta al lavoratore (non al cittadino in generale). E’ sempre Bartocci a sottolineare che “Mentre l’art. 38 al comma 1 afferma che il cittadino, se inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, al comma 2 stabilisce che il “diritto alla previdenza” spetta soltanto ai lavoratori – confermando con ciò la linea tradizionale lungo la quale si è sviluppato il nostro sistema di protezione sociale – ai quali devono essere assicurate le prestazioni previste dalle assicurazioni obbligatorie in caso di infortunio sul lavoro, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. E Persiani fa notare che “L’effetto congiunto del peso dell’esperienza corporativa e della naturale vischiosità che si oppone a qualsiasi riforma, privilegiando il permanere delle concezioni tradizionali, fecero sì che l’articolo in oggetto risultò, ed entro certi limiti tutt’ora rimane, una formula ambigua”[Persiani::237]. Questa linea di separazione, per altro teorica, tra previdenza e assistenza risulterà vincente anche perché a favore di essa si schierarono in generale le organizzazioni del movimento operaio, che attribuivano un valore superiore alla previdenza, come specifica area di intervento a garanzia dei lavoratori (e fondata sui loro contributi).

Un’altra presa di posizione dei sindacati in quel dibattito, che però non ha alcun riflesso nel testo della Costituzione, riguardava i soggetti beneficiari della previdenza, i lavoratori. I sindacati infatti erano preoccupati per i rischi connessi all’estensione delle prestazioni previdenziali ai lavoratori autonomi. E si vedrà che la preoccupazione non era del tutto infondata. Ma la linea meno restrittiva risultò vincente: il riferimento nel testo costituzionale è ai “lavoratori” tout court senza specificazione della loro condizione.

Equivoci e confusioni hanno invece nei decenni successivi riguardato la concreta applicazione del principio di separazione tra previdenza e assistenza. Nelle organizzazioni del movimento operaio si é denunciata la congiunzione ed enfatizzata la differenza tra i due istituti, riferendo la prima ad un diritto dei lavoratori – in quanto autori dei versamenti contributivi – alle diverse forme di sicurezza sociale: dalle pensioni di invalidità alle pensioni di vecchiaia, alle indennità di disoccupazione. Per assistenza si intendeva, e si intende tuttora, un insieme di misure a carattere residuale destinate alle persone bisognose o inabili al lavoro. Concretamente le due funzioni assistenziali e previdenziali evidenziate nel dibattito alla Assemblea Costituente saranno sempre intrecciate tra di loro nella concreta gestione delle prestazioni sociali e un motivo conduttore della tradizionale critica dei sindacati italiani al welfare state riguarda proprio questo intreccio. In altri termini il sindacato ha sempre criticato il fatto che le funzioni di assistenza e protezione sociale dei cittadini deboli e bisognosi sono state realizzate a spese, in senso letterale, dei lavoratori che hanno versato i contributi previdenziali. In effetti la situazione è ancora più complessa: lo stesso movimento sindacale si é per molti anni mobilitato affinché delle persone bisognose – ai margini o escluse dal mercato del lavoro – potessero accedere a forme previdenziali, in quanto mancati lavoratori o ex-lavoratori. Si é trattato evidentemente di una forzatura resa necessaria faut de mieiu all’ideologia lavorista alla base del sistema di welfare italiano. La necessità di fornire un reddito a vittime del mercato del lavoro, che non potevano accedere ai benefici del sistema previdenziale per non aver versato i contributi, ha determinato dei canali di accesso basati su un uso improprio e esteso del sistema di previdenza. Si dovrà aspettare la fine degli anni novanta con la legge n. 328 per avere un intervento legislativo serio in materia di assistenza e soprattutto un intervento volto ad affrontare direttamente la questione della povertà delle persone e delle famiglie, dando piena cittadinanza alla problematica dell’assistenza. Ma per un lungo periodo questa tematica sarà assolutamente sottovalutata all’interno del sistema italiano di welfare.

Le contraddizioni principali nelle quali si é dibattuto il sistema italiano di welfare per quel che riguarda il tema della previdenza possono essere così riassunte: a) in primo luogo prevale anche nelle organizzazioni dei lavoratori la scelta particolaristico-meritocratica; b) in secondo luogo questa scelta é contraddetta dal notevole squilibrio tra versamenti (in proporzioni molto modesti) e prestazioni per larghe categorie di lavoratori; c) in terzo luogo questo squilibrio riguarda in particolar modo i lavoratori autonomi, che hanno percepito sostanziosi contributi pensionistici a fronte di versamenti davvero irrisori; d) anche tra i lavoratori dipendenti si possono individuare categorie privilegiate destinatarie di contributi welfaristici: si tratta in primo luogo dei lavoratori dell’agricoltura e comunque di lavoratori precari concentrati nelle aree più povere del paese; e) nelle aree povere i benefici legati al sistema di prestazioni sociali non sono solo pensioni o indennità di disoccupazione, ma anche e soprattutto sussidi e indennità di malattia; f in ultimo, per l’intreccio tra la scelta particolaristico-lavorista e la visione familistica dominante, la protezione accordata alle donne e ai giovani (minori e in cerca di occupazione) è assicurata solo in quanto membri della famiglia del lavoratore (maschio adulto) e a suo carico. Di questo daremo conto nei paragrafi che seguono.

