La detenzione e i diritti dei detenuti come tema costituzionalistico

Professore ordinario di Diritto costituzionale – Università di Roma Tre


Abstract

L’Autore illustra le ragioni della scelta del tema della detenzione quale oggetto del fascicolo monografico della Rivista. In particolare, l’Autore si sofferma sull’apporto che il costituzionalista può dare nell’affrontare il tema dei diritti dei detenuti, richiamando a tale fine l’impegno assunto nel 2003 con la creazione di “costituzionalismo.it”, riassunto nell’Editoriale di Gianni Ferrara “Le ragioni di una nuova rivista”.

The Author illustrates the reasons for choosing detention as subject of the monographic issue of this Journal. In particular, the Author focuses on the contribution that the constitutional lawyer may offer in addressing the theme of detainees’ rights, since the committment assumed in 2003 with the foundation of “costituzionalismo.it”, as summarized in the Editorial by Gianni Ferrara “Le ragioni di una nuova rivista”.


Perché dedicare al tema della detenzione e dei diritti dei detenuti un fascicolo della Rivista “costituzionalismo.it”? La risposta più immediata si lega alla ricorrenza dei quarant’anni dall’entrata in vigore della legge penitenziaria (legge 26 luglio 1975, n. 354), alla necessità di proporre un bilancio, di verificare, anzitutto, fino a qual punto il diritto sia riuscito a conformare una realtà che si muoveva lungo i tre fili conduttori della segregazione (il carcere come “luogo impermeabile e isolato dalla società libera”), della violenza (quale regola di governo dei rapporti tra i detenuti e tra questi e gli agenti penitenziari), dell’organizzazione rigidamente centralistica e verticistica dell’amministrazione penitenziaria (con un appesantimento burocratico che finiva, tra l’altro, per determinare significativi ritardi nelle risposte alle istanze della popolazione reclusa)[1]. Era una realtà, quella precedente alla riforma del 1975, consolidatasi grazie a una sostanziale continuità di indirizzi legislativi e di prassi operative che avevano attraversato l’esperienza dello Stato liberale, del regime fascista e dei primi trent’anni dell’Italia repubblicana, trovando una significativa formalizzazione nel Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena approvato con r.d. del 18 giugno 1931. Una realtà talmente consolidata da indurre a dubitare circa la capacità di penetrazione dei “nuovi” principi affermati con la riforma penitenziaria, tesa, in linea con i valori della Costituzione repubblicana, a porre al centro dell’esecuzione penale la persona, il rispetto della sua dignità e dei suoi diritti. Il rischio, insomma, come autorevolmente sottolineato da Franco Bricola, era quello di una “rinnegazione” pratica dei “nuovi” principi attraverso “la non applicazione e la manipolazione amministrativa delle norme”, nel segno di una “illegalità ufficiale” che al Maestro appariva quasi “connaturale” alla normativa penitenziaria[2].

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