Il divieto costituzionale della guerra

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Relazione al Convegno “Guerra e costituzione”, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma III, e tenutosi a Roma il 12 aprile 2002.

1.- Le conclusioni del prof. Giardina sono state molto chiare; e molto esplicito è stato il suo augurio circa il ruolo che i costituzionalisti potrebbero svolgere per fermare la deriva che egli ci ha illustrato. Sono molto scettico però sul fatto che i costituzionalisti – se è lecito parlarne come di un corpo unitario – possano dare un contributo di fermezza nel senso indicato, impegnandosi a rafforzare l’identificazione del diritto internazionale consuetudinario generale con il diritto delle Nazioni Unite, e ad interpretare strettamente alla luce di quest’ultimo la Costituzione italiana.
Certamente, nel passato, si è progressivamente consolidata come dominante l’opinione secondo la quale la “guerra ripudiata” dall’art. 11 e la “guerra non ripudiata”, perché disciplinata, dagli articoli 78 (“Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”) e 87 (“Il Presidente della Repubblica … dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”) fossero concetti che dovevano essere definiti e reciprocamente coordinati alla luce esclusiva della Carta dell’ONU. Questo parallelismo – anzi, questa coincidenza – tra le sfere della illiceità e della liceità definite dalla Costituzione italiana e dalla Carta ONU venne, per così dire, “chiuso” dalla piena accettazione del principio, nel frattempo acquisito dal diritto internazionale, secondo il quale il divieto della guerra contenuto nell’art. 2.4 della Carta – con l’eccezione rigorosa della legittima difesa (individuale e collettiva) contro un attacco armato diretto, contenuta nel successivo art. 51 – si era compiutamente radicato come consuetudine generale. Il che significava non solo che le norme contenenti quel divieto e quell’eccezione vigevano anche come norme consuetudinarie (e non più solo come norme pattizie), ma che esse esaurivano il diritto consuetudinario generale stesso, nel senso che non si poteva più ipotizzare l’esistenza di un’altra norma consuetudinaria “più generale” che potesse autorizzare la loro deroga. In tutta questa ampiezza venivano ad integrare la nostra Costituzione, cosicché, quanto alla disciplina della guerra, il diritto costituzionale interno, il diritto ONU e il diritto consuetudinario generale venivano a coincidere: il primo (attraverso i rimandi contenuti negli artt. 10 e 11) si identificava con gli altri, ormai unificati, ed in essi si risolveva completamente, senza residui e senza margini. Detto in altri termini: nell’interpretare gli artt. 11, 78 e 87 della Costituzione ogni argomento doveva cedere a quello sistematico che sottoponeva gli articoli predetti al divieto generale contenuto nell’art. 2.4 della Carta ONU: conseguentemente non si poteva affiancare alla fattispecie vietata (amplissima e onnicomprensiva: uso o minaccia della forza) un concetto “diverso” di guerra (desunto a contrario dal testo della Costituzione italiana, assumendo una definizione restrittiva e formalistica del termine “guerra”), non vietata.

2.- Queste premesse, però, oggi non sono più diffusamente accettate.
Il prof. Sorrentino, che è qui presente, e che ringraziamo per aver voluto partecipare a questo incontro, ricorderà che, durante una riunione del precedente Consiglio Direttivo dell’Associazione dei Costituzionalisti, giunse una lettera dei colleghi iugoslavi, mentre erano in corso i bombardamenti su Belgrado, che chiedevano ai costituzionalisti italiani di pronunciarsi sulla vicenda. Il Comitato Direttivo si spaccò immediatamente, ed anche in modo piuttosto vivace, tanto che si decise di organizzare un seminario [tenutosi poi a Torino, I cui atti sono stati pubblicati in Mario Dogliani – Stefano Sicardi (a cura di), Diritti umani e uso della forza: profili di diritto costituzionale interno e internazionale, Giappichelli, Torino 1999] per offrire almeno una tribuna di discussione, visto che l’Associazione non poteva offrire una presa di posizione concorde.
Anche tra i costituzionalisti, come tra gli internazionalisti, si sono dunque diffuse teorie volte ad indebolire e ad aggirare il divieto della guerra. Innanzi tutto la teoria che, operando una totale inversione rispetto a quanto sembrava acquisito alla fine degli anni Ottanta, considera di nuovo la Carta dell’ONU come un diritto pattizio speciale (e cedevole) rispetto alle (si torna a sostenere) sempre valide norme del diritto internazionale consuetudinario pre-ONU, che consideravano – e tuttora considererebbero – il “diritto alla guerra” come un diritto naturale degli stati. E’ questo – ovviamente – il punto cardinale, perché riesumare la naturalità del jus ad bellum come componente essenziale, incomprimibile ed irrinunciabile della statualità significa far franare l’intero ordinamento costruito sulla base della Carta dell’ONU. Questa tesi – invocata apertamente e senza infingimenti solo dalla superpotenza USA, in funzione di un riordino unilaterale degli assetti geopolitici che è al centro dell’attenzione generale, e che non è qui possibie ricostruire – viene sostanzialmente condivisa anche all’interno della nostra giuspubblicistica, seppur rivestendola di argomenti più obliqui e dissimulati.
