Può la Costituzione europea non essere una Costituzione in senso moderno?

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Relazione al Convegno “Una Costituzione per l’Unione Europea: sovranità, rappresentanza,competenze, processo costituente”, organizzato dal Centro studi sul federalismo e tenutosi a Torino il 22 e 23 novembre 2002.

1.- Intorno alla costituzione europea (per ora usiamo questo termine in modo intuitivo: e cioè nel corrente significato concettualmente indeterminato connesso all’attività della Convenzione) si sono sviluppati due amplissimi campi di letteratura: quello che nel passato ha accompagnato l’elaborazione del diritto dell’UE, sottolineandone – a seconda dei contrapposti punti di vista – i potenziali, o attuali, tratti costituzionali, e che oggi rappresenta il risvolto critico-propositivo dei lavori “costituenti”; e quello che analizza il nuovo assetto delle relazioni internazionali cercando di ridefinire, al loro interno, la natura della UE come soggetto geopolitico.
Senza entrare in questi campi, mi limiterò a presentare alcune considerazioni sui problemi evocati dall’applicazione del termine “costituzione” all’attuale, e in fieri, assetto istituzionale dell’UE. L’argomento ha formato oggetto di una discussione sterminata: spero di non limitarmi a variazioni e ripetizioni scolastiche e pedanti, ma di dare un piccolo contributo alla formulazione di definizioni stipulative che – utilizzate ad docendum – potrebbero aiutare a comprendere meglio la discussione “pratica” (a ordinarla, a rendere più nettamente percepibili le alternative in campo), e anche – se utilizzate ad iubendum – a rendere più chiare le conseguenze implicite nelle diverse opzioni (per quanto il nesso di “doverosa consequenzialità” tra la scelta dell’uno o dell’altro modello e i rispettivi sviluppi organizzativi da sancire nel diritto positivo sia un nesso normativo solo in senso esperienziale, e non certo giuridico).
Questa impostazione è ovviamente polemica con quanti sostengono l’inapplicabilità delle categorie del costituzionalismo classico alle vicende europee in atto. Se è certo che bisogna guardarsi dalla tirannia dei dogmi e che le categorie sedimentate non vanno trattate come letti di Procuste, è altrettanto certo che non possiamo pensare se non attraverso il linguaggio che abbiamo ereditato, e che quindi le proclamazioni volte a sbarazzarsene di fronte al carattere inedito dei problemi (che è un topos stucchevole di molta letteratura) rappresenta solo una fuga dalla responsabilità dello scienziato. Scienziato che è “tenuto” ad utilizzare le categorie della disciplina non per mettere le braghe al mondo, ma per verificare gli scostamenti e le innovazioni che l’esperienza presenta, e che non potrebbero neppure essere concettualizzate se non si facesse riferimento ad idealtipi presupposti come strumenti di osservazione.

2.- Si possono – sulla base di queste premesse – svolgere le seguenti brevi osservazioni.
2a) Se si ritiene che il concetto di costituzione sia indissolubilmente legato a quello di nazione l’UE non ha, né può per ora avere, una costituzione. Sul tema si è scritto moltissimo, e basteranno dunque pochi cenni.
Non è un problema di parole. Il legame nazione-costituzione sta a significare che, perché si possa parlare di costituzione, è necessaria una precedente unità politica, della quale la costituzione è forma, ma della quale non è causa. Se si presuppone questo legame, inevitabilmente si utilizza quello che Schmitt definisce il concetto positivo di costituzione: la costituzione come atto che contiene la decisione fondamentale sulla specie e sulla forma dell’unità politica. Sia le rivoluzioni inglesi del 1648 e del 1689 sia le rivoluzioni americana e francese hanno concepito la costituzione in questo modo. Il problema non era “far esistere” una unità politica (la nazione, il popolo: un “noi” consapevole di sé), ma dare ad essa una forma piuttosto che un’altra. Questo filone di pensiero, che è quello che ha dominato il costituzionalismo moderno (e che anziché con le parole di Schmitt potrebbe benissimo essere espresso con quelle di Sieyés o di Thomas Paine o di Burke: la sostanza non cambia), se applicato alle vicende dell’unificazione europea, non conduce a riconoscervi un processo costituente.