  1. L’evoluzione del sitema italianodi welfare e le sue specificità

Il sistema italiano di prestazioni sociali – e di conseguenza anche la qualità della vita – riflette in primo luogo le caratteristiche di fondo dello sviluppo economico del Paese, cioè un profondo dualismo tra regioni del Nord e regioni del Sud: le prime caratterizzate da un più alto grado di sviluppo economico e da bassi tassi di disoccupazione, le seconde caratterizzate ancora da elementi di arretratezza economica, quale ad esempio da un elevato tasso di occupazione agricola, un basso grado di industrializzazione (e una precoce deindustrializzazione) e una modesta presenza femminile nel mercato del lavoro.

Questa situazione è frutto di una eredità storica significativa riguardante le caratteristiche strutturali dell’economia italiana e la sua evoluzione. L’Italia è arrivata più tardi alla realizzazione di un sistema moderno di welfare non solo per effetto delle vicende politiche, compresa la fase del fascismo, ma anche per effetto di un più tardivo decollo dell’economia in senso industriale. La struttura occupazionale italiana è stata per molti anni molto arretrata rispetto a quella degli altri paesi europei sviluppati (quelli dell’Europa continentale e l’Inghilterra in primo luogo) e simile per molti versi a quella dei paesi dell’Europa mediterranea, presentando non a caso profonde similitudini nel sistema di welfare con questi paesi. Forse l’aspetto più significativo della specificità italiana è rappresentato dal peso dell’agricoltura e dell’occupazione agricola in tutto il paese. Ancora agli inizi degli anni Cinquanta il tasso di occupazione agricola nel paese superava il 30% e in molte aree del Mezzogiorno gli occupati in agricoltura erano la maggioranza. Comunque la dimensione numerica della classe operaia industriale, che è stata la protagonista delle mobilitazioni per lo sviluppo dei moderni sistemi di welfare nei principali paesi europei, era minoritaria.

A questa arretratezza contribuì significativamente la fase di ristagno del periodo fascista che congelò sulla terra una grandissima quantità della sovrappopolazione relativa. Le politiche di ruralizzazione e contadinizzazione del fascismo determinarono eccedenze di forza lavoro soprattutto in agricoltura destinate poi a dare origine ai grandi fenomeni di esodo agricolo e rurale e di emigrazione sia all’interno che all’estero.

L’Italia è dunque per un lungo periodo paese agricolo industriale con una struttura sociale che riflette queste caratteristiche dell’economia. Oltre alla presenza significativa di ceti agricoli in condizione di lavoratori indipendenti (coltivatori diretti grandi e piccoli), c’è quella dei mezzadri e di altre figure di lavoratori agricoli associati all’impresa. E ancora per un lungo periodo, negli anni di sviluppo del dopoguerra, resta significativa la presenza di lavoratori autonomi del settore dell’artigianato e dei servizi: caratteristica importante soprattutto per le regioni del Mezzogiorno. E d’altronde, anche se si considerano i protagonisti dello sviluppo del sistema italiano di welfare fin dagli albori una categoria agricola svolge un ruolo fondamentale: si tratta dei lavoratori agricoli dipendenti, i braccianti. Già nel periodo immediatamente prefascista e nel periodo giolittiano questa categoria, debole sul piano del reddito e dell’occupazione, aveva acquistato in alcune aree del paese una notevole forza sindacale che l’aveva portata a godere, oltre che di alcuni intereventi di politica occupazionale anche delle garanzie nel campo delle prestazioni sociali. Soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale queste garanzie si concretizzano in schemi di assicurazione contro la disoccupazione e successivamente in una serie di coperture previdenziali riguardanti anche la condizione specifica della donna bracciante. E proprio all’interno dei meccanismi particolaristici che hanno sempre caratterizzato il sistema italiano di prestazioni sociali le categorie bracciantili (sempre fortemente precarie sul piano occupazionale) sono riuscite a ottenere elevate garanzie sul piano previdenziale (e in sostanza anche assistenziale), contrariamente ad altre categorie provenienti dagli stessi ambienti economici e sociali, quali ad esempio i lavoratori dell’edilizia. Una categoria economicamente e socialmente debole quale era quella dei braccianti agricoli, diventa così beneficiaria forte all’interno del sistema italiano di welfare.

In conclusione per quel che riguarda l’effettiva individuazione dei soggetti maggiormente beneficiari del sistema italiano di welfare nell’epoca della sua espansione, si può dire che essi vanno sicuramente individuati nei ceti medi, siano essi lavoratori autonomi (artigiani, commercianti e soprattutto contadini), siano essi lavoratori dipendenti (impiegati statali). Si tratta di una versione tutta italiana del welfare paradox che non riguarda i ceti medi in generale ma quelli che hanno avuto un maggior (e per molti versi specifico) ruolo nella società e nella politica italiana. Un caso interessante è rappresentato come si è detto, dai contadini, la cui principale organizzazione corporativa, la Federazione Italiana Coltivatori Diretti (la “Bonomiana”), farà della politica previdenziale uno dei suoi punti di maggior forza. E sarà il principale partito di governo, la Democrazia Cristiana, a consolidare il suo potere grazie al consenso ottenuto tramite una benevola e largheggiante politica previdenziale (come ben metterà in luce Alessandro Pizzorno in un noto saggio dal titolo “I ceti medi nel meccanismo del consenso” [Pizzorno 1976]).