La condividono obbiettivamente tutti coloro che – sulla scorta delle impostazioni (soi-disant) realistiche sostenute da molti studiosi di relazioni internazionali – considerano il ripudio contenuto nell’art. 11 Cost. un obbligo (si potrebbe dire, un po’ forzando, e ricorrendo alla terminologia pandettistica) “nullo per impossibilità della prestazione dedotta, ovvero dell’oggetto”. Se infatti – si dice – il divieto della guerra contenuto nella Carta ONU (il divieto “generale”) è stato radicalmente ed immediatamente svuotato perché l’equilibrio del terrore si reggeva proprio sulla minaccia dell’uso della forza che la Carta stessa vietava; se in questo contesto l’Italia delegò alla Nato, e al suo paese leader, il compito di garantire la sua sicurezza, partecipando all’organizzazione della minaccia (con basi militari, approdi per sottomarini, installazioni di missili “di primo colpo”…) e rinunciando per il resto ad ogni autonomia di politica estera e militare, ne consegue che il divieto di cui all’art. 11 Cost. (il divieto “locale”) è privo di oggetto, perché un divieto ha senso solo se, per il suo destinatario, il comportamento vietato è possibile, e libera è la scelta tra il metterlo in atto o no. E l’Italia non era, di fatto, nella possibilità né di non esercitare la minaccia dell’uso della forza, in quanto aderiva ad un blocco che tale minaccia esercitava al sommo grado, in reciprocità con l’altro; né di esercitare autonomamente la forza nelle “sue” relazioni internazionali (data sempre l’appartenenza ad un blocco). L’adempimento del dovere (il ripudio della guerra) era dunque impossibile per due motivi diversi: perché il dovere era sistematicamente violato attraverso il comportamento “collettivo” cui l’Italia partecipava, ed era impossibile da violare attraverso il suo comportamento individuale. Se dunque il destinatario del divieto non solo si trova nella impossibilità (politica) di porre in essere, per propria scelta individuale, il comportamento vietato, ma addirittura gode parassitariamente dei benefici che gli derivano dal partecipare all’altrui violazione del divieto medesimo (di quello “generale”, che ha però un identico contenuto materiale), allora – molti oggi sostengono – è lo stesso divieto che assume un sapore egoista e, in ultima istanza, vile. Di qui a sostenere che l’Italia, nelle nuove condizioni internazionali, caduti i blocchi, deve assumersi le proprie responsabilità ed i propri oneri, e deve quindi prepararsi a saper gestire la guerra come “scelta” (e cioè come esercizio del “suo” jus ad bellum) in funzione della sicurezza di cui vuole godere, il passo è brevissimo. In quest’ottica si potrebbe dire che la decostituzionalizzazione in corso dell’art. 11 rappresenta l’esito di un processo a tenaglia: una sequela di acquiescenze passate cui si sono sovrapposte prospettive attuali di attivismo militare (proiettate nell’ottica dell’Unione europea).
Accanto a questo attacco frontale al divieto legale, in sé considerato (tanto internazionale che interno), della guerra, si pongono le tesi che variamente erodono la portata del divieto interno, costituzionale. Dal punto di vista della struttura dell’argomentazione queste tesi sono raggruppabili in due tipi. Alcune fanno leva su un’interpretazione estensiva dell’art. 11 Cost., altre su una sua interpretazione letterale. Le prime possono a loro volta essere distinte in due gruppi. Alcune tendono ad estendere la portata implicita del suo primo comma, e cioè la legittimazione del diritto di difesa (ricomprendendo nella guerra di difesa anche quella volta non a difendere il territorio dello Stato, ma i valori di cui esso è portatore: in primis i diritti umani, come a proposito del Kosovo; oppure ad ampliare il concetto di autotutela – anche in riferimento all’art. 51 della Carta ONU e 5 del Trattato Nato – come a proposito della “guerra al terrorismo”). Altre tendono invece ad estendere la portata del suo secondo comma, ampliando le fonti – e le ipotesi – delle limitazioni di sovranità: facendole derivare, come obblighi prevalenti sul divieto costituzionale, da trattati internazionali di contenuto militare, il cui collegamento finalistico con la pace tra le nazioni può ovviamente, con un po’ di disinvolta dialettica, essere sempre sostenuto.