E’ ovvio che all’interno di questa concezione del nesso tra costituzione e nazione va tracciata una grande divisione dalle profondissime implicazioni politiche e morali: tra quella 2a.1) che intende la nazione in senso artificialista, volontarista, elettivista, universalista, assimilazionista (in cui l’identità nazionale è concepita come identità politica, e la cittadinanza è definita dallo ius soli), e quella 2a.2) che la intende in senso naturalista, tradizionalista, nativista, particolarista e differenzialista (in cui l’identità nazionale è concepita come identità culturale e la cittadinanza è definita dallo ius sanguinis). Se si muove da questa seconda concezione, il traguardo della costituzione europea appare – in una prospettiva storica plausibilmente prevedibile – irrealizzabile (oltre che indesiderabile, ma questo è un giudizio di valore soggettivo). Se si muove dalla prima, la prospettiva appare raggiungibile, ma comunque di lungo periodo, perché richiede il formarsi di una “società politica” unitariamente rappresentabile che oggi ancora non esiste (in quanto sono ancora embrionali le identità politiche di dimensione europea la cui esistenza, e il cui conflitto, sono il prerequisito perché si possa parlare di un popolo europeo come sostrato di una costituzione democratica europea).
Lasciando in disparte i modelli di nazione etno-naturalistici (e quelli storici à la Burke, in cui la storia si trascolora in natura) – modelli che non sono comunque da sottovalutare come inesorabilmente recessivi, perché dimostrano tuttora una vitalità capace di esprimersi, seppure in pieghe marginali delle società europee, con virulenza – la questione, volendo rimanere all’interno di queste coordinate, e dunque limitandoci a prendere in considerazione l’idea artificialista di nazione – dipende dalla possibilità e dai tempi di maturazione di un sistema politico europeo: quando questo sistema politico (meglio usare questa espressione dal significato sorvegliato che non il generico riferimento al “demos”) si sarà formato, allora potrà esserci costituzione.

2b) Ma in che cosa consiste, da quali sintomi si deduce, l’esistenza di un sistema politico europeo europeo?
Anche qui – all’interno dell’opzione prima descritta come 2a.1 – ci troviamo davanti ad una summa divisio, che intercorre tra 2b.1) chi crede che i diritti di partecipazione politica siano il completamento dei diritti di libertà economica e civile, e 2b.2) chi crede, al contrario, che essi siano discontinui rispetto a questi ultimi; tra chi crede che l’esercizio della democrazia sia una sorta di prolungamento omogeneo dell’esercizio delle libertà economiche e civili, e chi crede invece che il nucleo e la ragion d’essere della democrazia stia nella necessità di consentire e contenere l’azione di identità collettive che proseguono in forma secolarizzata la lotta religiosa; la lotta intorno a principi ultimi non negoziabili.
Chi ragiona nel primo modo sarà più indulgente e ottimista, e sarà portato a sostenere che il mercato unico (soprattutto) e la Carta di Nizza realizzano già, di per sé, o stanno comunque realizzando, l'”elemento personale” di un sistema politico, perché creano le arene di dimensione europea per l’esercizio delle libertà economiche e civili da parte di un complesso di soggetti giuridici che interagiscono, e agiscono nei confronti dell’Unione, indipendentemente dall’appartenere ad uno Stato membro, ponendo così la base oggettiva per la successiva loro rappresentanza politica unitaria. E’ vero che il parlamento europeo è ancora debole, ma, in quest’ottica – nella quale, ripeto, quel che conta per l’ontologia del “popolo europeo” è il godimento di uguali diritti di libertà economica e civile: l’esistenza di una “comunità di diritto” – anche la rappresentanza nazionale viene riferita ad un alcunché di già unificato in un “corpo maggiore”.
A questo mix di artificialismo politico e di rational choice guardano con perplessità coloro che ritengono che i diritti di libertà economica e civile (la libertà dei moderni) non portino affatto, di per sé, alla democrazia, e non ne giustifichino affatto la necessità. La possibilità (ed anzi la desiderabilità) del loro godimento scisso dalla partecipazione politica è stata rivendicata ab origine – da Constant, come è arcinoto – ed è stata ampiamente comprovata dalla storia dei regimi oligarchici liberali. La ragion d’essere storica della democrazia non consiste dunque – per i sostenitori di questo punto di vista – nello sviluppo del ceppo rappresentato dai diritti di libertà economica e civile e nel loro naturale allargarsi al campo della politica, ma nello strutturarsi di un conflitto sociale e politico che “ha bisogno” dei diritti di partecipazione perché le parti contrapposte possano esercitare – in forme pacificate dal diritto oggettivo – il loro “diritto di conversione” (Pizzorno), e cioè la lotta per l’affermazione dei loro principi identitari. In questa prospettiva ci sarà un sistema politico europeo solo quando emergeranno in modo nitido linee di spaccatura di dimensione europea sorrette da soggetti collettivi di analoga dimensione: solo allora si potrà propriamente parlare di una costituzione (democratica).