Le prestazioni sociali diventano così uno dei pilastri del modello di sviluppo italiano del dopoguerra nel quale alla incapacità di garantire sufficienti livelli occupazionali e sufficienti livelli di reddito da lavoro si supplisce attraverso un flusso di reddito a carattere assistenziale. Ciò comporterà anche una lettura esagerata degli effetti perversi del sistema di welfare italiano: lettura che porrà l’accento sul carattere assistenziale e sugli sprechi del sistema, sottovalutando invece gli aspetti positivi connessi al miglioramento dei livelli di vita.

Non che le distorsioni mancassero, così come gli sprechi e la incapacità di soddisfare le esigenze della popolazione in materia per carenze qualitative e quantitative. Il sistema di welfare italiano, soprattutto nelle regioni più povere, ha teso a privilegiare trasferimenti monetari anziché servizi. Come conseguenza di tutto ciò nelle regioni più povere (il Mezzogiorno), a fronte di una elevata spesa pensionistica, si é sempre avuto una carenza dei servizi di welfare; e la priorità accordata storicamente alle pensioni di anzianità e di vecchiaia rispetto ad altre forme di trasferimenti monetari ha finito per privilegiare i lavoratori anziani, a scapito dei lavoratori giovani soprattutto dei giovani in cerca di prima occupazione.

Tutto questo in una cornice per cui il soggetto beneficiario del welfare state in linea di principio in Italia é esplicitamente non il cittadino, ma il lavoratore. I benefici di cui egli gode gli spettano per la sua collocazione rispetto al lavoro, cioè in quanto lavoratore, ex lavoratore, lavoratore disoccupato, lavoratore invalido. L’ideologia lavorista del sistema italiano di welfare da una parte lo allontanava (almeno per quel che riguarda la previdenza sociale) da un modello universalista, dall’altro lo portava però a rifiutare il riferimento, tipico dei sistemi residuali, ad una platea di poveri, ai quali andava destinata l’assistenza. Il periodo che va dal dopoguerra alla vigilia degli anni novanta sono anni di riduzione sostanziale dell’assistenza diretta ai poveri in quanto tali, che in Italia ha avuto un peso significativo solo fino agli anni cinquanta. Ma a questi stessi poveri veniva invece fornita una forma di assistenza sotto forma di sussidi o pensioni per malattia (per le quali si è solitamente largheggiato). L’altro canale di assistenza é stato per un lungo periodo l’accesso estremamente facile alle stesse pensioni di anzianità di lavoratori, soprattutto autonomi, che avevano versato contributi in maniera estremamente irrisoria.

Nelle aree economicamente più deboli del Paese il settore dei servizi sociali ha rappresentato esso stesso un fattore di ulteriore svantaggio relativo nelle condizioni di vita. Il divario tra le diverse aree territoriali di Italia non é determinato solo da disuguaglianze nei livelli di sviluppo economico, bensì anche dal diverso funzionamento del sistema di welfare per l’entità e la qualità dei servizi. Questa differenza nella qualità dei servizi e nella qualità della vita ad essa collegata non é tuttavia l’effetto della esistenza di diversi sistemi di welfare al Nord e al Sud, giacché l’Italia ha avuto fino a oggi un sistema di protezioni sociali istituzionalmente uniforme e largamente centralizzato.

Insomma l’evoluzione del sistema italiano di welfare l’ha portato lontano dal modello proposto dalla Commissione D’Aragona e ha largamente mantenuto i limiti del modello particolaristico ereditati dal sistema consolidatesi anteguerra, con i problemi connessi a profondi meccanismi clientelari nella gestione (Paci 198*, Ascoli 198*) soprattutto nel Mezzogiorno. Tuttavia esso ha avuto nei decenni successivi alla promulgazione della Costituzione una tale espansione da incidere radicalmente sulle condizioni di vita della popolazione grazie a una espansione della spesa pubblica nel campo delle prestazioni sociali indubbiamente paragonabile a quella degli altri paesi europei sviluppati

C’è infine una qualche correzione da apportare allo schema fin qui presentato riguardante la sottolineatura del carattere “meritocratico” e particolaristico. In effetti questo carattere è stato largamente vero fino agli anni settanta, cioè fino a che un intervento di enorme portata – che va ben oltre il dettato costituzionale – cioè l’introduzione del servizio sanitario nazionale non determinerà l’estensione a tutti i cittadini, a prescindere dalla loro collocazione. Ricordo che l’articolo 32, dopo aver affermato che “la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo”, aggiunge che “garantisce cure gratuite agli indigenti”. Questa limitazione agli indigenti scompare con l’istituzione del SSN e l’assistenza sanitaria riguardava ora tutti i cittadini, non solo dunque i lavoratori e le persone a loro carico. Anche la spesa pubblica sanitaria andrà aumentando significativamente nel corso degli anni. Essa rappresenterà negli anni novanta uno dei punti alla base del dibattito sui costi della spesa sociale e rispetto ai quali più varie saranno le proposte e i tentativi di riduzione. Ma di questo ci occuperemo nel paragrafo che segue e in quello finale relativo ai processi di regionalizzazione della spesa sociale.