Un’altra linea di attacco all’art. 11 della Costituzione fa leva – come si è detto – non sulla sua interpretazione estensiva, ma su quella letterale, combinata con l’argomento “della pietrificazione dei concetti”. E’ il caso dell’interpretazione rigida e riduttiva del termine “guerra”, che porta a rendere inapplicabili le disposizioni costituzionali che lo contengono a tutti gli impieghi di forze militari che non si svolgano nelle forme classiche: dalle operazioni di “polizia internazionale” alle ipotesi di “conflitto armato” o di “grave crisi internazionale” (codificate, queste ultime, nel nostro ordinamento sub-costituzionale); ed è anche il caso della “guerra in difesa dei diritti umani” presentata come ipotesi sopravvenuta, sostenuta da una nuova – presunta – consuetudine internazionale, e dunque non vietata dall’art 2.4 della Carta ONU. In tutti i casi si tratta di affermare la legittimità di operazioni armate “diverse” da quella ripudiata dall’art. 11: l’eterno argomento dell'”accanto”, un insinuante grimaldello – elementare applicazione dell’argomento a contrario, dell’ubi voluit dixit – capace di comprimere e immiserire ogni normativa volta a regolare la “libertà naturale”, che sempre può manifestarsi in forme non letteralmente previste. I richiami alle nuove condizioni geopolitiche, tecnologiche … sono aperti riferimenti al contenuto pietrificato dell’art. 11 e contemporaneamente al convincimento che la norma generale esclusiva, in materia, sia quella per cui “tutto ciò che non è vietato è lecito”, e dunque della legittimità dell’interpretazione a contrario. Di conseguenza le modalità di uso della forza diverse dalla guerra classica così come definita dal diritto internazionale degli anni della Costituente (secondo appunto l’argomento della pietrificazione), in quanto fenomeni non espressamente vietati, sarebbero, appunto, leciti. E analoghe argomentazioni possono essere avanzate, come dimostrano in modo palmare le teorie legittimanti la guerra in difesa dei diritti umani, anche in riferimento al diritto internazionale e nell’interpretazione dall’art 2.4 della Carta ONU. In relazione a quest’ultima si può quindi dire – a precisazione di quanto sopra affermato – che gli strumenti giuridici della sua erosione sono stati, dapprima, la sua collocazione in un contesto dominato da una norma generale esclusiva anziché inclusiva; e successivamente la sua collocazione in un contesto dominato dalla consuetudine generale di riconoscimento del jus ad bellum. La prima operazione ha legittimato le guerre-operazioni di polizia e le guerre in difesa dei diritti umani. La seconda ha legittimato la guerra preventiva in tutela di meri interessi nazionali.

3.- Come definire questa situazione? Da un punto di vista realistico è possibile, a causa delle molteplici violazioni del diritto internazionale post-ONU, parlare di un ritorno al diritto internazionale pre-ONU; come anche sarebbe possibile parlare di una perdita di validità – per desuetudine – dell’art. 11. Al di là dei problemi di teoria generale che queste affermazioni suscitano, essendo il nesso tra effettività e validità questione delle più complesse, occorre però mettere bene a fuoco il problema e chiedersi in che cosa consistano esattamente le violazioni dalla cui effettività – dalla cui fattualità – si dovrebbe dedurre la crisi di validità del diritto costituzionale interno e internazionale. Se si tengono i piedi ben piantati nella storia è agevole constatare che il punto più alto del rafforzamento giuridico del divieto della guerra (l’essere giunti a definirlo – nell’opinione qualificata ed efficace della comunità giuridica internazionale e delle sue istituzioni – come oggetto di una norma consuetudinaria generale) è stato toccato negli anni in cui si stava concludendo il “secolo breve”. Potremmo assumere come fatti emblematici dello scenario entro il quale si è consolidata questa acquisizione, la sentenza Nicaragua/Stati Uniti del 1986 e la risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del 1987 sul rafforzamento del principio del non ricorso alla forza, ricordate or ora da Giardina. Con ciò raggiungeva il suo acme una parabola che era iniziata all’indomani di quella che tuttora chiamiamo “Grande guerra”: una parabola – ed è questo il punto da sottolineare – della quale può essere ricostruito ex post il cammino, connettendo una serie di atti di diritto internazionale omogenei nell’ispirazione etico-giuridica (dalla fondazione della Società delle Nazioni al patto Briand-Kellogg, dall’atto costitutivo del tribunale di Norimberga alla fondazione dell’ONU alle numerose risoluzione della sua Assemblea generale). Ma si tratta, appunto, di una continuità rintracciabile e ricostruibile ex post, selezionando, e proiettando in una trama unitaria (in una sorta di linea di pensiero che idealisticamente si sviluppa e si invera) atti che, nel loro contesto effettuale, sono stati, con altrettanta continuità, negati e smentiti. Il diritto internazionale ci offre, in questo caso, un esempio emblematico della coesistenza parallela di dover essere ed essere.
Lungo quest’ordine di considerazioni appare dunque necessario, per quanto del tutto ovvio, sottolineare che l’idea del divieto della guerra è apparsa come praticabile, e come giuridicamente sanzionabile, non perché si sia fatta progressivamente strada sul piano della effettività, ma perché è stata percepita come necessaria sul piano del dover essere, contro l’effettività storica del terribile trentennio che ha preceduto la stesura della Carta ONU. E parimenti sottolineare che questa Carta, a sua volta, non ha certo tratto la sua validità dall’effettività della sua vigenza. Fin da subito, tutti sappiamo, è stata sottoposta ad una serie ininterrotta di violazioni, tanto che l’osservatore realista sembrerebbe avere buon gioco a denunciarne il carattere illusorio.