Queste ultime considerazioni ci hanno condotto fuori dell’ipotesi di partenza (la costituzione come “forma” di un’unità politica presupposta) e ci hanno condotto ad un’ipotesi diversa: la costituzione come armistizio, che disarma e procedimentalizza il conflitto politico costituendo un’unità politica prima inesistente.
Si può dunque tracciare questo quadro di sintesi delle fondamentali idee di costituzione cui raffrontare il processo in atto di trasformazione delle istituzioni dell’Unione:
a) costituzione come forma di un’unità politica presupposta come dato etno-culturale o tradizionale;
b) costituzione come forma di un’unità politica presupposta come dato valoriale o ideale;
c) costituzione come elemento causale di un’unità politica non presupposta, che essa stessa fa essere realizzando un armistizio tra parti politiche diverse.
Ponendoci dunque dal punto di vista di questo filone (complessivamente inteso) del costituzionalismo classico, fondato sull’indissolubilità del nesso costituzione-nazione, si dovrebbe dire che l’applicazione attuale del concetto di costituzione alle istituzioni europee non è corretto sotto nessuno dei tre modelli richiamati: non c’è (per fortuna) una nazione in senso etnico-culturale; non c’è una nazione interpretata come “comunità di diritto pubblico” ideale; non c’è un conflitto in atto tra soggetti sociali che cercano strategicamente nella costituzione lo strumento necessario della loro convivenza futura.
Va da sé che il carattere meta-nazionale o meta-statuale della costituzione europea non aggira né modifica quanto sinora detto. E’ chiaro infatti che l’unità politica di cui la costituzione è o solo forma, oppure, insieme, forma e causa di esistenza, è l’unità di una società (o di una nazione, che dir si voglia): non un’unità di stati che hanno risolto al loro interno il problema della loro unità politica. In quest’ottica, in altre parole, anche la costituzione di uno stato federale va vista come una costituzione che è innanzi tutto forma (o forma e causa) dell’unità politica di tutto il popolo della federazione, e non di un’unione di stati i cui popoli sono considerati – dal punto di vista della loro unità politica – come delle monadi.

2c) La tripartizione sopra descritta, se riferita non tanto allo stato di fatto, ma alle retoriche in corso, mette in evidenza un altro dato: che i tentativi per sostenere la legittimazione della costituzione europea in fieri sono condotti essenzialmente in nome dei modelli sub 2b – e, per fortuna in modo minore, sub 2a – e cioè utilizzando e riproducendo lo schema idealistico che ha accompagnato il formarsi degli stati-nazione, in forza del quale lo Stato è l’espressione di una comunità ideale (di sangue o di spirito, a seconda delle vie che l’idealismo ha intrapreso) ad esso immanente. La discussione sul “preambolo” della bozza in discussione dimostra come questo non sia pensato per proiettarsi sul futuro in funzione programmatica e garantistica, quanto piuttosto per esprimere elementi ideal-identitari presupposti.

3) Ma perché parlare di “costituzione”, mettendo in gioco queste difficoltà concettuali, e non parlare semplicemente di revisione dei Trattati e di una loro semplificazione anche a fini simbolici, enucleando un Trattato fondamentale, fraseggiato in linguaggio costituzionale? Un Trattato che intensifichi e razionalizzi i legami comunitari, ma senza complicare il discorso con allusioni – che inevitabilmente il concetto di costituzione trascina con sé – al futuro carattere statuale delle istituzioni comunitarie e al presunto attuale carattere nazionale dell’insieme dei popoli europei? Questa è la domanda ordinante: qual è il bisogno che ha spinto e spinge a parlare di costituzione?