  1. Il sistema italiano e il modello mediterraneo.

Per comprendere i fenomeni prima descritti e le caratteristiche del sistema italiano di prestazioni sociali è opportuno inquadrare il sistema in un più generale contesto sociale e istituzionale. I paesi del sud Europa (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo) – pur essendo profondamente diversi tra loro per livello di sviluppo economico, per struttura dell’occupazione, per tradizioni storiche – sono tuttavia accomunati da alcune importanti caratteristiche sociali, in particolare da un ruolo centrale della famiglia nella economia e nella società e nello stesso sistema di welfare. E’ questo che spinge a di parlare di un modello mediterraneo di welfare. Esso si fonda su alcuni tratti caratteristici: in primo luogo un elevato grado di frammentazione, con differenti sistemi di sostegno per diffe­renti segmenti della popolazione e un dualismo tra beneficiari “forti” e “deboli”, soprattutto per ciò che riguarda il sistema di sicurezza sociale; in secondo luogo una tradizionale prevalenza di trasferimenti monetari alle persone rispetto alla fornitura diretta di servizi sociali; in terzo luogo l’istituzione relativamente recente di servizi sanitari nazionali (basati sul principio della protezione universalistica e standardizzata con benefici uniformi nell’intero paese); infine, come si é già detto, un ruolo centrale della famiglia nel compensare le carenze del welfare state o nello svolgere funzioni che in altri paesi sviluppati sono proprie del welfare state.

Esaminando più in dettaglio questi tratti caratteristici, essi possono essere illustrati come segue:

1) Nei paesi mediterranei l’incidenza della spesa sociale sul Pil è più bassa che nella media Europea, con una eccezione per l’Italia che presenta una incidenza prossima a quella Europea. Per converso all’interno della spesa sociale la spesa pensionistica ha una incidenza largamente superiore rispetto alla media europea. Più in generale in tutti i paesi mediterranei si osserva un prevalere delle prestazioni in danaro rispetto alla fornitura di servizi o per lo meno un peso dei primi (come si dice in gergo benefits in cash) rispetto ai secondi (benefits in kind) rispetto ai modelli europei del Nord. E questo in Italia è vero soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno. Ai trasferimenti monetari relativi alle pensioni vanno poi aggiunti tutti quei trasferimenti di carattere assistenziale (sussidi di invalidità e altro) che hanno sempre avuto un ruolo di rilievo nel Mezzogiorno.

2) Nel modello mediterraneo si registra, proprio per effetto del suo carattere particolaristico, una sostanziale dicotomia tra soggetti forti e soggetti deboli, per cui alcuni strati della popolazione godono pienamente delle prestazioni sociali mentre altri sono virtualmente esclusi dal sistema quali beneficiari diretti (si tratta soprattutto delle donne non presenti nel mercato del lavoro e giovani). E’ interessante notare come i soggetti beneficiari forti siano gli stessi in tutti i paesi: si pensi alle politiche di sostegno del reddito tramite le prestazioni sociali ai lavoratori agricoli strutturalmente sottoccupati in questi paesi. Questa connotazione è a sua volta il riflesso dell’orientamento lavoristico prevalente in tutti i sistemi di welfare dei paesi mediterranei a partire appunto da quello italiano. Il risultato, che contraddice gli obiettivi di eguaglianza nel campo delle prestazioni sociali, è che proprio le persone che sono meno ben collocate nel mercato del lavoro lo sono anche nel sistema di welfare (appunto i giovani e le donne di ambiente urbano metropolitano, soprattutto nelle città del Mezzogiorno).

3) Effettivamente – a parziale correzione di quanto sopra affermato – in tutti questi paesi c’è stata una evoluzione in senso universalistico del sistema di welfare espresso ad esempio dall’intervento sanitario e dall’esistenza di servizi sanitari nazionali. Tutto questo però ha solo corretto, come si evidenziato per l’Italia, lo schema prevalente, giacché gli elementi particolaristici restano comunque in vita. Il tardivo intervento in questa materia spiega anche il prevalere dei trasferimenti monetari sui servizi, cui prima si è accennato.

4) L’ultima connotazione è la particolare struttura del welfare mix e in sostanza del peso e del ruolo relativo dei tre attori centrali nella fornitura dei servizi di protezione sociale: il mercato, lo Stato e la famiglia. Soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia quest’ultima ha avuto sempre un ruolo determinante, tant’è che sulle specificità dell’Italia e del Mezzogiorno e delle possibilità offerte dal familismo si sono costruite una immagine e una serie di rappresentazioni che alla prova dei fatti reggono sempre meno.In altri termini, man mano che aumentavano i bisogni e le discrasie tra domanda sociale e offerta di servizi corrispondenti, la famiglia è stata caricata da ruoli e responsabilità crescenti. Ciò, proprio nel momento in cui la famiglia veniva a trovarsi sempre meno all’altezza di affrontare tali responsabilità per effetto delle trasformazioni demografiche e degli stessi processi di evoluzione culturale e di emancipazione della componente femminile della popolazione, compresa una sua maggiore presenza nel mercato del lavoro. Questo carico eccessivo di responsabilità della famiglia, in supplenza anche delle mancate prestazioni sociali, è un problema di tutti i sistemi mediterranei, così come dappertutto è in crisi il vecchio equilibrio che si reggeva sulla disponibilità della famiglia fornire servizi diversamente assenti.

Anche a questo proposito è opportuno un riferimento al welfare mix ed al ruolo che giocano anche stato e mercato. L’assistenza agli anziani è sempre più frequentemente fornita da lavoratori (anzi lavoratrici) stranieri la cui forza lavoro è acquistata sul mercato. Ma la spesa effettuata dalle famiglie in effetti e in parte, più o meno larga, ricompensato dallo stato attraverso i versamenti per pensioni e sussidi (invalidità, accompagnamento) agli anziani. Questo complesso intreccio sostituisce forme forse meno costose di fornitura di servizi diretti da parte dello stato (assistenza domiciliare e altro) come in altri paesi sviluppati

Queste connotazioni ‘mediterranee’ del sistema di welfare sono particolarmente evidenti nel Mezzogiorno. Il fatto è che le differenze nella struttura economica e occupazionale tra Nord e Sud corrispondono a differenze nella struttura sociale nelle due aree, ad esempio ad un diverso peso della classe operaia e delle organizzazioni sindacali, ad una diversa cultura dei diritti, una diversa partecipazione.