In sostanza, la vicenda della formulazione del divieto della guerra – come aveva chiarito Freud nel suo famoso carteggio con Einstein, sulla scorta di un’osservazione più generale di Frazer – è un’evidente conferma del fatto che i divieti giuridici e morali vengono prodotti non per consolidare tendenze generali spontanee a “non fare” qualcosa, ma, al contrario, per contrastare tendenze fortissime a “fare” proprio ciò che la norma intende vietare. Il comportamento “naturale” non è l’astensione dal comportamento vietato, ma, appunto, quel comportamento stesso. Ciò che la norma rafforza non è la generale e naturale repulsa che esso suscita, ma il suo generale, naturale e difficilmente coercibile desiderio. Questo dato basilare dell’antropologia e della psicoanalisi rende comprensibile l’apparente paradosso della “anormale” dissociazione tra validità ed effettività che – sino agli inizi degli anni Novanta – caratterizzava il divieto della guerra. “Anormale” perché è ovvio che un’effettività media è il presupposto essenziale per poter ipotizzare la validità di un ordinamento. Pur senza esagerare in cinismo sul punto – perché l’ONU ha, senza dubbio, contribuito a disinnescare catene di violenza nel processo di de-colonizzazione, rendendolo più pacifico di quanto si sarebbe potuto temere – resta il fatto che per decenni la comunità giuridica internazionale ha creduto nella validità del divieto, malgrado le sue macroscopiche violazioni (dalla Corea all’Indocina a Suez al Viet-Nam…) che rendevano incerta la possibilità del progressivo rafforzamento della sua effettività. E’ questo quel che veramente conta sul piano del diritto internazionale e costituzionale: che, fino alla guerra del Golfo, la consapevolezza di tale violazioni non è mai riuscita a rendere egemone l’idea che il divieto della guerra fosse da considerarsi una norma priva di validità e un principio in sé non possibile né desiderabile. Le violazioni restavano violazioni, e non venivano trasformate in “fatti normativi”.

4.- Quel che dunque occorre chiarire è in che cosa esattamente, nel profondo, la situazione sia cambiata, al punto da erodere la normatività del divieto della guerra; e se, in che limiti e in base a quali argomenti, di fronte a tali cambiamenti, l’art. 11 della Costituzione e l’art. 2.4 della Carta ONU abbiano ancora chances di effettività.
I cambiamenti fattuali sono sotto gli occhi di tutti: lo scenario geopolitico, finito l’equilibrio del terrore atomico, rende di nuovo praticabile, dal punto di vista dell’unica potenza imperiale rimasta, il ricorso alla guerra, per ricostruire un nuovo ordine planetario; l’Europa, e il nostro paese, non potranno, o vorranno, rimanere passivi ed estranei di fronte a questo riassetto, e alle guerre che esso scatenerà. Di qui – a seconda degli obiettivi politici generali – la spinta, ma anche le resistenze, ad accelerare l’unificazione politico-militare dell’Europa; e di qui i dissidi intorno al suo allargamento, visto come ostacolo, o come benefica remora, alla formazione di un soggetto compatto, capace di comportamenti coesi (ma potenzialmente conflittuali con quelli della super-potenza) in politica estera. La scelta della guerra, per partecipare all’ordine imperiale o per affermare un contrappeso che ristabilisca un qualche multilateralismo (sostanzialmente contro, perché anche la ricerca di un contrappeso è “contro”, quell’ordine così come è attualmente) è all’ordine del giorno. Ma perché – è questa la domanda cui il costituzionalista deve rispondere – questi cambiamenti fattuali hanno indotto un cambiamento di mentalità così profondo da far smarrire a larghissimi settori della leadership, e dell’opinione pubblica, occidentale il senso di un cammino iniziato politicamente (per non risalire al progetto kantiano) dopo i macelli dell’“inutile strage”? Perché si è persa la normatività del principio per cui la guerra non deve essere strumento delle politiche nazionali?
Se la risposta non sta nella forza dei fatti – perché, giova ripetere, la forza incomparabilmente maggiore dei “fatti” della lunga guerra civile europea sortirono l’effetto di rafforzare il riconoscimento della normatività del divieto della guerra – la risposta va cercata negli atteggiamenti morali.
In primo luogo, ciò che viene chiamata “guerra” nei dibattiti occidentali è uno scontro tra soggetti la cui forza è reciprocamente incommensurabile. Se la parola bellum evoca il duellum, oggi bisogna sostituirla con qualcosa che evochi semplicemente lo schiacciamento.
In secondo luogo, il divario degli armamenti fa sì che lo schiacciamento avvenga senza sostanziale pericolo per la vita di coloro che lo pongono in essere.
