La Costituzione non è una legge qualsiasi


Il giudizio degli opinionisti indipendenti sui contenuti del d.d.l. 2544 di revisione della vigente nostra Costituzione, approvato dal Senato, è unanimemente negativo. Si lamenta l’istituzione del cd. premierato «assoluto» (con poteri che né Bush né Blair possiedono, e senza i limiti che i sistemi costituzionali americano e britannico prevedono); che il Presidente della Repubblica abbia perso le sue funzioni di garanzia; che i giudici di scelta politica della Corte costituzionale siano aumentati da cinque a sette e che la loro elezione sia stata attribuita in esclusiva al Senato federale integrato dai Presidenti delle Giunte regionali; che al Senato siano stati conferiti ampi poteri ma non quello di esprimere la sfiducia al Governo; che sia stata resa possibile l’istituzione di nuove Regioni con procedure semplificate; che siano stati ampliati a dismisura i poteri legislativi delle Regioni attribuendo ad esse anche la potestà esclusiva nelle materie dell’assistenza e dell’organizzazione sanitaria, dell’organizzazione scolastica e della polizia locale; che a tali ampi poteri, in settori così cruciali dell’ordinamento, non siano stati apposti specifici e puntuali limiti a garanzia dell’unità dell’ordinamento; che -con intento contraddittoriamente antiregionalistico- sia stato invece ripristinato il potenzialmente omnicomprensivo limite dell’«interesse nazionale» ecc. ecc.
In altre parole, il testo approvato, concernendo ben 40 articoli della vigente Costituzione, si propone come la «nuova» Costituzione della Repubblica (ancorché introdotta con modalità procedimentali contrastanti con l’art. 138, che consente solo revisioni «puntuali» ed «omogenee»). Né, per mascherare la portata eversiva del d.d.l. 2544, potrebbe essere opposto che esso non tocca le disposizioni della Prima parte relative ai diritti e ai doveri dei cittadini.
E’ infatti del tutto evidente che, in conseguenza sia del fatto che è proprio alla Camera dei deputati che spetta di decidere «in via definitiva» sulle leggi nelle materie che la Costituzione attribuisce alla potestà esclusiva dello Stato (tra cui, per l’appunto, la disciplina attuativa della gran parte dei diritti costituzionali), sia del potere di «ricatto» attribuito al Premier sulla Camera dei deputati (che egli può sempre sciogliere se essa gli si opponga), il Premier potrebbe, «forzando» la Camera e col beneplacito di una Corte costituzionale meno indipendente dell’attuale, modificare anche la disciplina attuativa delle disposizioni della Parte prima.
Di chi la responsabilità di tutto questo? Non mi sento, sinceramente, di affermare che essa spetti in esclusiva a Berlusconi, a Bossi, ai cd. saggi di Lorenzago e alla composita maggioranza di centro-destra. Essa spetta, ancor prima, a quanti, a partire dalla Commissione Bozzi del 1985, per continuare con le Commissioni De Mita-Jotti del 1992 e D’Alema del 1997, hanno accreditato, nell’opinione pubblica, la falsa idea che la Costituzione sarebbe, in sostanza, una legge come le altre, soltanto un po’ diversa perché modificabile con un procedimento speciale. Come tale, essa sarebbe sottoponibile, contestualmente, a tutte le modifiche che il Parlamento ritenga opportune, ancorché con taluni limiti (ma dalla discussa consistenza) in tema di diritti inviolabili.
Così opinando, non si è però riflettuto che la Costituzione non è soltanto una legge formalmente diversa dalle altre, ma è una legge tutt’affatto «speciale» dal punto di vista sia giuridico che politico: è la «Legge fondamentale» consistente bensì in un documento, che però vive, come un «tutto», nel significato ad esso dato dalle convenzioni costituzionali, dalla prassi parlamentare, dalla giurisprudenza (non solo costituzionale), dalle manifestazioni popolari e dalle battaglie giudiziarie condotte per la difesa dei suoi principi. Il che significa che anche profondi cambiamenti di essa sono ben possibili (purché non incidano sulla «forma repubblicana» sostanzialmente intesa), ma devono essere necessariamente graduali. E ciò proprio per evitare la traumatica (e perciò esiziale) distruzione di quel diffuso patrimonio di esperienze istituzionali e di ricordi personali che fanno sì che una Costituzione non sia solo un atto normativo, ma qualcosa di vivo e di interiorizzato nell’animo di tutti i cittadini.