Queste stesse differenze molto probabilmente faranno sentire i loro effetti, in termini negativi, anche nei processi di riforma del welfare state. I processi di riduzione della spesa di welfare in atto anche in Italia avverranno infatti attraverso forme cosiddette di devolution, con una attribuzione di costi e carichi crescenti agli enti locali che avranno l’effetto di aumentare le differenze interne al Paese.

  1. Gli anni novanta: riforme e arretramento

L’evoluzione in direzione dell’universalismo per alcuni decenni ha corrisposto anche una significativa estensione dell’intervento dello stato, che però trova un punto di crisi negli anni ’90 quando il problema della “insostenibilità della spesa per il welfare” comincia a divenire il punto centrale di dibattito. Si parte proprio nell’area della sanità con le iniziative dei due governi Amato e Ciampi e, agli inizi degli anni ’90, si comincia a parlare di riduzione della spesa e di razionalizzazione. L’aziendalizzazione nella sanità è il segno di questa esigenza, innovativa sul piano organizzativo e del risparmio, ma non certo innovativa sul piano della capacità di rispondere in maniera nuova alle esigenze sociali. Questa privatizzazione non riguarda semplicemente l’area sanitaria ma è un qualcosa di più complesso che comprende tutte le aree del welfare.

La volontà di rivedere il sistema di welfare trova a un certo punto un suo strumento nella “Commissione per lo studio delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale”. Come si vede nel nome della commissione non c’è riferimento a bisogni, non si parla di servizi, ma di compatibilità economiche. La Commissione presenterà un quadro piuttosto preoccupante, ma non ancora devastante, del sistema di welfare italiano.

I principi che hanno governato quella stagione di riforme sono stati diversi, ma intrecciati fra di loro, in particolare vanno ricordati la “regionalizzazione”, intesa come trasferimento progressivo di competenze, in particolare nell’ambito delle politiche sociali, alle regioni e ai comuni; la razionalizzazione, o, meglio, i tentativi di razionalizzazione della spesa, della quale la citata aziendalizzazione delle strutture sanitarie è stata la principale espressione (e con l’obiettivo di garantire il contenimento della spesa), e infine la privatizzazione, intesa sia come progressiva crescita del ricorso ai privati, ovviamente sempre sulla base finanziamento pubblico, per una serie di servizi, sia come ricorso ai principi ispiratori delle aziende private sul piano organizzativo. Va sottolineato, per inciso, anche il fatto che riforme e cambiamenti, di segno sostanzialmente convergente, hanno avuto luogo nel decennio in tutti i paesi europei nonostante differenze negli orientamenti politici dei governi. L’esigenza di contenere e razionalizzare la spesa pubblica da un lato e quella di venire incontro a nuove esigenze e a nuovi bisogni dall’altro non si sono espresse solo in Italia. Ma il nostro paese ha vissuto una stagione di riforme particolarmente intensa.

A livello nazionale il più importante intervento, che darà corso a una stagione nuova nel campo della previdenza sociale è rappresentato dalla cosiddetta “Riforma Dini” con la quale si dà inizio a una drastica riduzione della spesa pro-capite e delle prestazioni pensionistiche. C’è anche il passaggio dal cosiddetto criterio retributivo al sistema contributivo. Naturalmente la spesa complessiva, nonostante la diminuzione della spesa pro-capite, non diminuisce a causa delle trasformazioni demografiche del paese l’incremento del peso relativo della popolazione anziana. E questo è un tema di grande attualità oggi, rispetto al quale va forse denunciata una sorta di ossessione demografica, con l’ingenua pretesa che l’innalzamento dell’età di pensionamento risolverebbe seriamente i problemi della spesa sociale per gli anziani e manterrebbe l’equilibrio nel sistema italiano di welfare. Il fatto invece è che la grande spesa non sta nelle pensioni, ma nei costi generali, medici e di altro genere, pubblici e privati che la gestione dell’allungamento della vita comporta

Nel corso di tutto il decennio l’intreccio tra dinamiche della popolazione ed esigenze di adeguamento delle politiche sociali è stato molto evidente, così come diffusa è stata la coscienza della rilevanza della questione. E non a caso gli interventi legislativi in materia sono stati molteplici e di rilievo, anche se con risultati non sempre positivi. Anzi, in qualche caso c’è stato un peggioramento delle condizioni di vita di alcuni settori della popolazione per effetto della riduzione della spesa sociale o per il carattere degli interventi effettuati. Ma ciò non toglie rilevanza alla questione dell’inadeguatezza del tradizionale intervento di welfare, quale era andato affermandosi in tutta Europa nei decenni scorsi e soprattutto nei “trente gloriouses”, gli anni di grande sviluppo economico del dopoguerra. In Italia le esigenze di intervento e di riforma derivano anche dalle specifiche contraddizioni del modello di welfare mediterraneo nel quale il nostro paese rientra pienamente: un modello – come si è illustrato nel precedente paragrafo – fondato sulla forte incidenza della spesa previdenziale e pensionistica, un peso troppo elevato dei trasferimenti monetari rispetto ai servizi forniti, una debolezza di politiche attive del lavoro, un carico eccessivo imposto alle famiglie per le funzioni di cura in assenza di adeguate politiche sociali.tutto ciò con l’aggravante di una serie di carenze nel funzionamento dei servizi e relativo cattivo uso di risorse pubbliche.