In terzo luogo gli eserciti che usano le armi “schiaccianti” sono eserciti di professionisti: il che favorisce una discussione intorno alla guerra come a un’azione dei governi e dei loro apparati, e non come a una prova cui sono (letteralmente) chiamati i cittadini. Ai cittadini non è richiesta alcuna collaborazione per la conduzione di questa guerra, né alcun coinvolgimento diretto. Essi sono chiamati solo a non intralciare le decisioni dei governi (del governo imperiale e dei suoi diadochi).
In quarto luogo, la guerra di cui si discute, in favore della quale ci si pronuncia, è una guerra che si svolge “altrove”, che non ci colpirà, ma si vedrà solo sugli schermi televisivi. La guerra “dal cielo”, vicinissima, che ha distrutto le città europee nell’ultimo conflitto mondiale, è diventata una guerra lontanissima (ciò che è diventato vicinissimo è il terrorismo, ma di questo parleremo dopo).
Sono questi i fatti che hanno indotto il cambiamento morale. Bisogna prendere atto (tristemente, se qualcuno nutriva illusioni sulla naturale bontà dell’uomo) che l’uomo occidentale non più direttamente, familiarmente, investito della paura della “chiamata” alla guerra”, ha perso la spinta morale a sostenerne il divieto, la messa la bando dalla storia, e ha solo chiesto argomenti che lo aiutassero a dimenticare questo suo impegno passato. A questo scopo è servita come utile balsamo la riscoperta della teoria della “guerra giusta”: è questa teoria che ha eroso il fondamento morale del divieto della guerra; o meglio, che ne ha legittimato e tranquillizzato l’abbandono.

5.- Non è qui ovviamente possibile nemmeno sfiorare il millenario corpus della teoria della guerra giusta. Mi limiterò a poche precisazioni relative al ruolo che il rinnovato ricorso a tale teoria ha avuto nei confronti del divieto della guerra, interno e internazionale, positivamente statuito.
La prima precisazione (solo apparentemente banale) è che l’alternativa “giusto – ingiusto” non coincide affatto con quella “ammesso – vietato”. Nel linguaggio ordinario i comportamenti giusti vengono infatti sì distinti da quelli ingiusti, ma sulla base del presupposto che essi coesistano normalmente con questi ultimi, i quali, a loro volta, non sono affatto presunti come rari, e nemmeno come devianti: anzi, possono rappresentare la regola rispetto a quelli giusti. Il che risulta chiaro se si pensa ad espressioni come: prezzo, salario, ricompensa, premio, punizione, atteggiamento, decisione…; ma soprattutto uomo, imprenditore, principe … giusti. L’aggettivo “giusto” porta dunque con sé l’idea della valutazione e della qualificazione, e conseguentemente quella della distinzione, della separazione e della condanna, dei comportamenti ad esso contrari, ma non quella della possibilità (come fine pratico immediato e attuale) di eliminarli, o quanto meno di contenerli. Questa è invece la portata dell’aggettivo “vietato”. E’ ovvio che comportamenti vietati possono anche, di fatto, essere diffusi; ma è altrettanto ovvio che essi sono oggetto di un giudizio che li vorrebbe escludere, ora e per sempre, dalla sfera dell’esistente.
Porre il problema della “guerra giusta” può dunque presupporre un’assuefazione all’esistenza di guerre, di per sé “ingiuste” – al di là delle eccezioni da definire – ma naturali e incomprimibili. Di qui una prima critica: il fatto solo di porre il problema della guerra giusta tende ad accreditarsi come un atteggiamento realistico, e colloca in una luce utopica, e inutile, la tensione volta a coltivare la prospettiva della guerra vietata.
Si potrebbe obbiettare (Walzer) che il problema della guerra giusta è un problema morale che non può essere soppresso, o rimosso e accantonato, perché nel villaggio della comunicazione globale tutti siamo continuamente posti a contatto con guerre e con manifestazioni di violenza raccapricciante. Risolvere i quesiti morali che questa informazione solleva è dunque vitale: se non si trovassero risposte soddisfacenti, si condannerebbe il senso morale interrogato da questi eventi a ripiegare nel cinismo. Se è impossibile rispondere con argomentazioni universali e convincenti, si dovranno considerare “giuste” sempre e solo le guerre che appaiono tali agli occhi di chi, all’inizio, le vuole e di chi, alla fine, le vince. Si cadrebbe così nell’anomia, dalla quale sarebbe fatale essere indotti ad abbracciare giustificazioni identitarie fondate sulla contrapposizione elementare (etnica, in senso lato) amico-nemico. Secondo questo modo di vedere, dunque, discutere della guerra giusta aiuterebbe, di per sé, ad elevare il senso morale e a renderlo vigilante e critico.
E’ facile replicare che, come ha dimostrato Kelsen, la ricerca di parametri obbiettivi di giustizia è vana. Ogni criterio di giustizia (ad eccezione dell’inapplicabile criterio della giustizia della carità: “è giusto ciò che domanda il nostro interlocutore, il destinatario della nostra azione, la nostra controparte”) rimanda a ordinamenti di regole (morali, religiose …) presupposti, che si rinviano l’un l’altro fino a chiudersi in opzioni puramente soggettive. L’unico criterio non soggettivo è quello che identifica la giustizia con la legalità; o meglio: quello che rifiuta di contrapporre alla validità delle norme vigenti la ritenuta superiore validità di determinati criteri di giustizia.