E’ necessario sottolineare con chiarezza che le guerre in Afghanistan e in Iraq (della quale ultima possiamo tenere conto a seguito dei ritardi intervenuti nella revisione di questa relazione) e la resistenza (seppur poi piegata) dell’ONU – contestuali al maturare dell’allargamento ad Est, e dunque all’urgenza assunta dai conseguenti problemi di riassetto istituzionale – hanno segnato uno spartiacque rispetto al passato.
Fino all’irrompere di questi eventi il discorso sulla costituzione europea era infatti (oltre che il classico e nobile programma federalista) un discorso essenzialmente di giuristi, che vedevano tale costituzione come il compimento dell’ordinamento giuridico comunitario che, nei fatti, si era venuto instaurando e perfezionando. Un compimento lineare che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso una sorta di codificazione e razionale sviluppo di principi acquisiti.
Porre il problema della costituzione nei termini di un riconoscimento/fondazione di un ordinamento giuridico anziché in quelli di un’affermazione di sovranità è senz’altro saggio, come Kelsen insegna, ma occorre – proprio seguendo l’insegnamento kelseniano – che siano presenti le condizioni perché il compromesso costituente si presenti come “via di salvezza” ineludibile, come atto necessario per la sublimazione del conflitto politico in procedimenti giuridicizzati. Ma non era questo il discorso dominante. Il mix di massimalismo giuridico e minimalismo politico (secondo l’efficace espressione di Cantaro: la proclamazione dell’urgenza della costituzione e la disattenzione verso i problemi di sistema socio-politico) si reggevano, piuttosto, sulla concezione irenistica (poi smentita dalla guerra) della “fine dello stato” e della sovranità nel mondo globalizzato, e su una straordinaria fiducia nell’autosufficienza del discorso giuridico. Fiducia in forza della quale si vagheggiava che le democrazie europee, al cui interno le basi materiali dello Stato costituzionale realizzatosi durante i Trenta gloriosi anni (dal 1947 al 1977) erano state smembrate e spazzate via, avrebbero potuto produrre una costituzione che perfezionasse e migliorasse il quadro normativo stabilito nel dopoguerra. In questo contesto, da un lato si usava il concetto di costituzione astraendolo dal problema dell’unità politica (presupposta o costituenda), o meglio, considerandolo risolto in quanto superato, dissolto, da una concezione schumpeteriana della democrazia che travolgeva, con il suo funzionalismo debole, i confini delle identità nazionali e politiche; dall’altro, proprio per questo, non potendosi condurre il discorso nei termini del costituzionalismo moderno, si ricorreva a pezzi di costituzionalismo antico. Da un lato si sottolineava il carattere tramandato, di “eredità comune”, del patrimonio costituzionale europeo, dall’altro la natura “autoreggente” della costituzione europea, legittimata dalla necessità e dall’efficienza delle prestazioni offerte dalle sue istituzioni (usando un linguaggio simile a quello con cui Mommsen descriveva il guscio vuoto dell’impero romano: vuoto di partecipazione, ma efficiente nell’amministrazione); oppure, puntando sulla “glocalizzazione”, si evocavano suggestioni neo-althusiane, di piccole patrie tenute in reciproco equilibrio attraverso una saggia applicazione del principio di sussidiarietà; oppure ancora, si istituivano parallelismi tra le istituzioni dell’Unione e quelle dell’ordine medievale: accomunate, appunto, dall’essere forme di unificazione dall’alto. Il più chiaro sintomo del diffondersi – nella fase anteriore alle guerre mediorientali – di una forma di pensiero avvicinabile al costituzionalismo antico è stato l’abbandono dell’idea che la costituzione sia un atto consapevole, un atto compiuto in un momento storico preciso con la volontà di fare una costituzione. Basti pensare a tutte le posizioni che sostenevano che l’UE avesse già una costituzione, fondandosi sull’idea che quest’ultima non possa consistere in altro che nell’obbiettiva forma che le sue istituzioni assumono sotto la spinta di eventi tortuosi e discontinui: la costituzione come momento dell’essere e non del dover essere, come forma plasmata dai processi politici, e rilevabile ex post a fini essenzialmente conoscitivi.