Le esigenze di riforma erano dunque evidenti. E non solo per problemi di controllo della spesa pubblica, anche se a questo ci si riferisce generalmente quando si parla della crisi dei sistemi di welfare. Gli interventi e le leggi di riforma hanno avuto un’indubbia origine nell’eccessivo carico finanziario ma ci sono state altre spinte al cambiamento e sono emersi progressivamente interrogativi relativi alla capacità del sistema nazionale di welfare di soddisfare nuovi e tradizionali bisogni dei cittadini.

Per concludere su questo aspetto va detto che nel corso degli anni novanta – così come nel decennio precedente – si è a lungo parlato di crisi e di arretramento del welfare state. Ma anche su questo bisogna fare chiarezza. Un recente testo edito negli Stati Uniti, dal titolo Diminishing Welfare, tenta proprio di rispondere a questa questione con riferimento all’Italia e ad altre società più avanzate, mostrando quanto c’è stato di arretramento, quanto di puro e semplice adeguamento e quanto, infine, di un’ulteriore crescita, almeno in alcuni ambiti, come mostra il persistente aumento della spesa. In altri termini, è opportuno cercare di valutare quanto si tratta di effettiva riduzione con tagli alla spesa sociale che danneggiano il servizio e quanto è riforma e trasformazione in senso equo ed efficace. Che di una riforma radicale dei sistemi di welfare in Europa ci fosse necessità è un dato scontato. Il problema è che tipo di riforme servono e – elemento da non sottovalutare – in base a quali motivi di crisi.

  1. La qualità della vita sessanta anni dopo: Nord e Sud

Questo tipo di discussione che va avanti fino a buona parte degli anni novanta, tutta incentrata sulla questione della riduzione della spesa per le prestazioni sociali; ma non tocca il ruolo dello stato e la responsabilità nazionale nella fornitura delle prestazioni sociali. E’ con l’affermarsi nella politica italiana del partito della Lega Nord che si affaccia la questione del trasferimento – fino alla esclusività – delle competenze e dei costi nelle politiche sociali alle regioni. E qui è di nuovo necessaria una digressione sulle caratteristiche specifiche del sistema italiano di welfare rispetto al diverso tipo di finanziamento delle prestazioni. L’arretramento – il, forse, necessario arretramento – degli anni novanta sulla questione della previdenza e specificamente delle pensioni non intaccava in alcun modo il meccanismo centralizzato di questo ambito di prestazioni. Il carattere centrale del finanziamento, garantito in linea teorica dai contributi e significativamente integrato per alcune categorie dalla fiscalità generale, non è stato messo in discussione. Ben diversa è invece la situazione per quel che attiene a un altro ambito di prestazioni, che negli ultimi decenni del secolo è diventato sempre più rilevante nella spesa pubblica sociale, e per il quale il passaggio dell’effettiva competenza alle regioni sta già comportando seri problemi.

Queste tematiche sono state affrontate anche a un convegno organizzato dall’istituto da me diretto negli ultimi sei anni (Irpps-Cnr) e tenutosi a Cava de’ Tirreni a ridosso del Referendum, con il quale si è inteso approfondire il discorso e tentare di dar luogo ad una nuova fase del dibattito incentrata non più solo sui rischi che un’accelerazione ai processi di decentramento regionale (come voluto dalla respinta legge Bossi-Berlusconi) avrebbe potuto comportare ma anche e soprattutto su possibili effetti che i passi già compiuti in quella comportano. E infatti la questione che resta tutt’ora aperta è quella data dall’eredità e dai rischi connessi all’applicazione della legge di riforma del Titolo V della Costituzione emanata a suo tempo nel 2001 a fine legislatura. A questo aspetto dedicano la loro attenzioni alcuni contributi presentati in quel convegno e pubblicati in un Quaderno di Demotrends (2007). Ad essi si farà soprattutto riferimento nel prosieguo di questo saggio.

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Ma prima di entrare nel merito specifico degli interventi già in atto, del dibattito e delle proposte, è bene riferire sommariamente alcuni aspetti della situazione ereditata a fine millennio proprio per quel che attiene alla qualità della vita. E’ ovvio che non sono state solo le prestazioni sociali, il loro carattere e la loro articolazione territoriale a determinare, ma anche e soprattutto il grado e gli aspetti dello sviluppo economico e occupazionale,a queste hanno ruolo e un peso fondamentale e per alcuni versi anche specificamente misurabile. Si pensi ad esempio a livelli di povertà economica di determinate categorie (ad esempio gli anziani) prima o dopo i versamenti previdenziali. Le prestazioni sociali re-distribuiscono, controbilanciando in effetti gli esiti di una distribuzione del reddito non capace di garantire le libertà e l’autonomia della persona.

Alle differenze e alle ingiustizie di classe si sono sempre sommate nel nostro paese profonde disparità territoriali. Sul piano della qualità della vita il primo è più significativo indicatore può essere dato proprio dalla entità e dalle caratteristi che della povertà economica. Le differenze di reddito –e di conseguenza la portata e il significato della povertà sono abissalmente diverse da quelle che potevano registrarsi all’epoca della Costituente. Quel tipo di miseria rurale e urbana messa in evidenza dall’Inchiesta parlamentare sulla miseria non esiste più. Ed fatti si parla di “povertà relativa”.