Quest’ultima notazione è fondamentale: la discussione sulla giustizia non si svolge infatti nel vuoto, ma all’interno di uno spazio giuridico “pieno”, riempito dalle norme valide appartenenti all’ordinamento vigente, internazionale e interno (per noi, Costituzione italiana più Carta ONU radicatasi in consuetudini generali). L’appello a criteri di giustizia, diversi e diversamente fondati dal criterio che imprime validità alle norme positive, non serve ad altro che a contestare la validità di queste ultime. Cosa che, in certi casi, può apparire necessaria e moralmente necessitata: ma Kelsen invita ad argomentare e sostenere questa contestazione a viso aperto, assumendosi tutte le responsabilità del giudizio politico su cui si fonda, senza nascondersi dietro pretese e presunte regole oggettive di giustizia.
Contro questo argomento possono essere avanzate numerosissime obiezioni, e non intendo qui acriticamente abbracciarlo. Per quel che riguarda il discorso odierno sulla guerra, non si può però non notare che esso si svolge, appunto, in uno spazio giuridico pieno, e precisamente al cospetto di un divieto netto, assoluto e inequivocabile, contenuto nella Costituzione italiana, nella Carta dell’ONU e nelle consuetudini internazionali che attorno a questa si sono formate: divieti che, dal punto di vista del diritto interno, costituiscono un blocco unitario. Non si può dunque sfuggire alla critica che vede, negli appelli ai criteri di giustizia, un grimaldello per scardinare la validità di questo specifico complesso normativo.
Complesso che non presuppone affatto, ingenuamente, che la necessità di ricorrere alla forza sia miracolosamente cessata, o diventata inutile: soltanto proceduralizza la decisione di ricorrervi, e ne attribuisce la titolarità all’autorità individuata dal diritto internazionale, prevedendo anche la formazione di una vera e propria forza armata di intervento, stabilmente organizzata in quanto fondata su specifici trattati (art. 43. 1.: “Al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri delle Nazioni Unite s’impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua richiesta ed in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l’assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. L’accordo o gli accordi suindicati determineranno il numero ed i tipi di forze armate, il loro grado di preparazione e la loro dislocazione generale, e la natura delle facilitazioni e dell’assistenza da fornirsi. L’accordo o gli accordi saranno negoziati al più presto possibile su iniziativa del Consiglio di Sicurezza. Essi saranno conclusi tra il Consiglio di Sicurezza ed i singoli Membri, oppure tra il Consiglio di Sicurezza e gruppi di Membri, e saranno soggetti a ratifica da parte degli Stati firmatari in conformità alle rispettive norme costituzionali”). Tutto ciò – che avrebbe comportato un inizio di trasformazione dell’ONU da organizzazione di diritto internazionale ad organizzazione di carattere sovranazionale – non è mai stato attuato.
La logica che presiede alla Carta ONU non è dunque una logica di pacifismo assoluto, ma è una logica hobbesiana, volta a monopolizzare e a procedimentalizzare l’uso della forza nei rapporti internazionali. Quel che deve essere ribadito con assoluta fermezza, dunque, è che una decisione volta a sostenere la “giustizia” di una guerra si risolve nella pretesa di affermare unilateralmente valori e interessi sostantivi rifiutando la procedura che dovrebbe saggiarne e asseverarne la “giustizia” dal punto di vista della comunità internazionale (e cioè proprio la procedura che, in una prospettiva helleriana, potrebbe dimostrare che la guerra – oltre che lecita per le forme in cui è stata decisa – è anche “giusta” dal punto di vista di principi etico-politici generalizzabili). E dovrebbe essere altrsì chiaro che il suo effetto immediato è quello di condurre ad una violazione del diritto, e di un diritto delicatissimo, come quello internazionale e costituzionale in cui l’effettività è sintomo di validità.
Di fronte alla complessità e alla grandiosità del disegno del diritto internazionale e costituzionale, proprio il fatto che il ricorso alla “guerra giusta” sia stato ampiamente, variamente e banalmente utilizzato nel passato dovrebbe indurre timore e diffidenza nei confronti di quest’espressione e del coacervo di teorie che ad essa si richiamano, e dovrebbe rendere chiaro che, abbracciandole, non si fa altro che aderire alla sequela blasfema dei Gott mit uns e dei Te Deum cantati dagli eserciti contrapposti. La ricerca della “giustizia” della guerra non prova di per sé nulla, se non che esiste una persistente tendenza (una regolarità antropologica) a rivestire con motivazioni soggettivamente convincenti la decisione di usare la forza contro i nemici. Il richiamo alla guerra giusta non esprime l’accettazione di una norma che vieta le guerre ingiuste, ma è solo sintomo del fatto che è costitutiva dell’idea di guerra la rappresentazione di un nemico “ingiusto” (“beffardo e crudele”, dice una vecchia canzone militare) la cui esistenza rende giusta la guerra contro di lui condotta.