4) Le guerre (e, più ampiamente, i complessivi indirizzi della politica estera USA), l’incancrenirsi della questione palestinese, l’incognita di una questione islamica planetaria, il venire al pettine dei nodi dell’allargamento (nodi di assetto interno: quelli del processo decisionale; ed esterno, quelli del rapporto con la Nato) hanno messo il problema della costituzione europea con i piedi per terra e hanno generato un discorso nuovo, il cui fulcro è costituito dal timore di non poter concorrere alla formazione dell’ordine geopolitico che stabilizzerà le attuali tensioni. Per una straordinaria astuzia della storia il problema della resistenza all’unilateralismo statunitense è venuto a coincidere, temporalmente, con il momento conclusivo della riorganizzazione istituzionale resa necessaria dall’allargamento. La ricerca della capacità decisionale interna si è così saldata con quella di una minima unità in politica estera, che consentisse all’UE di muovere i primi passi come soggetto geopolitico. Ma le difficoltà sono state subito enormi. Anche se presente – ed anzi, incombente – il problema dei rapporti nord-atlantici non sta però condizionando direttamente ed esplicitamente l’elaborazione della costituzione europea: non è la molla (visibile) che spinge fuori dell’orizzonte dei Trattati. Questa molla è la disuguaglianza tra gli stati dell’Unione.
Prima dell’allargamento, gli argomenti addotti in favore della scrittura di una costituzione si infrangevano inesorabilmente contro l’obiezione secondo cui tutti i consolidamenti e le razionalizzazioni che venivano raccolte sotto questo termine così impegnativo (a prescindere, ovviamente, dalle richieste dei federalisti radicali) potevano benissimo essere realizzate attraverso una modificazione dei Trattati, lasciandone inalterata la natura westfaliana. Per quanto il metodo comunitario si fosse esteso a discapito del metodo intergovernativo, restava chiara, infatti, la parità originaria degli Stati, e il loro “diritto” di essere, in quanto tali (in quanto, si potrebbe dire, “pari” per loro diritto originario) i decisori ultimi.
E’ questa parità contrattuale originaria che oggi è venuta meno. L’ampliamento porterà inevitabilmente o a rendere più autonome le istituzioni dell’Unione da tutti gli stati, se prevarrà il principio comunitario, o a renderle più autonome da alcuni degli stati, se prevarrà il principio intergovernativo, perché quest’ultimo verrà inevitabilmente inteso come comportante una redistribuzione del peso politico degli stati, a favore di quelli maggiori, e dunque un allontanamento dal principio della loro parità originaria. Nel primo caso si avrà, per così dire, una “passivizzazione” della parità; nel secondo, un’alterazione.
Da qui, dunque, il bisogno di costituzione: per sostenere l’evolversi dell’UE in un soggetto che sta realizzando, nei confronti degli stati (con le differenze che si sono appena dette), una sorta di “rappresentanza” che non può più essere direttamente imputata ad ordinari trattati perché non è più coerente con l’uguaglianza originaria presupposta dal diritto internazionale. Agli occhi dei sostenitori del principio comunitario, l’insostenibilità del modello fondato esclusivamente sui Trattati deriva dalla quantità e qualità delle competenze che la Commissione e il Parlamento europeo dovrebbero avere. Oltre un certo livello, l’uguaglianza nella fondazione delle istituzioni comunitarie deve necessariamente cedere il passo – si dice – all’uguaglianza di fronte all’azione delle istituzioni comunitarie; e questo passaggio dall’uguaglianza nella sovranità all’uguaglianza nella soggezione abbisogna di una sua legittimazione propria.
Ma non è questa, a mio parere, la spinta più profonda e reale che costringe a parlare di costituzione europea. Anche se può apparire assurdo e paradossale, il passaggio ad una “costituzione” è essenziale soprattutto per i sostenitori del metodo intergovernativo. Se gli stati – tutti – non vogliono rinunciare alla loro sovranità, ma, nel contempo, i più grandi vogliono continuare a guidare l’allargamento e il consolidamento dell’Unione, e i più piccoli sanno di doversi piegare a questo stato di cose, è giocoforza che si arrivi ad una redistribuzione del peso istituzionale dei singoli stati, a danno di quelli piccoli. Ma se i Trattati sono la fonte idonea a reggere un edificio improntato all’uguaglianza (seppur corretta per esigenze funzionali a singole politiche), una sostanziale “minore uguaglianza” tradotta e resa esplicita nell’assetto istituzionale abbisogna di un fondamento specifico. Essa non può, infatti, brutalmente essere inserita nei Trattati, perché ciò vorrebbe dire, per i paesi svantaggiati, accettare condizioni che li rendono ineguali proprio mentre agiscono in forza della loro sovranità originaria, compiendo il più solenne atto che di questa sovranità è espressione, e cioè sottoscrivendo un trattato. Questo assetto diseguale deve dunque apparire come un atto che promana dall’intera Unione e, per così dire, dal suo interno, come lo sviluppo di logiche in atto: come un alcunché di evolutivo, fondato su esigenze obbiettive e impersonali; un insieme di necessità che si esprimono e condensano in una “costituzione” di fronte alla quale tutte le sovranità statali (anche quelle dei paesi maggiori) sembrano attenuarsi in direzione di un alcunché di derivato.