Ma gli indicatori di povertà. Nelle regioni meridionali del Paese risiedono rispettivamente il 32,3% delle famiglie e il 35,6% della popolazione, ma ben il 69,8% delle famiglie povere e il 72,4% delle persone povere. In termini assoluti le famiglie povere residenti nel Mezzogiorno sono 1milione e 805mila, quasi quattro volte di più di quelle residenti nel Nord (510mila). Dove l’entità della povertà è più modesta, e cioè al Centro-Nord, risulta anche maggiore l’incidenza di gruppi sociali specifici o di individui con traiettorie di vita o connotazioni individuali particolari. Dove essa è più diffusa – nelle Regioni meridionali – l’incidenza di questi gruppi è più modesta (anche se in numeri assoluti essi possono rappresentare una realtà significativa). Qui è inoltre maggiore l’incidenza della povertà tra le famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori e in quelle i cui membri (a cominciare dal capo-famiglia) trovano difficoltà nel mercato del lavoro (per mancanza di lavoro o per il carattere precario e poco retribuito della occupazione o delle varie occupazioni svolte. (Morlicchio 2006)

Mentre nel corso degli anni novanta monta la retorica antimeridionale e sullo statalismo estremo già in pratica degli elementi di controtendenza rispetto al passato sono già evidenti. Così ad esempio Domenicantonio Fausto fa notare come l’incidenza delle entrate tributarie locali sulle spese correnti dei comuni sia aumentata progressivamente negli ultimi quindici anni, mentre la percentuale dei trasferimenti da parte dello stato sia diminuita e che questa tendenza si è espressa con particolare gravità nel Mezzogiorno. Anche per quel che riguarda la spesa pubblica l’analisi riporta dati spesso sottostimati, quali ad esempio il differente aumento della spesa stessa tra Sud (+1,7%) e Centro-Nord (+2,8%). [Fausto, 2006] Insomma già ben prima del referendum la solidarietà nazionale in questo campo era andata affievolendosi, almeno per quel che riguarda la fiscalità..

  1. Riforma del titolo V, il referendum e il semi-scampato pericolo

Ma procediamo con ordine partendo dagli aspetti della legge riformata attualmente in vigore (dal titolo V “novellato”) Per Gianni Ferrara [2007] i due pilastri del testo attualmente in vigore sono riassunti dal federalismo fiscale che risulta iniquo se si tiene conto della diversa condizione economica delle regioni italiane e dalla contrazione del principio di eguaglianza espressa dal riferimento ai “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. In questo modo, sostiene Ferrara, i diritti civili e sociali, costituzionalmente garantiti a tutti i cittadini, vengono degradati a interessi protetti a seconda delle capacità fiscali delle singole regioni. Inoltre va ricordato, per quel che riguarda il federalismo, che nelle esperienze storiche conosciutesi è trattato di un processo che ha trasformato una pluralità di entità in un’unità, mentre nel caso italiano si tratterebbe del processo opposto, che parte da una realtà unitaria producendo frammentazione. Ferrara, partendo dal clima politico e culturale che ha portato alla promulgazione della legge di riforma del Titolo V nel 2001, sottolinea la rilevanza e la portata dei risultati referendari che dovrebbero far riflettere non solo sulla proposta di legge abrogata ma anche sulla riforma approvata a suo tempo (e attualmente in vigore ancorché molto parzialmente applicata).

A due anni di distanza vale comunque la pena di un breve commento relativo al progetto di riforma costituzionale contenuto nella legge respinta. E, per inciso, non è forse inutile fare anche un minimo di chiarezza sul significato e l’uso dei termini usati nel dibattito, a partire in primo luogo dal termine devolution. Sarebbe stato molto più chiaro e opportuno, soprattutto a livello istituzionale e di dibattito pubblico, parlare di “nuovi poteri regionali” o, nel caso che ci riguarda, di “regionalizzazione della spesa per le politiche sociali” e relativo finanziamento delle stesse, anziché usare un termine destinato a creare comunque ambiguità (in particolare nel settore della istruzione e della sanità). D’altronde l’uso improprio fatto in Italia di questo termine della lingua inglese è stato da più parti denunciato non solo perché espressione di provincialismo, ma anche per la confusione che esso tende a generare. Nella tradizione della Gran Bretagna infatti la devolution si riferisce soprattutto alla creazione di nuove istituzioni di governo a livello decentrato. In America invece negli ultimi decenni la devolution ha avuto il puro e semplice significato di trasferire agli enti locali – senza alcuna modifica istituzionale – la spesa per le politiche sociali, impoverendola. Nel primo caso, (modello inglese), l’accento è posto sul rafforzamento dei compiti istituzionali e del potere legislativo delle regioni (o degli stati costituenti l’Unione), con tutto quel che implica per l’unità dello stato nazionale, nel secondo caso l’accento è posto semplicemente sul progressivo scaricare sulle regioni l’onere della spesa per l’assistenza gestita a livello locale. E nella legge bocciata dal Referendum le implicazioni di entrambi gli obiettivi erano evidenti, anche se con l’intento di soddisfare settori diversi dell’opinione pubblica e della base politico-elettorale.

La riforma proposta faceva prevalere – così come in larga parte anche la legge di riforma costituzionale approvata – la ragione delle singole realtà territoriali, e in particolare delle regioni più ricche, relegando il principio di solidarietà a un ruolo residuale. Essa trovava la sua base ideologica nell’insofferenza per una situazione in cui le regioni del Nord sarebbero costrette a farsi carico del ritardo delle regioni meridionali. Insomma si basava anche sul mito del Nord costretto a mantenere un Sud parassitario, largamente smentito dalla documentazione fattuale.