6.- I fatti stanno dimostrando che una potente corrente d’opinione vuole individuare – dopo la lunga guerra civile del Novecento – una nuova forma di “nemico assoluto”, che proprio per la sua radicale estraneità al nostro mondo morale possa legittimare la guerra al di là di ogni limitazione posta dal diritto internazionale. Questo nemico assoluto è il “terrorismo” (espressione che qui non è possibile analizzare) e gli stati che lo appoggiano. Attualmente (gennaio 2003) in riferimento all’Iraq, si sta tentando di affermare l’equazione: stato (asserito) produttore di armi di sterminio di massa = stato terrorista.
L’effetto più importante, sul lungo periodo, di questa (che sembrerebbe irresistibile) campagna d’opinione è che in modo implicito, ma palese, essa assume come presupposto che il diritto internazionale valga solo tra “partner morali”, e che i terroristi (nemici canaglia) e gli “stati canaglia” (in quanto stati che appoggiano i nemici canaglia) non lo siano. Da questa prima equazione – applicando una sorta di proprietà transitiva – viene fatto derivare che nemmeno ai “governati” dai “governanti canaglia” (e cioè, di fatto, alle persone che vivono in quei giacimenti di odio da cui escono i terroristi) può essere riconosciuta la qualifica di partner morali. Sulla base di questi presupposti si è giunti a condurre una guerra, come quella dell’Afghanistan, disconoscendo la natura di stato alla controparte: con il che si è rotto il diritto internazionale anche per quel che riguarda il trattamento dei prigionieri. Ma la conseguenza più sottile di questo modo di ragionare è che le violenze inflitte alle popolazioni sono considerate una sanzione, o una prevenzione, ragionevole e giusta.
Qui sta il nocciolo della discontinuità morale tra il tentativo novecentesco di cacciare la guerra dalla storia e l’attuale sua ricollocazione tra le opzioni possibili, anzi doverose. E’ del tutto evidente infatti che il divieto legale della guerra è moralmente fondato sulla consapevolezza del carattere terroristico che le guerre avevano assunto, coinvolgendo sempre più direttamente le popolazioni civili. Per ridare dignità alla guerra bisogna cancellare questa sua essenza terroristica, proprio mentre la tecnologia la rende sempre più intrinseca e palese. La guerra oggi non è altro che un enorme fatto terroristico, se con questo si vuol intendere un atto di violenza compiuto nei confronti di chi non può far altro che subirlo: o perché letteralmente inerme (come le popolazioni civili), o perché sostanzialmente inerme (come è chi possiede armi la cui gittata è enormemente e sistematicamente inferiore a quella delle armi del nemico). Per renderla accettabile occorre percorrere a ritroso il cammino compiuto dopo Hiroshima, e per compiere questo cammino occorre “svalutare” la qualità morale della controparte (armata o inerme che sia). Se la guerra è obiettivamente, e sempre più, terrorismo puro, occorre distinguere chi è terrorista “per necessità” (i buoni) e chi lo è “per natura” (i cattivi).
Questa nuova disuguaglianza morale planetaria è l’ovvia conseguenza di scelte geopolitiche divenute sempre più evidenti, di tipo neocoloniale, in forza delle quali si continua a pensare, contro l’esperienza storica delle nostre società, che la pace “degli altri” possa essere prodotta dalla forza. La pace tra individui, gruppi, fazioni, sette, chiese è stata infatti realizzata all’interno degli stati europei con una – lunga e faticosa – strategia binaria: da un lato, vietando l’uso della forza privata e organizzando apparati repressivi amministrati da un “rappresentante” di tutti; dall’altro, elaborando e organizzando rapporti di legittimazione, e dunque producendo, nelle relazioni interpersonali, contesti di fiducia. La ragione vorrebbe che, di fronte ai conflitti che oggi dividono il pianeta, ci si comportasse nello stesso modo, e cioè monopolizzando in una istituzione rappresentativa (l’ONU) l’uso della forza; e producendo, nelle relazioni internazionali, contesti di fiducia (capaci di radicarsi nella personalità morale degli individui).