L’aver confidato nel solo limite materiale dei diritti inviolabili, senza però la chiara consapevolezza dell’estensione degli stessi (la vicenda del cd. lodo Schifani è esemplare circa l’insensibilità delle forze politiche per il valore della stessa eguaglianza formale di fronte alla legge…), ha portato a questo: a dimenticare che la Costituzione si poggia sulle disposizioni organizzative non meno che sulle disposizioni che proclamano i diritti fondamentali, e che anche la Prima parte crolla se si incide, d’un colpo solo, sulle strutture organizzative previste nella Seconda parte.
Non posso perciò condividere l’idea, prospettata da taluni leader dell’opposizione, di sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica, anche a fini elettorali, un disegno alternativo di complessiva riforma costituzionale da contrapporre all’obbrobrio approvato dal Senato. Quell’obbrobrio è criticabile e va criticato in tutte le sedi. Il segnale, netto, da dare all’opinione pubblica, dovrebbe però, a mio avviso, essere soprattutto un altro. Proprio per il debito di riconoscenza che tutti gli italiani raziocinanti avvertono nei confronti della vigente Costituzione -che ci ha guidati nel progresso degli ultimi 55 anni-, la contrapposizione a quell’obbrobrio dovrebbe avvenire non nel nome di una futura riforma, bensì, per l’appunto, in nome della Costituzione del 1947.
In questo senso, l’opposizione dovrebbe lavorare per ridar vita ai valori di «moderazione» sottesi alla «nostra» Costituzione: la pariordinazione in essa riconosciuta ai poteri dello Stato, il garantismo insito nell’esercizio collettivo della potestà legislativa di Camera e Senato (il che non equivale affatto a conservare integralmente il bicameralismo perfetto), il pluralismo politico e culturale presupposto in tante sue norme, la capacità di sviluppo insita in esse (ad esempio, perché discutere ancora della possibilità del Premier di revocare un ministro, se questa possibilità è già stata acquisita alla prassi e, del resto l’art. 92 nemmeno la vieta?).
A livello costituzionale, per il momento, vedo la necessità di prospettare solo tre riforme (in tre distinti d.d.l. costituzionali, come appunto richiede l’art. 138):
1) il completamento della riforma del titolo V, sia caratterizzando il senso federale il Senato, sia riattribuendo allo Stato competenze legislative nel 2001 erroneamente attribuite in via concorrente alle Regioni (si pensi all’ordinamento della comunicazione, che a rigore ricomprende le poste, le telecomunicazioni oltre alla radiotelevisione), sia infine prevedendo «limiti certi» alla stessa potestà legislativa esclusiva delle Regioni (si badi bene: a tutela delle stesse Regioni contro eventuali «invenzioni interpretative»);
2) l’attribuzione alla Corte costituzionale della competenza a giudicare sui ricorsi contro le decisioni delle Camere in tema di verifica dei poteri;
3) l’adeguamento al mutato sistema elettorale (nel quale il quorum della maggioranza assoluta non è difficile da raggiungere) di quelle disposizioni costituzionali -relative all’elezione degli organi di garanzia- che tuttora presuppongono un sistema elettorale proporzionale.
Un esecutivo politicamente forte scaturisce da un sistema elettorale efficace, non dalla mortificazione della rappresentanza popolare (come invece pretende il d.d.l. 2544). E la disciplina del sistema elettorale spetta alla legge ordinaria (magari introducendo il ballottaggio al secondo turno elettorale), non alla Costituzione; così come è alla legge ordinaria, e non alla Costituzione, che spetta di garantire la democrazia interna dei partiti politici che si avvalgano del finanziamento pubblico, il pluralismo radiotelevisivo, la disciplina delle cause di ineleggibilità e incompatibilità parlamentari, le situazioni di conflitto d’interessi, e così via.

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