In base alla legge sottoposta al Referendum lo stato avrebbe dovuto rinunciare a competenze – e soprattutto a responsabilità – riguardanti le condizioni di vita della gente. Un fatto importante è che con la nuova proposta di riforma del Titolo V della Costituzione si rischiava di dare un arresto definitivo al processo di affermazione dei diritti sociali di cittadinanza garantiti egualmente a tutte le persone appartenenti al paese. In altri termini veniva messo in discussione – e praticamente negato – il principio della solidarietà territoriale che è stato elemento basilare dello stesso concetto di stato unitario. A questa versione punitiva della regionalizzazione se ne aggiungeva un’altra, ben più insidiosa, basata sull’ideologia del “mettere le regioni del Mezzogiorno di fronte alle proprie responsabilità”. Che ci sia stato del malgoverno a livello regionale negli ambiti delle politiche sociali è innegabile: non è un fatto nuovo. E certamente esso si è aggravato in alcuni contesti: basti pensare alla questione della sanità nelle regioni del Mezzogiorno Ma qui è opportuno distinguere nettamente le questioni di cattiva gestione, che pure esistono e sono generalizzate, da quelle ancora più importanti di carenza dei servizi sociali di base in contesti poveri: tanto per fare un esempio, la mancanza di asili nido e di strutture di scuole materne pubbliche. La loro assenza in molte realtà meridionali non è effetto del malgoverno – o comunque certamente non è solo effetto del malgoverno – ma soprattutto della ancora insufficiente spesa sociale in materia.

E’ inutile dire che la riforma rigettata dal Referendum avrebbe acuito le differenze esistenti a livello regionale per quel che attiene alle possibilità di accesso ai servizi di welfare ed avrebbe “regionalizzato”, per così dire, i diritti sociali di cittadinanza. All’obiettivo perseguito nei decenni delle grandi riforme democratiche del paese (dalla scuola degli anni ‘60 alla sanità degli anni ‘70 e ‘80) si sarebbe passato a una situazione in cui la povertà di partenza avrebbe dovuto necessariamente riflettersi in un più ridotto accesso ai benefici delle politiche sociali, vale a dire ai diritti sociali di cittadinanza. Ai grandi obiettivi di superamento degli squilibri regionali – non realizzato ma sempre proclamato – la legge respinta sostituiva proclamazione della legittimità degli squilibri. Basti pensare al nuovo testo dell’articolo 117 della nuova legge secondo il quale “spetta alle regioni la potestà legislativa esclusiva” in materia di assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, e di definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione. È proprio su questo termine, esclusiva che a distanza di sessanta anni si può misurare l’abissale distanza con gli orientamenti della Costituzione. Allo Stato, secondo il nuovo testo dell’articolo, sarebbe rimasta la competenza relativa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, con la specificazione però che tale competenza in materia di sanità e istruzione riguarderebbe le “norme generali”. In questo modo il ruolo dello Stato si sarebbe ridotto alla semplice enunciazione di linee guida che le regioni, con la loro esclusiva competenza, avrebbero tradotto – anche in rapporto alla lori disponibilità finanziaria – in effettive linee operative

Domenicantonio Fausto a proposito del cosiddetto federalismo fiscale, ribadisce la stessa preoccupazione espressa da Ferrara sui rischi che l’attribuzione agli enti locali della responsabilità di una “politica fiscale autonoma che renda compatibili spese e servizi” comporta in termini di disuguaglianze regionali in contrasto con i principi di solidarietà sociale sanciti dalla Costituzione. Infine – sostiene Fausto – il federalismo fiscale non comporta neanche una semplificazione del sistema dei tributi. E insiste sul fatto che il processo potrebbe muoversi nella direzione di un drenaggio di risorse da parte delle regioni a reddito più elevato ed essere anche fonte di conflitto tra le regioni.

La discussione sui contenuti e le implicazioni di un legge respinta potrebbe apparire oziosa se – oltre agli elementi di netta distinzione – non esistessero anche degli elementi di continuità altrettanto forti con l’approvata (e vigente) riforma del Titolo V della Costituzione, i cui contenuti generali possono prestarsi anche a interpretazioni forti con conseguenti implementazioni a livello regionale decisamente indirizzate nel senso dell’autonomia legislativa e fiscale e quindi con forti differenze nell’ambito delle politiche sociali. Le implicazioni che il decentramento previsto dal Titolo V – nel quadro politico e culturale espresso dalla sconfitta della devolution – potevano (e possono ancora) avere per il Mezzogiorno sono notevoli . Preso atto dell’esito del Referendum, la maggior parte delle forze che hanno ottenuto l’abrogazione non hanno portato avanti l’analisi e si sono limitate alla difesa della precedente Riforma che la legge respinta avrebbe voluto superare. Bisognerebbe ripartire proprio dal significato e dei principi ispiratori di quella che è attualmente la legge in vigore, mettendo in luce come i rischi di ingiustizia fiscale, di incremento delle disparità sociali a livello territoriale e in ultima analisi di divisione nel paese, oltre che di impoverimento del sistema di welfare meridionale potevano (e possono) già paventarsi come possibile sviluppo e implementazione della riforma del Titolo V della Costituzione. La partita è aperta.

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