5.- Fin qui, i fatti e le categorie che possono servire ad interpretarli. L’ulteriore cammino dipenderà dalle opzioni che verranno compiute. Un dato è comunque certo: il motore dell’unificazione si è articolato. Quello originario, schumanniano – che nel frattempo si è trasformato nella consapevolezza di “non farcela da soli” a navigare nel mare dei mercati internazionali – guida ancora l’allargamento al mondo slavo. Ma accanto a questa spinta all’unificazione (tra nazioni che furono, e non vogliono più essere, irriducibili nemiche, come è stato tra la Francia e la Germania e come ora è, appunto, tra il mondo tedesco e quello slavo) se ne sta profilando un’altra. Quella che non passa più attraverso i confini delle nazioni, ma attraverso le identità dei gruppi sociali. Il movimento contro la guerra e quello “no global” ne sono gli esempi più evidenti. Ed è sempre più chiaro che tali movimenti rappresentano la punta di iceberg nei quali si solidificano preoccupazioni politiche che attengono alla forma della società in modo diretto, e non più solo in modo mediato, attraverso la forma delle relazioni interstatali. Preoccupazioni che – si potrebbe dire, seppur ancora in modo incerto – criticano o interpellano l’UE come una unità politica (un “governo” in senso lato) attuale. Le questioni attinenti alle relazioni atlantiche e ai rapporti con il mondo islamico (compreso quello dell’immigrazione), da un lato, e quelle attinenti alla redistribuzione all’interno della UE, e al salvataggio di un modello istituzionale ed economico che non rinneghi quello kelsenian-marshalliano (per non citare che le più generali ed acute) sono potenzialmente capaci di modellare un sistema politico europeo in senso proprio. Di fronte a questo processo in corso, quello che si deve chiedere alle istituzioni europee è di favorirlo, di farlo maturare, di non deluderlo, ma di non cercare scorciatoie. Altro è un insieme di regole di cooperazione interstatale, altro la creazione di una autorità sovranazionale, altro la formazione di un sistema politico.
Se questo sistema verrà alla luce – come è auspicabile – allora il problema della costituzione europea si porrà nella sua pienezza. Questo non vuol dire che dovranno essere celebrati fastosi riti costituenti. Vorrà semplicemente dire che non sarà più una forzatura rivolgersi a quelle concezioni che non intendono la costituzione come la forma di un’unità politica presupposta, perfetta nella sua datità; come la forma di esistenza che un “noi” consapevole di sé che consapevolmente sceglie per sé, esercitando un suo supremo “diritto”, la propria forma di vita. Per non battere sentieri tropo impervi, ci si può rifare alle concezioni di Hart, Kelsen, MacCormick, le quali, facendo discendere la validità delle costituzioni dalla loro effettività riconosciuta e “interiorizzata”, troncano il nesso tra qualità del soggetto costituente e validità della costituzione. I concetti di potere costituente e atto costituente passano così in secondo piano, ed emerge come problema fondamentale quello del “riconoscimento normativo” delle costituzioni stesse, attraverso il radicarsi di prassi che assumono la costituzione come punto di riferimento fondamentale per la soluzione dei principali problemi collettivi. In quest’ottica, una costituzione europea che pur risultasse solo dal riordino e dalla semplificazione dei principi fondamentali contenuti nei Trattati, potrebbe rivendicare a sé la validità propria di una costituzione perché risulterebbe da un insieme di norme che, nel tempo, sono state riconosciute socialmente come un alcunché di costituzionale, perché hanno garantito la realizzazione di un modello di società largamente condiviso.