Le scelte fatte dall’Occidente vanno invece in altra direzione, e presuppongono che sia possibile una “quiete” conseguente alla minaccia unilaterale e – se occorre – all’uso “schiacciante” della forza (una pax romana, almeno potenziale). L’irrealismo di questa visione, e, al contrario, la permanente validità del “paradigma della legittimazione” che richiede una collaborazione attiva della ragione individuale, è dimostrata proprio dal terrorismo suicida. L’uso della guerra (della forza) non può produrre nessuna pace se il destinatario di quella forza è disposto non solo a morire, accettando il conflitto, ma addirittura a suicidarsi pur di colpire colui che usa quella forza, e pur di sottrarsi all’ordine che questi vorrebbe imporre con quella. Il terrorismo, come violenza privata, ha come effetto principalissimo quello di dimostrare, proprio in quanto tale, che la forza esercitata dagli stati nazione non è in grado di produrre, di per sé, nessuna pace, perché il problema della pace si pone, a livello planetario, e a livello di psicologia individuale, negli stessi identici termini in cui si pose all’epoca della formazione degli stati nazionali, quando la pace era minacciata dalla violenza privata delle fazioni religiose. E la violenza privata – per il suo stesso carattere capillare, legato a condizioni emotive individuali – può essere disinnescata solo se si riesce a realizzare un contesto di fiducia in un ordine (passabilmente) giusto, che sorregga un minimo di speranza nel futuro, così da farlo preferire alla morte immediata (e procurata per mano propria). La frase più sciocca e irrealistica che si è sentito pronunciare in questi tempi (ad esempio dal generale Jean) è che è difficile sconfiggere il terrorismo; mentre più praticabile è sconfiggere i terroristi. E’ vero invece esattamente il contrario. L’unico modo per sconfiggere il terrorismo è evitare che permangano (ed anzi, si espandano) contesti ambientali in cui, nella mente degli individui, possa scoccare la scintilla della decisione omicida-suicida. Prosciugare questi contesti è politicamente possibile e realistico; fermare le mani armate, dopo che quella scintilla è scoccata, no.

7.- Lo scacco del diritto internazionale cui stiamo assistendo è grave, anche se probabilmente non definitivo, perché non si deve sottovalutare la forza del movimento d’opinione e delle politiche statali che continuano a sostenere il divieto della guerra e il ruolo irrinunciabile dell’ONU. Questo scontro svolge una funzione normativa, perché fonda il permanere del riconoscimento, e dunque della validità, del diritto internazionale, pur tanto compromesso. Altrettanto vale per il diritto costituzionale interno. Dal punto di vista di quest’ultimo, lo scontro in atto ha però anche un interessante riflesso sul piano conoscitivo. Rende immediatamente percepibile, infatti, la contraddizione da cui lo stesso diritto costituzionale nasce: l’apparente paradosso per cui la sua debolezza è sintomo della sua necessità. Da un lato, infatti, le vicende sembrano dar ragione alla leggerezza (all’apparente ovvietà) dell’idea secondo cui «Le leggi sono simili alle ragnatele: se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e se ne va» [Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, I, Miroslav Marcovich ed., Teubner, Stuttgart-Leipzig 1999, p. 40 (Solon, I, 58), cit. da Bice Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Einaudi, Torino 2001, p.XI, che, ivi, riporta anche proverbi regionali italiani del medesimo contenuto]. Dall’altro, però, le stesse vicende dimostrano la profondità della lacerazione – prima ancora che politica, antropologica [particolarmente aspre, ma sintomatiche, le parole di Alberto Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, ovvero ragionamento sull’«Apocalissi», Einaudi, Torino 1992, ora in La guerra, Einaudi, Torino 2002, p. 128: «Per dirla in breve, io sostengo che chi fra gli occidentale non si è “vergognato” almeno una volta della guerra del Golfo, potrebbe rubare a un suo vicino, o più probabilmente lo ha già fatto»] – provocata dalla violazione (o meglio, dalla negazione indifferente) di un principio – quale il divieto della guerra – da altri ritenuto fondamentale. E’ diventato un dato dell’esperienza comune il fatto – apparentemente paradossale – che proprio la violazione (o meglio, l’indifferente abbandono) delle norme giuridicamente più disarmate, più sottili, meno garantite da apparati sanzionatori, può provocare le divisioni più profonde, i contrasti più radicali, il riemergere più intransigente di quelle posizioni non negoziabili che sono all’origine delle identità politiche. I fatti hanno confermato che le norme costituzionali che contengono principi di giustizia non sono fondate su un consenso “uguale” e universale. Molte hanno la funzione di “proteggere” la rilevanza di principi politici ritenuti essenziali da un’opinione diffusa, ma non maggioritaria. Quella che tali norme offrono è una protezione fragile, perché la loro effettività è altamente critica, ma la funzione che svolgono è simbolicamente efficace perché il loro comune riconoscimento (malgrado la loro criticità, o proprio a causa della loro criticità) è sintomo di un’unità politica che ricomprende anche la minoranza che vede in esse un principio irrinunciabile. Se questa “protezione” viene apertamente violata, se è contestata in radice, o peggio, se cade nell’indifferenza, se il velo è stracciato e gettato dietro le spalle, significa che una parte sociale è diventata, e si sente, estranea all’altra: che non ha interesse a rimanere suo interlocutore politico e morale. In questo senso l’indifferenza per una norma di principio, fino a ridurla a ragnatela lacerata, può generare una forma estrema di inimicizia politica. E in questo stesso senso le norme apparentemente più esposte ad essere lacerate come ragnatele sono sintomo di una realissima necessità costituzionale.

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