Bisogna però stare attenti: fino a che questo riconoscimento sarà concepito come promanante dai cittadini, titolari dei diritti di partecipazione ai procedimenti rappresentativi che producono gli atti della volontà generale – fino a che il riconoscimento, cioè, sarà sostenuto dall’effettivo ed efficace operare di un potere rappresentativo modernamente articolato in un sistema di partiti: in un sistema di “famiglie politiche” di dimensioni europee, seppur in via di faticosa costruzione – allora potremo dire di essere ancora all’interno del costituzionalismo moderno, anche se il procedimento di produzione del nuovo ordine costituzionale non si svolgerà secondo la sequenza classica del nesso potere costituente – atto costituente.
Ma se si abbandona questo ancoraggio – se cioè le istituzioni di amministrazione e governance dell’UE non saranno sostenute da un sistema politico che sia efficace strumento dei diritti di partecipazione delle identità politiche – non si può eludere la domanda radicale: fino a che punto l’abbandono dell’idea della costituzione “atto del potere costituente” non è sintomo dell’intervenuto abbandono dell’idea della “unificazione” rappresentativa? Se la costituzione è tale solo perché è stata riconosciuta dalle società reali minori e dai gruppi di interesse (dalle piccole patrie e dalle nazioni senza stato, dagli allevatori bavaresi, dai produttori di olive e da quelli di tulipani, dalle grandi imprese del credito e dell’informazione…) il principio fondamentale di legittimazione del potere politico cambia radicalmente: non la “volontà generale” rappresentativa, ma il consenso delle cerchie concrete (che sono disomogenee, in quanto intrecciano, in una tensione irrisolta, elementi etno-culturali e interessi, sia territorializzati che de-territorializzati).
E torna così l’eterno problema del decisore di ultima istanza. Il processo di costruzione europea oscilla tra la prospettiva di un potere rappresentativo (interstatale o prettamente comunitario: l’alternativa non è dirimente dal punto di vista del problema che stiamo discutendo) e l’idea che il vero sostegno dell’UE sia il consenso delle cerchie minori e dei gruppi di interesse: una suggestione pre-moderna, come sopra si è sottolineato, che presenta la UE come un’organizzazione che si legittima per le sue prestazioni unificanti non essendole possibile legittimarsi attraverso i diritti di partecipazione.
Bisogna però verificare il realismo di questa prospettiva, distinguendo il caso delle cerchie territoriali minori e quello dei gruppi di interesse: la glocalizzazione dalla globalizzazione.
In riferimento alle prime non bisogna dimenticare infatti che l’idea di fondo, il principio politico basilare, che ha reso possibile il riconoscimento e la valorizzazione – in termini di autonomia costituzionalmente garantita – delle piccole patrie è stata la concezione artificialistico-assimilazionistica della nazione. Paradossalmente le minori nazioni differenzialiste (e cioè i gruppi sociali portatori di un’idea differenzialista di nazione) sono state valorizzate dalle grandi nazioni assimilazioniste. La “specialità” nell’autonomia costituzionalmente garantita è un concetto che si regge su un punto solo: che la nazione assimilazionista è pronta ad effettuare politiche speciali (di favore) a fini di inclusione del soggetto “speciale” nel proprio “artificio”. Non basta quindi immaginarsi un futuro in cui sarà più facile “essere” immediatamente presenti sulla scena europea con la propria identità specifica. Tutto ciò è assolutamente ovvio. L’identità culturale e territoriale sarà più visibile: ma chi sarà il garante della specialità a livello costituzionale? E cioè il “portatore” dei sacrifici che la sua garanzia comporta, dal momento che nessun trattamento “speciale” è a somma zero? La necessità di un “rappresentante” generale è, da questo punto di vista, ineludibile.
Molto più oscuro è invece il problema per quel che riguarda i gruppi di interesse. Non c’è nessuna certezza circa il fatto che il loro incastro non generi una forma di potere amministrativo-manipolativo “neo-discendente”, un “reggimento” dall’alto della complessità (che è appunto ciò che va sotto il nome di governance, anche se questa non si presenta come funzione esclusiva, monopolista dell’ordine, sostitutiva in radice del government). La questione è tanto dibattuta quanto difficile da sottoporre alla progettazione politica consapevole. Qui basta averla registrata, per sottolineare che, in quest’ottica, la costituzione europea potrebbe effettivamente non essere una costituzione in senso moderno. L’unico antidoto sta nell’intensità delle passioni politiche e nella loro capacità di darsi una dimensione europea.

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